il centro in periferia
di Lauso Zagato
I. Premessa
Qualche settimana fa mi sono imbattuto, assolutamente impreparato, nello intervento di alcuni anni fa della professoressa Ben-Ghial sul patrimonio dissonante italiano, intervento che nel nostro Paese aveva generato una accesa polemica, tesa a presentarlo come esempio di deleteria ossessione per la political correctness [1]. Di fronte a tale insolita ammucchiata politico/culturale, avevo a suo tempo, con superficialità ben poco scientifica, evitato di approfondire, ritenendola a prima vista giustificata. Ho così letto solo con anni di ritardo uno dei saggi più lucidi sulla questione del patrimonio dissonante, in particolare italiano, in cui mi sia imbattuto. Imbarazzo a parte, si è posto ai miei occhi il problema di controllare se, ed eventualmente fino a che punto, il lavoro svolto nel 2021 dall’Associazione Faro Venezia (cui appartengo) sull’argomento [2] fosse da rivedere.
L’angolatura da cui intendo riconsiderare la materia è quindi: quella delle espressioni di patrimonio dissonante. Dopo aver presentato la risposta fornita dall’Associazione nella Risposta alla FAQ 12 [3] (II) relativa alla Convenzione di Faro (CF), l’attenzione si amplierà a considerare (III) il patrimonio dissonante (o controverso), nella sua ipotesi estrema, che definisco di patrimonio divisivo (o contestato). Ritornerò infine (IV) sul caso del patrimonio dissonante italiano anche alla luce della recente esperienza sviluppatasi negli SU, prendendo le mosse dal contributo della Ben-Ghial.
Sottolineo intanto come il patrimonio culturale – qui considerato nel suo insieme, comprensivo dei beni materiali (mobili e immobili) come delle espressioni culturali intangibili [4] – si situi sempre più al cuore dei conflitti contemporanei, per motivi in parte riconducibili al processo di patrimonializzazione (heritagization) della cultura [5] in corso, in parte alla mutata natura dei conflitti armati. È facile constatare come, nel periodo che ha fatto seguito alla caduta del muro di Berlino, sempre più spesso «oggetto privilegiato dell’iniziativa militare nelle zone di conflitto diventa la distruzione di ogni traccia dell’altrui esistenza, e quindi delle altrui vestigia culturali» [6].
Simmetrica è la situazione definita come patrimonio conteso. Questa si verifica quando due o più Stati, entità etnico-linguistiche, religiose, e/o culturali, comunità di vario genere, entrano in conflitto circa l’appartenenza di un bene, di un sito, di singole (o di un complesso di) espressioni culturali, di cui le diverse Parti in causa si considerano legittime depositarie, per motivi di natura identitaria, o di prestigio, oppure, più prosaicamente, economica. Si pensi ai flussi turistici e alla quantità di denaro che il controllo di un sito di grande prestigio può comportare. Un esempio è la contesa, che all’inizio del secolo ha conosciuto momenti di vero e proprio confronto armato, tra Thailandia e Cambogia per il controllo (delle rovine) del complesso monumentale di Angkor-Wat.
Parlo di situazione simmetrica alla precedente, perché il confronto, anche sanguinoso, avviene tra comunità e gruppi contendenti, risparmiando proprio i beni culturali contesi. È il caso delle tombe dei patriarchi nella zona di Hebron, zona tra le più insanguinate della Palestina, che però non ha conosciuto distruzioni di un patrimonio religioso percepito come proprio dalle diverse identità cultural-religiose (le tre varianti del popolo del Libro) concorrenti. Di qua una riflessione amara quanto necessaria: anche quando nel corso di un conflitto armato un bene culturale venga risparmiato dai contendenti, non necessariamente è da vedere traccia in ciò di un possibile percorso di pace. Invero, «la tomba di Mosè è sacra ai membri di tre religioni, ma ciò non comporta alcuna apertura al riconoscimento reciproco tra le ragioni delle diverse comunità»[7].
II. La risposta alla FAQ 12 sulla Convenzione di Faro
Nella Risposta [8] elaborata dall’associazione Faro Venezia [9],viene definito patrimonio dissonante (o controverso) «un oggetto patrimoniale che può dare origine ad interpretazioni conflittuali o comunque in contrasto tra loro, da parte di gruppi socio-culturali diversi o dello stesso gruppo che cambia idea nel corso del tempo, oppure ancora da gruppi che dispongono di livelli di potere diversi». La Risposta prosegue definendo le diverse nozioni di dissonanza sincronica, dissonanza diacronica, dissonanza di potere. Come esempio di dissonanza sincronica vengono forniti quello dell’architettura (in Italia) fascista, o delle statue erette in onore di Cristoforo Colombo in Nord-America, su cui ci si soffermerà nell’ultima parte di questo contributo. Possiamo considerare, a livello nazionale, i Sassi di Matera, oggetto di controversia cangiante nel tempo: in questo caso dissonanza sincronica e diacronica si sono intersecati lungo il XX secolo, toccando anche i contrasti interni alla comunità scientifica non meno che al ceto politico [10].
L’espressione dissonanza di potere si riferisce in primis al potere di definire cosa sia e cosa non sia patrimonio culturale, potere che negli Stati europei è tradizionalmente stato appannaggio di una ristretta élite di specialisti, veri e propri padroni del (concetto di) patrimonio culturale. L’onnipotenza della casta in Francia è il motivo per cui tale Stato non ratificherà probabilmente mai la CF [11]. Quest’ultima attribuisce invero alle comunità patrimoniali [12] il diritto di scegliere un patrimonio culturale e l’obbligo dello Stato di tutelare tale scelta, con l’unico limite del rispetto degli altri diritti umani, assumendo così il diritto al patrimonio culturale lo status di diritto umano a pieno titolo.
Dissonanza di potere si riferisce anche, precisa la Risposta, al potere di inserimento del patrimonio culturale (materiale o immateriale) nelle Liste dell’UNESCO. L‘affermazione è da condividere, anche se, nel caso del patrimonio intangibile, una espressione culturale non lesiva di diritti umani avrebbe comunque la possibilità prima o dopo di venire inserita nella Lista, secondo le procedure previste. Nel caso contrario, non cesserà di essere espressione patrimoniale di una comunità; si tratterà, piuttosto, di espressione non meritevole di considerazione alcuna da parte dell’ordinamento giuridico interessato. Per fare un esempio, la prassi delle comunità protestanti di Belfast e Londonderry di festeggiare l’anniversario della vittoria orangista sfilando all’interno dei quartieri cattolici delle due città per portare distruzione e violenze (in passato anche sangue), ne ha identificato nei secoli una espressione patrimoniale. Si tratta peraltro di una espressione non degna di tutela alcuna, anzi da combattere risolutamente. Il riconoscimento delle espressioni culturali dal basso deve essere insomma assicurato, dagli Stati parte alla CF, nei limiti esclusivi in cui ne risulti appurato il non cozzare contro altri diritti riconosciuti.
La lettura offerta dalla Risposta si situa all’interno del quadro definito dall’art. 3 della CF, dedicato al patrimonio comune dell’Europa. A tale patrimonio, precisa la disposizione (lett. a), appartengono tutte le forme di patrimonio culturale esistente in Europa che, insieme, costituiscono una fonte condivisa di (il testo inglese è qui consigliabile) «remembrance, understanding, identity, cohesion and creativity». La successiva lett. b) aggiunge gli ideali, princìpi e valori derivati dall’esperienza conquistata attraverso i passati conflitti, che insieme annunciano lo sviluppo di una società pacifica e stabile fondata sul rispetto dei diritti umani, la democrazia e il rispetto della “rule of law”. È quindi la nascita di una nuova Europa (in senso ampio) che la CF, con una punta di ottimismo, intende annunciare.
In tale Europa si verifica non tanto il superamento tout court degli antichi motivi di contrasto, in particolare quelli legati al patrimonio: ciò significherebbe solo precipitare ulteriormente nel gorgo del (disperante quanto insulso) pensiero unico oggi dominante. Piuttosto, parliamo del governo di tali contrasti, giacché, secondo la Risposta, i diversi «casi di dissonanza si prestano molto bene come occasioni di apprendimento del pensiero critico e aperto». Di qua anche la centralità dell’educazione al patrimonio, tale da consentire alle società democratiche e aperte di «incorporare nella loro storia anche costrutti patrimoniali fortemente dissonanti senza il bisogno di distruggerli o demonizzarli».
Che succede dunque ove il mondo contemporaneo ci offra evidenza del permanere, e talora addirittura del rafforzarsi, di rotture insuperabili, manifestazioni di un odio alimentato nel tempo dalla presenza di un patrimonio radicalmente divisivo, in modo vieppiù forte nel tempo?
III. Patrimonio divisivo (contestato) v. patrimonio dissonante (controverso)
Vi sono infatti situazioni in cui la controversia su una espressione, o un oggetto (o un sito) patrimoniale presuppone (o comporta a posteriori) una divisività radicale, priva di mediazioni. Si badi, non è tanto l’eventuale esito violento della contesa a risultare decisivo. A mio avviso, la vicenda dei Buddha di Bamyian rientra a grandi linee nell’ipotesi di dissonanza diacronica di cui si è finora parlato. Se infatti l’Islam era già presente da tempo in Afghanistan occidentale all’inizio del XIII secolo, la distruzione della civiltà buddhista fiorente nella zona di Pamyian venne da est: fu prodotta cioè da una spedizione mongola (una delle ultime guidate di persona da Genghis Khan) nel 1219, con sterminio degli abitanti, e abduzione fisica dei non molti superstiti. L’esperienza culturale-religiosa buddista si estinse nella regione nel giro di pochi decenni, e l’Islam afghano ereditò senza colpo ferire l’intero Paese, comprese le grandi statue, non molto diversamente da come abitanti attuali di certe regioni ereditano costruzioni civili/religiose erette da popoli di cui si è persa memoria, che abitavano la contrada in precedenza.
Depone in tal senso proprio il fatto che l’aggressività, tipica dell’Islam afghano già prima dell’insediamento dei talebani a Kabul, non abbia mai sentito, nei molti secoli trascorsi, la necessità di distruggere quelle statue. Questa è emersa solo in epoca contemporanea (qui andrebbero richiamati gli errori commessi dall’UNESCO durante la crisi che portò alla decisione dei mullah di far saltare le statue) come una sorta di purificazione da parte della popolazione pashtun odierna del proprio passato idolatra. Una situazione di dissonanza diacronica insomma, il cui esito distruttivo è stato provocato piuttosto da motivi politico-religiosi, che da contrapposizioni esasperate di narrazioni cultural-religiose configgenti.
Quelle cui faccio riferimento come patrimonio divisivo/contestato sono invece ipotesi di espressioni culturali legate a narrazioni identitarie in contrasto assoluto tra loro, potenzialmente sempre sull’orlo di esiti estremi. Esemplare è il caso delle mancate scuse (e riconoscimento di risarcimenti ai discendenti) giapponesi alla Corea per gli atti perpetrativi nel corso dei primi decenni del ‘900, tra cui spicca l’orrore delle confort women durante il Secondo conflitto mondiale. Si tratta di una memoria atroce, che si scontra con un comportamento da parte delle autorità giapponesi odierne sprezzante, provocatorio [13]. Non diversamente può essere definito il costante tributo a Tokyo di visite e solenni cerimonie al santuario Yasukuni, monumento shintoista in cui si celebrano le anime di coloro che sono morti per la grandezza del Giappone. Tra questi figurano oltre mille persone perseguite per crimini di guerra, 14 dei quali imputati di classe A, giudicati cioè e condannati dal tribunale internazionale di Tokyo nel 1945. Al termine di tale processo, sette tra questi furono giustiziati, i rimanenti condannati a lunghe pene detentive (ma graziati e liberati nel 1958).
L’esistenza di un monumento ufficiale a Tokyo in cui si rende ininterrotto omaggio ad alcuni tra i peggiori criminali della guerra nel Pacifico, perdurando il silenzio del Giappone sull’ammissione delle proprie colpe [14], è fonte di grande tensione con la Corea (oltre che con la Cina). Di recente la situazione si è fatta più grave avendo il Giappone nel 2015 proposto l’iscrizione di oltre venti siti legati all’industrializzazione del secondo Ottocento (rivoluzione Meji) nella Lista UNESCO del patrimonio dell’umanità, sostenendo che tali siti (miniere, fabbriche, cantieri navali) rappresentavano lo straordinario conseguimento da parte del Giappone dell’industrializzazione in un periodo di tempo assai breve, grazie alla fusione tra apporto delle tecnologie occidentali e cultura tradizionale giapponese. La Corea si oppose strenuamente, in nome delle sofferenze delle decine di migliaia di lavoratori coreani coatti (circa 60 mila) che avevano edificato e messo in funzione svariati tra quei siti, in violazione di tutti i diritti umani [15]. La richiesta giapponese è stata purtroppo accolta dall’UNESCO (2017), che vi ha visto solo «the first successful transfer of Western industrialization to a non-Western nation». Anche la estrema richiesta coreana che le iscrizioni nei luoghi interessati riportassero la vicenda dei lavoratori forzati coreani non è stata accolta in sede UNESCO [16]; peggio, ha raccolto derisione dalle risposte da parte giapponese in sede istituzionale, con l’affermazione che la Corea aveva conosciuto effetti benefici, sia economicamente che socialmente, dalla colonizzazione giapponese.
Al di là della cautela dimostrata dal governo coreano di fronte al rischio di dare il via ad una rottura radicale con uno Stato che nell’attuale scacchiere asiatico è alleato non solo militare, ma anche – almeno in superficie! – in senso politico-culturale [17], il monumento shintoista di Tokyo e la (purtroppo vincente) richiesta di inserimento seriale dei luoghi dell’industrializzazione nella Lista UNESCO, accompagnati dalla risposta sprezzante all’ondata di sentimenti che tra i coreani ciò ha generato e continua a generare, costituiscono manifestazioni di una divisività sincronica attualissima, effetto di memorie antagoniste che perdurano, rimanendo peraltro (e per fortuna) ingessate per motivi geopolitici. Quanto appare più inquietante è che l’opinione pubblica giapponese non solo ha puntualmente condiviso l’atteggiamento del proprio governo, ma lo ha spesso condizionato pesantemente in senso oltranzista.
Non posso soffermarmi su un altro esempio, quello dell’assalto neonazista alla grande manifestazione del maggio 2011 davanti al monumento al milite ignoto a L’viv in Ucraina [18]. Non vi è dubbio trattarsi del prodromo all’inizio del conflitto armato, nel 2014 [19]. Sarebbe più corretto forse parlare di prodromo immediato, dal momento che la catena di eventi, cause e concause è in realtà complessa e risalente. In ogni caso, la divisività assoluta era ormai fatto compiuto da tempo, e il conflitto è puntualmente esploso nel 2014 (per venire rilanciato oggi su scala terrificante), al venir meno della condizione di ingessamento geo-politico che lo aveva in precedenza tenuto bloccato [20].
Piuttosto, esempio di patrimonio divisivo/contestato, all’interno dell’Europa occidentale, è quello che riguarda Oradour-sur-Glane, il villaggio del Limosino attaccato e distrutto dai nazisti il 10 agosto 1944, con massacro degli abitanti, reso ancor più atroce dalle modalità dell’esecuzione: gli abitanti ignari furono portati in piazza, i maschi trascinati fuori paese e fucilati, donne e bambini condotti in chiesa, cui venne dato fuoco. In tutto gli uccisi furono 642. Per volontà dei superstiti il paese non venne ricostruito, ma uno nuovo venne edificato a lato, mentre le rovine si trasformarono in Museo a cielo aperto dell’eccidio. Pur se il governo De Gaulle, appena insediato, nominò ufficialmente Oradour monumento storico, fu tuttavia potente fin dall’inizio, e alla lunga non resistibile, l’operazione di soffocamento della gravità dell’accaduto.
Ciò emerse con maggior chiarezza qualche anno dopo attraverso un processo farsa in cui il fatto che i partecipanti all’eccidio fossero in misura non trascurabile alsaziani (uno dei quali volontario) [21], cioè tedeschi al momento della strage ma di nuovo francesi dopo la guerra, funzionò inopinatamente come chiave per il “tutti a casa”. La narrazione dei poveri soldati di leva costretti loro malgrado (?) all’eccidio si impose di pari passo con il crescente quanto osceno giustificazionismo circa la Francia di Vichy, che avrebbe evitato il peggio allo Stato [22]. La memoria di Oradour e la memoria ufficiale della Francia rimasero in contrasto radicale, muro contro muro, per decenni [23]; sulla vicenda del villaggio martire finiva insomma per incentrarsi la storia parallela delle due France. Con tremenda ironia delle cose, il contrasto si sarebbe poi inesorabilmente trasferito all’interno della comunità degli ex-oradouregni, perché tra le giovani generazioni, sempre meno disponibili a vivere ostaggio della memoria, negli anni ’90 avrebbe addirittura goduto di un certo successo il FN lepenista. Nel caso di Oradour siamo quindi in presenza di una divisività assoluta centrata sulle rovine, che si presenta inizialmente come diacronica per poi sincronizzarsi sul qui ed ora delle due France, le cui narrazioni si negano reciprocamente lungo tutta la seconda metà del XX secolo.
Piuttosto, nel nuovo secolo assistiamo forse ad un parziale riposizionamento di significato della lotta attorno a quelle vestigia. Proprio l’accuratezza nel mantenere inalterata la struttura della vita del villaggio negli anni ’40 ne ha fatto, sul piano dell’archeologia abitativa, un unicum; si è osservato come «la malinconia per un passato lontano prenda qua e là il sopravvento sugli orrori della memoria nazista» [24]. Su ciò, e quindi sulla tendenzialmente nuova caratterizzazione delle rovine di Oradour, non va certo espresso un giudizio negativo, anzi. Bisognerà peraltro monitorare i passaggi successivi. Resta che il graduale sedimentarsi nel caso di Oradour delle memorie nefaste del Novecento, che tuttora ci inseguono, risulterebbe congruo con l’annuncio di un nuovo clima in Europa operato dall’art. 3 della CF, e in ultima analisi con la lettura della nozione di patrimonio dissonante fornita della Risposta.
IV. Come va affrontata la sfida del patrimonio dissonante? Critica del modello italiano
Veniamo finalmente alla questione italiana. Ho accennato all’inizio a come una aspra critica verso l’articolo della professoressa Ben-Ghial [25] abbia accumunato politici e amministratori tutti, e soprattutto i professionisti del patrimonio. Cosa scrive di tanto terribile la studiosa? Prima di tutto mette in risalto come, a differenza di quanto avvenuto in Germania (legge contro l’apologia di nazismo del 1949 che impedì per molti anni, fino a dopo la riunificazione, la ri-ostentazione dei simboli e dei rituali nazisti) e in Francia (cancellazione di statue, nomi di vie e di piazze intitolate a Petain e ai suoi collaboratori), a differenza anche dello sforzo in atto negli SU, sull’onda degli episodi di brutalità della polizia, di liberarsi dei simboli più orridi della Confederazione (sorta di continuum monumentale che gli schiavisti hanno eretto a se stessi), in Italia non è avvenuto nulla del genere. L’autrice non si limita però a una banale denuncia del pericolo di un ritorno del fascismo: piuttosto, sviluppando una originale linea di pensiero, punta il dito in una direzione inaspettata. È quanto spiega la reazione furibonda di tanti professionisti del patrimonio.
Riattraversiamo alcuni degli esempi svolti dalla Ben-Ghial: si va dall’ex primo ministro Renzi che annuncia la candidatura italiana all’organizzazione delle Olimpiadi 2024 al Foro Italico, collocandosi di fianco al dipinto “L’apoteosi del fascismo” (coperto dagli Alleati nel 1944, ma poi scoperto su proposta del sindaco Veltroni nel 1998), al sindaco di Affile (Liguria) che inserisce un memoriale dedicato al generale Graziani (collaboratore stretto dei nazisti dopo l’8 settembre e già prima autore di crimini efferati) in un parco costruito con il finanziamento della Regione (a guida centro-sinistra). Quest’ultima solo a seguito del movimento di sdegno creato dalla notizia – sdegno di cui i solerti amministratori non vedevano ragion d’essere alcuna – ritira il finanziamento. E quando l’allora Presidente della Camera Laura Boldrini propone nel 2015 di rimuovere l’iscrizione del nome di Mussolini dall’obelisco del Foro Italico, è travolta dalla protesta non di “nostalgici” ma dei professionisti della gestione del patrimonio, che denunciano scandalizzati la minaccia che «a masterpeace (?) should be defamed».
Tali esempi consentono alla professoressa americana di arrivare al punto: i monumenti del fascismo sono trattati in Italia «merely as depoliticized aesthetic objects» con l’effetto che il loro tratto ideologico è colto solo dall’estrema destra, mentre tutti gli altri hanno fatto l’abitudine, non capiscono neppure più il contenuto di quei simboli, come testimonia l’episodio (di per sé tragicomico) di un premier che candida l’Italia in mondovisione mettendosi in posa vicino al quadro che raffigura Mussolini in veste di demiurgo (o di dio).
Prima di tutto, a parte un ottimismo forse eccessivo circa la situazione in altri Stati europei (e negli SU), trovo l’articolo rigoroso per il suo contenuto. Certo, l’atteggiamento critico è univoco, non può cogliere alcuni (piccoli) segni di mutamento in corso. Di recente nell’ambito di un programma europeo [26] di cui Forlì è capofila è stato affrontato in termini costruttivi il problema del possibile utilizzo diverso dell’architettura di regime presente in quella città. La ricerca è assai valida, si incrocia con altri sentieri paralleli di ricerca storica e didattica [27]. Nell’occasione si sono sviluppati anche progetti paralleli, tra cui quello, a sua volta in sé apprezzabile, di analizzare se esista uno «spazio per costruire un prodotto turistico senza connotati nostalgici» [28].
Il problema denunciato dalla Ben-Ghial torna peraltro a ripresentarsi con implacabile ripetitività. Basta scorrere la rete: troviamo elenchi dell’architettura fascista in Italia in cui si ribadisce il dovere di tramandare il patrimonio culturale e artistico nazionale nella sua totalità, anche in virtù di quanto lo distinguerebbe dall’arte degli altri regimi totalitari, nazista e stalinista [29]. Si arriva a richiamare senza vergogna il c.d. Colosseo Quadrato, quello recante la famosa scritta del 1935 che definisce l’Italia «paese di artisti, di eroi, di Santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori»[30].
Tale frase – a nessuno dovrebbe essere concesso di ignorarlo – era contenuta nel discorso che annunciava, con l’invasione dell’Etiopia, i crimini spaventosi compiuti durante e dopo. Va evitata la retorica del tipo “Italiani brava gente”! [31]. Nel periodo tra le due guerre, quindi dal 1918 al 1 settembre 1939, tre sono, alla stregua del diritto internazionale di guerra allora vigente, gli episodi di crimini particolarmente gravi avvenuti: il ricorso al gas da parte italiana durante la battaglia dell’Amba Aradan nel 1935 (quindi a conflitto in corso), lo sterminio di massa di uomini, donne e bambini a Nanchino dopo la presa della città da parte giapponese a fine 1937, ancora l’uso italiano dei gas nel 1939, sempre nell’Amba Aradam, questa volta su scala ben più ampia, contro la popolazione civile inerme (donne e bambini di tribù ribelli che avevano cercato rifugio nelle grotte dell’Amba) [32].
Il richiamo all’Amba Aradam ci conduce all’ultima parte del discorso qui affrontato, quello sul patrimonio coloniale dell’Europa, che nel nostro Paese interseca ampiamente ma non si confonde con la questione delle vestigia del fascismo, rappresentando il vero grumo di tenebra che sta al fondo della questione. Solo in alcuni casi la questione è esplosa pubblicamente, in particolare quando si è discusso della restituzione all’Etiopia dell’obelisco di Axum: ricordiamo che si trattava di un obbligo imposto dal Trattato di pace del 1947 (art. 37), essendo l’Etiopia Stato sovrano membro di quella Società delle Nazioni, che non aveva mai accettato il fatto compiuto dell’annessione da parte dell’Italia [33]. Quanto alla restituzione alla Libia della c.d. Venere di Cirene, scese in campo addirittura, per impedire tale sacrosanto atto, una ONG per altri versi benemerita quale Italia Nostra [34].
Al posto dell’obelisco si trova ora un monumento che ricorda l’11 settembre e riporta la citazione «coloro che non sanno ricordare il passato sono condannati a ripeterlo». Giustissimo erigerlo, ma perché al posto dell’obelisco? La stessa citazione suona grottescamente ironica, l’operazione si rivela mezzo per rimuovere la cattiva coscienza. Andava invece ricordata, e la citazione si applicava a pennello, la cupa vicenda cominciata nel 1936-37 e finita nell’anno della restituzione (2008).
Torniamo all’Amba Aradam, battaglia celebrata dal fascismo con l’intitolazione di molte vie in diverse città, intitolazione sopravvissuta alla caduta del regime, come è avvenuto per molti altri luoghi (e protagonisti!) dell’avventura coloniale, non solo italiana. Il fatto che con il tempo la verità storica sia stata accertata, non ha cambiato i nomi delle nostre vie, né l’assenza di memoria di quanti le attraversano e le vivono. Solo negli ultimi anni si notano cambiamenti. L’inizio è stato il movimento di protesta a Roma quando si è parlato della stazione Amba Aradam/Ipponio per la linea C della metropolitana. Finalità del movimento non era la rimozione tout court, Il comitato formatosi richiedeva piuttosto la spiegazione di cosa significava davvero, in particolare per noi italiani, il richiamo all’Amba Aradam. Ciò era tanto più opportuno dal momento che la stazione dovrebbe essere una stazione museo [35], esponendo resti della Roma antica ricchi di spiegazioni accessibili ai turisti in svariate lingue. L’amministrazione uscente, per togliersi d’impaccio, decise di intitolare la stazione all’eroe della Resistenza italo-somalo Giorgio Marincola, ucciso dai nazifascisti nel 1945, medaglia d’oro della Resistenza.
Voglio essere chiaro: si tratta di un giovane eroe troppo a lungo dimenticato, e capisco bene la reazione positiva delle associazioni come Black Lives Matter ed altre. Tuttavia, dal punto di vista che qui rileva, si tratta di una soluzione analoga a quella presa per il luogo dove giaceva l’obelisco di Axum. Siamo davanti all’ennesima manifestazione di falsa coscienza volta a cancellare le tracce di passati orrori commessi dal nostro Paese (e più in generale, ripeto, dall’Europa) nei confronti in particolare dell’Africa. Nella rimozione, dei nomi delle vie come dei monumenti, non c’è nulla di politically correct; al contrario è astuzia di chi ha interesse a mantenere il silenzio sul passato, a lasciare ogni cosa come prima, anche utilizzando strumentalmente un eroe della Resistenza dalla pelle un po’ più scura, e nel contempo strizzando l’occhio alla parte più retriva dell’opinione pubblica, quasi a dire: ci hanno costretti questi fanatici.
Di recente l’indicazione di un percorso corretto è venuta dalla città di Padova: alcune vie dedicate agli eventi più spaventosi della guerra devono rimanere, ma saranno accompagnate da targhe che spieghino a quale infausto evento sono collegate [36]. Il fatto che la relativa mozione, introdotta da una forza dell’attuale maggioranza, abbia goduto di un più ampio consenso, costituisce elemento ulteriore di conforto.
Al momento di concludere, posso affermare con sollievo che non c’è nulla di inadeguato nella Risposta. Piuttosto, bisognerà inserire una specificazione nella risposta alla FAQ relativa all’art. 3 b) CF. Quando la CF parla del passato conflittuale da cui l’Europa vuole uscire e sta provando ad uscire (anche se avvenimenti terribili sembrano ogni volta volerci ricacciare indietro), il riferimento non può essere solo alle guerre che hanno insanguinato il continente al suo interno. Oltre al cortile di casa nostra va considerata la guerra che l’Europa tutta ha mosso al resto del mondo, e al debito di dolore e di orrore che essa porta con sé.
È anche il momento di intensificare la critica, sul piano scientifico-culturale come delle proposte pubbliche, all’inaccettabile linea conservazionista ad ogni costo, anche di lavori privi di qualsiasi valore ma solo nobilitati (?) dalla patina temporale, da parte delle autorità della gestione del patrimonio. Abbiamo accertato qualcosa di nuovo: quando viene in discussione il grumo di tenebra del colonialismo, e l’immobilismo non sia oltre difendibile, si preferisce da parte istituzionale la cancellazione all’utilizzo di quelle stesse iscrizioni e intitolazioni a fini di ricostruzione pubblica di una verità storica che non si vuol lasciare emergere. In qualche caso, peraltro, la realizzazione di validi percorsi espositivi e museali [37] testimonia primi successi nell’opera di scoperta/riscoperta della storica recente più controversa.
La questione si pone in termini non dissimili, mi sembra, negli SU. Ho ascoltato e letto con grande attenzione le interviste televisive ai c.d. radicali afro-americani, e non ho mai ascoltato discorsi fondati su una logica ispirata ad iconoclastia, ma sempre volti all’utilizzo a fine di spiegazione e ricostruzione di verità, o inserendo spiegazioni e targhe nei luoghi (pensiamo agli ex mercati di schiavi nelle città del sud) o ritirando dalle strade e dalle piazze opere non oltre proponibili, ma per rileggerle e spiegarle all’interno di percorsi museali ad hoc [38]. Ciò diventa particolarmente interessante quando un percorso evolutivo in tal senso viene intrapreso proprio nella città di Richmond, l’ex capitale della Confederazione, rimasta anche in seguito capitale della c.d. lost cause. È un passaggio molto significativo, bisognerà però tornarci sopra in modo specifico.
E quindi, riprendendo lo spunto iniziale: lode al prezioso macigno scagliato a suo tempo dalla professoressa Ben-Ghial nella palude della conduzione patrimonialista italiana!
Dialoghi Mediterranei, n. 55, maggio 2022
Note
[1] Vd. Oltre, IV.
[2] Vd. oltre, II.
[3] D’ora in poi: la Risposta.
[4] O immateriali, anche se il termine non è preciso
[5] Rimando ai miei Opening Remarks, in Simona Pinton, Lauso Zagato (edited by), Cultural Herfitage. Scenarios 2015-2017: 43-47. Ivi anche per un richiamo alle origini dell’espressione, coniata nel 2005 dall’antropologo francese Francois Hartog.
[6] Lauso Zagato, Rassicurare anche le pietre, ovvero: il patrimonio culturale come strumento di riconciliazione?, in Laura Picchio Forlati (a cura di), Rassicurazione e memoria per dare un futuro alla pace, CEDAM, Padova, 2012: 109-134 (116). Emblematico di quanto si viene dicendo è la frase, pronunciata nel corso della guerra nella ex-Jugoslavia, dal sindaco serbo, «There never were any mosques in Zvornik», al termine della distruzione di ogni vestigia culturale islamica (le sole moschee credo fossero almeno nove) della città bosniaca. Vd. Suzanne Schairer, The Intrsection of Human Rights and Cultural Property Issues under International Law, in Italian Yearbook in International Law, 2001: 69.
[7] Lauso Zagato, Rassicurare …, cit.: 174.
[8] Convenzione Quadro sul valore del patrimonio culturale per la società, CETS n. 199, Faro, 25 ottobre 2005, (ratificata ad oggi da 21 Stati CoE).
[9] Al sito https://farovenezia.org/2021/01/15/faq-12-patrimonio-dissonante/. Il lavoro è ancora in corso, dovendo essere completata la Parte II (cui appartiene la risposta in oggetto), e svolta per intero la Parte terza, decisiva, dedicata all’approfondimento della nozione di comunità patrimoniale e dei problemi, teorici e pratici, inerenti.
[10] Vd. nella sterminata bibliografia sull’argomento: Pietro Laureano, Giardini di pietra. I sassi di Matera e la civiltà mediterranea, Torino, Bollati Boringhieri, 2012; Aldo Musacchio, Per un’interpretazione dei sassi di Matera, Editer, 1997; Antonella Tarpino, Geografie della memoria, Torino, Einaudi, 2008: 47-77.
[11] Anche in Italia la ratifica della CF ha incontrato una forte opposizione; che non ha esitato a servirsi di argomentazioni a dir poco sconcertanti, quale la pretesa inutilità dello strumento, dal momento che le esigenze di cui si fa interprete sarebbero già pienamente garantite dal nostro ordinamento (sic!).
[12] Comunità patrimoniale, dice l’art. 2 b della CF, è un insieme di persone che “attribuiscono valore a degli aspetti specifici del patrimonio culturale, che essi desiderano, nel quadro di un’azione pubblica, sostenere e trasmettere alle generazioni future”.
[13] Vd. sull’argomento Karina Korostelina, Understanding Values of Cultural Heritage within the Framework of Social Identity Conflicts, in Enirca Avrami, Susan Macdonald, Randall Mason, David Myers (ed. by), Values in Heritage management. Emerging Approaches and Research Directions, 2019, al https://www.getty.edu/publications/heritagemanagement/ .
[14] Il negoziato tra Giappone e Corea aveva portato ad un Trattato nel 1965 con il quale il Giappone – evitando con cura di parlare di risarcimenti ma solo di misure di cooperazione economica – versò una forte cifra alla Korea, intendendo così risolta definitivamente ogni questione. La cifra venne peraltro utilizzata dall’allora governo coreano per la creazione di nuovi insediamenti industriali, e solo in minima parte per risarcimenti; da questi vennero comunque esclusi del tutto gli ex internati in Giappone (costretti ai lavori forzati) e le ex confort women.
[15] Arsushi Kodera, “UNESCO faces Japan’s Legacy of Forced Labor in Heritage Bid”, in Japan Times, 25 maggio 2015.
[16] Scelta esecrabile da parte dell’organizzazione; di qua la giustificazione dell’avvertenza, apparentemente ripetitiva, data sopra nella Risposta, II.
[17] La Corea ha cercato piuttosto l’appoggio degli SU, garanti dell’alleanza transpacifica, non ottenendo nulla più che un generico riconoscimento delle sue ragioni.
[18] Vd. Karina Korosterina, cit.
[19] Vd. la lucida ricostruzione del Generale Mini di Manfredonia (ex comandante truppe NATO in Kosovo): «Non è stato Putin a cominciare la guerra». Il generale ricorda come dal 2014 sia in atto una feroce campagna militare contro le province del Donbass dichiaratesi indipendenti, ai limiti dello sterminio fisico, campagna avvolta in un generale silenzio complice, e come dal 2014 SU e NATO abbiano riversato miliardi di aiuti militari e migliaia di professionisti della guerra per arricchire e addestrare i gruppi estremisti e neo-nazisti. Vd. l’intervista rilasciata a L’Antidiplomatico (https://lantidiplomatico.it/dettnesw…/5496_45535) e riportata in https://www.statoquotidiano.it/01/04/2022/generale-mini-dimanfredonia-non-e-stato-putin-a-iniziare-la-guerra/923679/.
[20] Quanto alla giustificazione da parte russa dell’intervento militare (la denazificazione dell’Ucraina), il suo carattere strumentale è subito evidente ove si rifletta che essa viene addotta da parte di un governo che negli ultimi anni ha finanziato generosamente tutti i gruppi di destra radicale presenti in Europa occidentale.
[21] Il processo di Bordeaux iniziò nel 1953, e durante il suo svolgimento vennero votate dal parlamento nazionale francese importanti misure di amnistia per gli ex collaborazionisti. Solo il capo dei quattro tedeschi processati e il volontario alsaziano furono condannati a morte, ma la condanna non fu eseguita fino a quando nel 1958 vennero graziati a loro volta. Meno di cinque anni dopo la fine del processo tutti i responsabili dell’eccidio in mano alla giustizia erano liberi. La pretesa politica dell’Alsazia che fosse posta una pietra sopra gli strascichi della guerra risultò vincente. Per contrasto, bisogna riconoscere che in tempi recenti proprio la procura tedesca responsabile per la caccia ai responsabili di crimini nazisti ha investigato e rinviato a giudizio un superstite del reparto autore della strage. A così grande distanza di tempo il valore dell’iniziativa giudiziale è poco più che simbolico, ma tuttavia sufficiente per contribuire a smascherare la risalente menzogna istituzionalizzata di parte francese.
[22] La repubblica di Vichy fu la più fedele ed entusiasta alleata nella caccia agli ebrei di cui la Germania nazista abbia goduto (a parte proprio l’Ucraina); lo avrebbe ammesso, piacevolmente sorpreso – e con intento critico verso i governi fascisti italiano, spagnolo, e degli Stati balcanici alleati che non facevano abbastanza – il massimo esperto in materia, Reynard Heydrich, in occasione della Conferenza di Wannsee nel gennaio 1942, ove fu pianificata, sotto la sua guida, la soluzione finale. È il caso di credergli.
[23] Osserva Antonella Tarpino (Geografia cit.: 143) come fin dall’inizio fossero all’opera distinte memorie «intorno alla rovina di quel luogo distrutto. Da un lato la memoria istituzionale che elevava Oradour a simbolo dell’unità nazionale virtuale, lacerata invece, come fu, dalle spaccature maturate nel corso della tragica esperienza di Vichy; dall’altro la memoria locale espressa da un piccolo gruppo di sopravvissuti e notabili della zona, intesa a salvaguardare le poche tracce del passato, mettendo in scena, con i resti stessi del proprio dramma, la rappresentazione dell’offesa patita».
[24] Ivi: 163. In sostanza, la salvaguardia della memoria si era avvalsa di un sistema di targhe esposte sull’esterno dei resti delle case, in cui venivano riportati i nomi degli abitanti oggetto dell’eccidio, e i mestieri da loro svolti. Proprio questa parte dell’accurata ricostruzione riportava in luce l’esistenza, in pieno XX secolo, di una serie di mestieri di cui si è completamente persa la memoria dopo la guerra, e finiva per dare preziosi e unici ragguagli scientifici agli studiosi; ciò al di là delle motivazioni iniziali che avevano spinto un piccolo gruppo di superstiti, nell’indifferenza ostile dello Stato, a sobbarcarsi un lavoro di tali proporzioni (e costi).
[25] Ruth Ben-Ghial, Why are so Many Fascists Monuments still Standing in Italy, New Yorker, October 5, 2017. Si tratta di una qualificata specialista, professoressa di storia e italianistica alla NY University.
[26] South East Europe Project “ATRIUM – Architecture of Totalitarian Regimes of the XX° Century Urban Management”.
[27] Il punto più alto è a mio avviso la costruzione di “Resistenza Mappe” che trasforma luoghi di dominio e di oppressione in percorsi simbolo di riscatto e resistenza. La mappa prevede quattro percorsi, distinti ma interfacciati: il percorso dei luoghi della presenza ebraica in città, il percorso dell’architettura fascista, quello dei luoghi delle agitazioni operaie e popolari (che scandiscono la giornata insurrezionale del 27 marzo 1944), per concludersi con la presentazione dei luoghi della repressione, della stampa clandestina e della memoria. Il tutto è denso e commovente
[28] Patrizia Barillari, Cristina Bernini, Alessia Mariotti, Un Heritage controverso come prodotto turistico: l’architettura del periodo fascista a Forlì, In Garibaldi, Roberta. Il turismo culturale europeo: le città rivisitate, Milano, FrancoAngeli: 88-100, consultabile al sito https://cris.unibo.it/handle/11585/423567.
[29] Come è stato osservato, «la pianificazione urbanistica non è mai attività neutra, giacché contribuisce a plasmare…il ‘retaggio mentale’ dei cittadini». Di fronte a monumenti celebrativi di episodi e persone terribili del passato tendiamo a dimenticare che proprio la celebrazione di quelle stragi, e di quelli stragisti, era lo scopo del monumento. Cfr. Non possiamo limitarci a conservare, in miriconosci, 13 giugno 2020. https://www.miriconosci.it/patrimonio-controverso-cosa-fare/
[30] Per tale sciagurato richiamo, a dire il vero improntato con ogni probabilità a ignoranza del contesto della scritta – vd. Marianna Somma, Architettura fascista: Esempi, caratteristiche e stile littorio, 30 marzo 2021, https://www.totaldesign.it/architettura-fascista/.
[31] Famoso film del 1964 diretto da De Santis.
[32] Oggi il discorso sarebbe diverso, essendo nel frattempo stato ratificato dalla gran parte degli Stati il primo Protocollo addizionale alle Iv Convenzioni di Ginevra del 25 agosto 1949, concluso nel 1977, che impone obblighi assai più stringenti. Mancano tuttavia all’elenco dei ratificanti SU, Israele, Turchia, Iran, e (pochi) altri, mentre la Federazione russa ha ritirato la propria adesione nel 2019.
[33] Su questo poco onorevole passaggio della nostra storia recente si esprime con chiarezza Scovazzi: «È preferibile non ricordare tutte le ben poco presentabili giustificazioni escogitate già all’epoca dell’elaborazione del Trattato di pace e in seguito da ambienti pubblici e privati italiani per evitare o ritardare la restituzione. Già nel 47 l’Italia aveva cercato di inserire una clausola limitativa, che facesse esenti i risultati degli scavi archeologici e delle missioni scientifiche, quasi nel trattenere un bene razziato ad uno Stato aggredito potesse vedersi un interesse generale». Così Tullio Scovazzi, Analisi e significato della prassi italiana, in ID. (a cura di), La restituzione dei beni culturali rimossi con particolare riguardo alla pratica italiana, Milano, Giuffré, 2014: 85. Non solo l’Italia tentò fino all’ultimo di non dare corso ad un suo preciso obbligo giuridico, ma ancor oggi la falsificazione della verità circola spudoratamente in rete. Leggo in Rerum Romanarum (2019), che l’Itala nel 1947 «si era proposta di restituire ..». Come si era proposta? Era un obbligo (giustamente) imposto dai vincitori ad uno Stato aggressore!. https://www.rerumromanarum.com/2019/05/stele-di-axum.html. Tra i contributi volti a far chiarezza sul punto va segnalato un apprezzabile articolo comparso sull’organo della Santa Sede: V. Giulio Albanese, Diritto alla restituzione, ne L’Osservatore romano, 4 giugno 2021, al sito https://www.osservatoreromano.va/it/news/2021-06/quo-124/diritto-alla-restituzione.html
[34] Sulla vicenda si sofferma Tullio Scovazzi, op.cit.: 137-141; vd. anche Lauso Zagato, Simona Pinton, Marco Giampieretti, Lezioni di diritto internazionale del patrimonio culturale, Venezia, Cafoscarina, 2019: 213-215.
[35] Vd. per la presentazione del progetto, alla fine del 2016, http://pgnrcr.altervista.org/si-sblocca-amba-aradam-ecco-come-sara-la-stazione-museo/
[36] Si tratta di via dell’Amba Aradam, via Tembien, via Lago Ascianghi (il ricorso al gas e altre armi vietate ha avuto luogo anche negli ultimi due casi); in tutti e tre i casi verrà apposta, con cerimonia pubblica, una targa recante la dicitura “crimine di guerra fascista”
[37] Vd. il percorso BZ ’18-’45, realizzato a Bolzano proprio sotto il Monumento alla Vittoria voluto dal regime fascista, e che ha avuto un riconoscimento speciale da parte dell’European Museum Forum nel 2016. V. anche il nuovo Museo Italo-africano Ilaria Alpi a Roma, che aprirà all’interno del Museo delle Civiltà. Non sappiamo ancora nulla, ma piace il quesito posto sulla pagina on-line: Come immaginare un museo decoloniale? Vd. https://museocivilta.cultura.gov.it/italo-africano/
[38] Le statue a Colombo pongono problemi non banali, ma che richiedono approfondimenti non realizzabili in questa sede.
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Lauso Zagato, giurista, già docente di Diritto Internazionale e Diritto dell’Unione Europea all’Università Ca’ Foscari di Venezia, è stato anche titolare del corso di Diritti umani e politiche di cittadinanza presso il Corso di laurea specialistica in Interculturalità e cittadinanza sociale della stessa Università. Si è occupato in particolare di problemi legati ai profili internazionali e comunitari della protezione della proprietà intellettuale, di diritto umanitario e di tutela dei beni culturali nei conflitti armati, nonché del patrimonio culturale intangibile e delle identità culturali delle minoranze e dei popoli indigeni. Tra i suoi lavori: La politica di ricerca della Comunità europea (1993); La protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato all’alba del secondo Protocollo 1999 (2007). Ha curato il volume collettaneo Verso una disciplina comune europea del diritto d’asilo (2006) e, più recentemente: Le culture dell’Europa, l’Europa della cultura (2012 con M. Vecco); Citizens of Europe. Culture e diritti (con M. Vecco); Cultural Heritage. Scenarios 2015-2017 (con S. Pinton); Il genocidio. Declinazioni e risposte di inizio secolo (2018); Lezioni di diritto internazionale ed europeo del patrimonio culturale (2019, con S. Pinton e M. Giampieretti). È stato tra fondatori, e poi Direttore, del Centro studi sui diritti umani. Attualmente coordina il gruppo di ricerca su “La difesa del patrimonio e delle identità/differenze culturali in caso di conflitto armato”, che opera sotto l’egida della Fondazione Venezia per la ricerca sulla pace.
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