il centro in periferia
di Settimio Adriani
«Il bosco che avanza» è la scritta posta sulla gigantografia affissa dalla Pro Loco di Fiamignano sulla parete di un edificio (disabitato!) nei pressi della piazza, di fronte all’unico bar del paese, nel luogo in cui i pochi abitanti residui e i frequentatori domenicali si incontrano e passano il tempo, dove “si fa la piazza”: «Vado a fare un po’ di piazza», si dice dalle nostre parti uscendo di casa per raggiungere gli altri e intrattenersi con loro. La piazza non è un luogo, non c’è in sé, la fanno le persone con le loro relazioni, finché ci saranno, dopo resterà soltanto un luogo senza vita, allora sarà uno slargo, non una piazza.
Quale senso può avere l’affissione di un’immagine in bianco e nero risalente a una cinquantina di anni fa e raffigurante il monte completamente brullo alle spalle del paese? Che significato ha la freccia colorata che orienta lo sguardo dell’osservatore proprio su quell’altura, oggi quasi totalmente boscata?
Una lettura superficiale e limitata all’evidenza rischia di rivelare la banale narrazione della vegetazione in netta fase di espansione a totale vantaggio dell’equilibrio ecosistemico e, in definitiva, di una condizione ambientale complessivamente in deciso miglioramento. Tutto ciò è certamente vero, seppure soltanto per alcuni aspetti. Infatti, come si avrà modo di ravvisare più avanti, il ragionamento non tiene conto di tutte le componenti dell’ecosistema.
La grande foto, datata 1967, raffigura lo scorcio che si può osservare nella fisionomia attuale proprio dal luogo in cui l’immagine è collocata. Poco più di cinquant’anni fa, quel monte era completamente spoglio e mostrava ovunque la roccia nuda con qualche cespuglio striminzito qua e là, nulla di più. Tuttavia, «Il bosco che avanza» non è l’orgoglioso slogan di una visione ecologista della dinamica in atto, ma è piuttosto un chiaro segno della modernità e dello spopolamento.
L’altura, totalmente demaniale, ha dato lungamente da vivere anche a chi non aveva di suo: il pascolo delle capre e la consuetudine al femminile del “fascittu”, ovverosia la raccolta quotidiana delle sterpaglie portate a casa per cucinare. Insomma, nel tempo la montagna si è donata completamente alla comunità, spogliandosi di tutto il suo povero e unico avere, la vegetazione. Poi sopraggiunse la sacrosanta frenesia di rincorrere il benessere, e soprattutto il volerlo garantire ai figli. Novità che modificò gli equilibri fino ad allora rimasti più o meno immutati per secoli, e si andò via, in tanti, troppi.
Se tutto ciò è ormai tristemente trascorso, perché impegnare una parte delle già magre risorse economiche della Pro Loco nell’allestimento di una gigantografia raffigurante un aspetto del paesaggio dei tempi andati? L’operazione è banalmente finalizzata a fissare un riferimento temporale certo del mutamento paesaggistico sopraggiunto. Il ragguaglio è rappresentato dall’anno dello scatto, impresso sull’immagine della veduta di allora, cosicché la simultanea visione del ‘passato’ e del ‘presente’ renda il cambiamento prontamente manifesto all’osservatore.
L’obiettivo della Pro Loco non vuole essere la rimembranza del mai esistito “bel tempo che fu”, ma la semplice testimonianza dell’impatto esercitato dalla piccola popolazione sui boschi di prossimità (impronta ecologica parziale? [Sito 1]), evidentemente marcato per lungo tempo. Poi, insieme all’emigrazione arrivarono la corrente elettrica, le bombole del gas, le prime automobili e l’asfalto sulle strade principali. Il saccheggio si spostò altrove e lentamente ma inesorabilmente la vegetazione cominciò a riconquistare il suo spazio.
Nello specifico, quindi, «Il bosco che avanza» è un andamento da accogliere positivamente? Se per alcuni aspetti lo è senz’altro [1], per altri direi proprio di no. Infatti, esaminata a livello globale, la dinamica d’insieme alla quale sono sottoposte le superfici forestali non raccoglie un giudizio univoco e unanime: se in alcune aree il bosco avanza in seguito all’abbandono delle aree marginali, in altre arretra per gli effetti dell’antropizzazione (agricoltura, zootecnia, infrastrutture, ecc.). Il fattore umano è comunque decisivo sul trend in atto, ed è prevedibile che perduri per lo meno finché Homo sapiens sapiens continuerà ad essere la specie largamente dominante e impattante sull’ecosfera (per nostre inconfessate colpa e fortuna! Sfido chiunque a voler tornare alle condizioni di vita che si sono susseguite dalle origini della specie all’insorgere dell’era industriale), atteggiamento che ha fatto coniare il neologismo “Antropocene” (Sito 4).
Non ci sono quindi altri obiettivi sostenibili ed equilibrati da ipotizzare, studiare, proporre? Almeno uno esiste certamente, è di carattere complessivo, scaturisce dall’analisi di un aspetto del contesto generale ed è fondato sull’inconfutabile evidenza che su questo fragile pianeta siamo in troppi (Penfound 1968: 56-62; Pimentel 2012: 151-152) e malamente distribuiti.
Per risolvere la questione della sovrabbondanza, sarebbe utile e urgente ripudiare la benedizione biblica «Andate e moltiplicatevi» e adottare l’opposta filosofia laica «Siete al limite, o forse lo avete già superato, andate e riducetevi». Però, chi ha il coraggio di proporlo? I vincoli macroeconomici in essere sono molti e folli, ma ormai consolidati: cosa accadrebbe al ‘mercato’, alla ‘crescita’ e al ‘PIL’, che secondo la concezione corrente devono incrementarsi costantemente senza invertire mai la tendenza?
In realtà, se si abbandonassero tali ‘dogmi’ imperanti, sarebbe assolutamente possibile individuare una nuova strategia razionale da perseguire, e non potrebbe che basarsi su un postulato indubbio: se le risorse del pianeta sono finite la crescita non può essere infinita!
A tal proposito voglio proporre uno spunto di riflessione: cosa accadrebbe se, del tutto legittimamente, i popoli dei così detti Terzo e Quarto mondo (Sito 6) rivendicassero il nostro tenore di vita, o addirittura quello delle comunità maggiormente avanzate? Un cataclisma di proporzione epocale, perché ogni forma di risorsa disponibile (offerta) sarebbe drammaticamente insufficiente a soddisfare la nuova mole di bisogni (domanda).
Pertanto, se viste nell’ottica rivoluzionaria della contrazione numerica, le piccole comunità ormai prossime all’estinzione sono all’avanguardia? Direi proprio di no, è loro intenzione crescere e continuare ad esserci, forse non a torto.
Nell’ottica di tale auspicio che viene dal basso e ripudiando la visione antropocentrica, si provi a immaginare un qualunque magnifico paesaggio senza l’uomo che lo ammiri, che ne goda e lo custodisca; l’esistenza del paesaggio stesso avrebbe un’accezione nuova e inesplorata.
Applicando tale approccio alla gigantografia in questione, si provi a vagheggiare l’immagine del 1967 senza Filippa alla finestra e Teresina sulla strada, mentre ozia e con l’altra conversa riparandosi gli occhi dal sole che la infastidisce, perché ormai alto sul Monte Velino, a oriente del paese. Si provi a immaginare lo stesso scatto privo anche di quei pochi altri ma evidenti segni di vita.
Per averne un assaggio è sufficiente spostare lo sguardo sulla parte sinistra della figura 1, dov’è riprodotta la situazione attuale: Teresina non c’è più, le finestre di Filippa sono ormai quasi perennemente chiuse, e ‘il bosco avanza’. Il tutto può essere letto come una sorta di contrappasso del doppio problema globale: la colpa è rappresentata dal genere umano esageratamente sovrabbondante (Parfit 1986: 145-164), malamente, inquietantemente e tristemente concentrato nei sobborghi delle città e delle megalopoli (Jaber 2020: 1-14), dove il livello di naturalità si riduce drasticamente; mentre altrove, come qui a Fiamignano, la pena è data dallo spopolamento, metaforicamente contrassegnato dallo slogan «Il bosco che avanza».
Il problema è aperto e l’attesa è concentrata sull’auspicato «‘invertire lo sguardo’ dalle città alle zone interne» (Clemente 2019). Intanto il paese ancora per un po’ resiste, con le sue molte case sottoutilizzate e quelle ormai abbandonate, vagheggiando la ridistribuzione dei cittadini e lo sciame dalle metropoli, resta in attesa del ritorno che non ci sarà.
Dialoghi Mediterranei, n. 22, maggio 2022
Note
[1] «[…] il giorno in cui la Terra esaurisce le risorse naturali previste per tutto il 2021, cade il 29 luglio, rispetto al 22 agosto dell’anno [2020], che era stato posticipato a causa della pandemia. Nel 1970, per esempio, la giornata era caduta il 29 dicembre. E dunque il Pianeta, come sta accadendo appunto negli ultimi decenni, [dal 30 dicembre] va in credito sulle risorse dell’anno successivo dimostrando che lo sta sovrasfruttando. […] Fra le cause principali ci sono l’aumento dell’impronta ecologica (che calcola quante e quali risorse consuma ciascuno) e la deforestazione» (Sito 2). Per il 2022 l’Overshoot day italiano è stimato al 15 maggio (Sito 3).
Riferimenti bibliografici
D. Parfit, Overpopulation and the Quality of Life, «Applied Ethics», 1986.
D. Pimentel, World overpopulation, «Environment, Development and Sustainability», 14(2), 2012: 151-152.
S. M. Jaber, Is there a relationship between human population distribution and land surface temperature? Global perspective in areas with different climatic classifications, «Remote Sensing Applications Society and Environment» 20, 2020. DOI:10.1016/j.rsase.2020.100435
P. Clemente, Invertire lo sguardo, «Dialoghi Mediterranei», 36, 2019.
W. T. Penfound, The Problems of Overpopulation, «Bios 39», n. 2, 1968: 56-62. http://www.jstor.org/stable/4606831
Sitografia
Sito 1. https://www.footprintnetwork.org/
Sito 2. https://www.ansa.it/canale_ambiente/notizie/natura/2021/07/28/domani-earth-overshoot-day-finite-le-risorse-naturali-2021_e109d9bc-2580-4f44-8b96-eecae5e5dd4c.html
Sito 3. https://www.overshootday.org/newsroom/country-overshoot-days/
Sito 4. https://www.treccani.it/enciclopedia/antropocene_(Lessico-del-XXI-Secolo)/
Sito 5. Universidade de Coimbra: https://altageografia.weebly.com/uploads/1/1/9/3/119304490/pt_00.pdf
Sito 6. https://www.docenti.unina.it/webdocenti-be/allegati/materiale-didattico/238416
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Settimio Adriani, laureato in Scienze Naturali e Scienze Forestali, si è specializzato in Ecologia e ha completato la formazione con un Dottorato di ricerca sulla Gestione delle risorse faunistiche, disciplina che ha insegnato a contratto presso le Università degli Studi della Tuscia di Viterbo (facoltà di Scienze della Montagna, sede di Rieti), di Roma “La Sapienza” (facoltà di Architettura Valle Giulia) e dell’Aquila (Dipartimento MESVA). Per passione studia la cultura del Cicolano, sulla quale ha pubblicato numerosi saggi.
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