di Nino Giaramidaro
C’era la luna. Disturbava la breve salita del mio ritorno a casa. Luna rossa, verde luna, luna tu, silenziosa luna, chiaro di luna, candida, di traverso, blue moon. You saw me standing alone – without a dream in my heart… Sì, senza nessun sogno. Un’esile falce bianca, come quelle che Magritte dipingeva sopra le bombette dei suoi sconosciuti. Una scintillante scimitarra aerea maneggiata dal ponente che arrivava stanco sull’argento dei primi ulivi, lì alla Gaggera di Selinunte. Oppure quella che l’arabo fa roteare con grande valentia davanti a Indiana Jones, Indy in confidenza. Un colpo di Smith & Wesson e la “schimshir” si spegne nella polvere.
Mi sforzo di trovare nella memoria aggettivi della luna, sinonimi, suoi vice nomi. Con gli occhi che scandagliano quel tratto di cielo dove luminosa e lenta lampeggia sopra e sotto le nuvole. Sono arrivato a casa…
Pensieri che mi sorprendono sulla poltroncina bianca, lo sguardo che scivola sulle foglie della lumincella e dell’arancio cartasio, della rosa rossa e dell’azzeruolo, riparati dal falso pepe, dalle bouganville e dalle foglie morte delle viti. Esempio: «Il mondo non è mai stato più minaccioso e più diviso; siamo sull’orlo di un abisso e ci muoviamo in direzione sbagliata», sostiene il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres. Brutti pensieri si sovrappongono fra una tirata e l’altra di un sigaro restio, mentre la luna si muove lungo il suo viaggio sempre uguale…
Gli anni, specie questi ultimi, hanno dimostrato che il mondo non sa resistere alla lusinga dei cannoni. E che le grandi potenze si sentono derubate del nemico senza un conflitto pure se garantito dalla menzogna, una guerricella anche tiepida, qualche nuova cortina che pazientemente sembra cominci a calare sia al nord sia nel sud est con la temibile Cina… Forse, il “Festival della carne di cane”, il prossimo 20 giugno a Yulin, nel Guangxi Zhuang, non sarà organizzato. Meno di 500 chilometri da Canton, Macao e Hong Kong… Milioni di abitanti, tradizioni che sconfiggono pure le leggi. Cani e gatti si mangiano ancora…
Gli animali da tiro – dice Internet – possono essere cavalli o pony, muli, buoi, asini, bufali indiani (o bufali d’acqua) o perfino capre e grossi cani. Un trapanese degli anni ’60 sapeva, e aveva due cani, uno bianco e uno nerissimo, che tiravano un trabiccolo sul quale lui sembrava un sopravvissuto auriga, dignitoso testimone di tante sconfitte. I cani gli volevano bene, lui gli diceva qualcosa e i due obbedivano anche se dovevano affrontare sforzi formidabili. Non aveva nemmeno uno scudiscio il vecchio trapanese, i lunghi capelli bianchi e il fazzoletto pure bianco abbondantemente traboccante dal taschino. Chissà da quale passato veniva …
«Propongo uno scambio tra questo vostro uomo» e gli uomini e donne ucraini prigionieri dei russi, ha detto Volodomir Zelensky, presidente ucraino, dopo l’arresto di Viktor Medvedchuk, oligarca ritenuto amico di Putin….
Il ponte di Glienicke sull’Havel, collegava il Wannsee di Berlino Ovest a Potsdam, capitale del Brandeburgo… nella zona DDR. A sud ovest della città, dove finiva la Koningstrasse occidentale e cominciava il territorio rosso. Nel laghetto si muovevano placidi canottieri di Est e Ovest. A destra del ponte passanti e turisti leggevano la grande tabella “You are leaving the american sector”, anche in russo e francese. …
Settembre 1989, la foto ricordo ormai era possibile farla appoggiati al di qua della transenna mesi prima quasi inarrivabile e affollata di Militar Police. Perché quel ponte militare e acciaioso oltre ad essere un confine della guerra fredda era il Ponte delle Spie, come intitolerà il successivo film di Spielberg. Ma ormai i vopos pattugliavano la terra di nessuno con la stessa dedizione di una lunga passeggiata…
Sì, le fumate di Karo, peggiori delle Gauloises Caporal, meglio le nostre contadine e operaie Alfa. Gli ossis, nello slang tedesco un confidenziale dispregiativo per quelli dell’Est, si preparavano alla loro struggente “ostalgia” parola nuova che unisce osten (est) e nostalgia. E che dura ancora…
Ottobre inizia con dolcezza. Pure lo scirocco vuole essere mite in queste giornate che non riescono a lasciare l’estate ventosa che non sembra lei. Solo gli stabilimenti balneari si affrettano a smobilitare. Non ne so più niente. Qualche giorno prima del Natale sono tornato a casa. Niente più giochi di parole con Myriam né ginnastica leggera con Antonio…
Holodomor, termine che non so nemmeno pronunciare, si aggira alla periferia dei pensieri. È il nome del «genocidio per fame di oltre 6 milioni di ucraini negli anni 1932–1933», dice Google. Una terribile punizione staliniana sui cugini ucraini accusati di contestare la proprietà collettiva. Tutte le risorse agricole requisite e la popolazione affamata. Un quarto dei rurali, uomini, donne e bambini, secondo i dati sul web, fu sterminata per fame…
I cadaveri giacevano per strada senza che i parenti, anch’essi stremati, avessero la forza di seppellirli. La carestia determinò, insieme all’annientamento dei contadini, lo sterminio delle élites culturali, religiose e intellettuali ucraine, tutte categorie considerate “nemiche del socialismo”. Holodomor in ucraino significa infliggere la morte per fame; secondo i ricercatori colpì maggiormente Centro, Sud, Est e Nord del Paese. Come oggi, non arrivò nell’Ovest, meno legato alla Grande Madre Russia: un’Ucraina che non voleva – e non vuole – essere abbracciata dalla Grande Matrigna. …
Novant’anni bastano per dimenticare. Anche i morti per le strade: quei cadaveri di vecchi donne e bambini rinsecchiti dai digiuni. Pensateci… Sono oramai troppo pochi coloro i quali hanno provato la fame durante la guerra… una giornata intera a cercare una vastedda senza trovare nulla…
La odierna sorte dell’Ucraina assaltata è quella di fame e di sangue, di dibattiti in poltrona, inviati che ci mostrano il niente alle loro spalle o intorno a loro, aruspici della guerra che tentano di indovinare sui cadaveri sparsi le mosse di Putin. Non è possibile immaginare la guerra. Certo, è meglio la babele di notizie che si scontrano nel falso e nel reale, dura prova di sensibilità e di tendenze politiche, anziché il silenzio. Il silenzio venerato da coloro i quali amano le trame, le ombre, tutto ciò che non è chiaro e che viene chiamato diplomazia.
Dialoghi Mediterranei, n. 55, maggio 2022
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Nino Giaramidaro, giornalista prima a L’Ora poi al Giornale di Sicilia – nel quale, per oltre dieci anni, ha fatto il capocronista, ha scritto i corsivi e curato le terze pagine – è anche un attento fotografo documentarista. Ha pubblicato diversi libri fotografici ed è responsabile della Galleria visuale della Libreria del Mare di Palermo. In occasione dell’anniversario del terremoto del 1968 nel Belice, ha esposto una selezione delle sue fotografie scattate allora nei paesi distrutti.
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