Una vera e propria lista delle vertigini – per dirla con Umberto Eco – quella della Popular Music che ha attraversato come un’onda inarrestabile il tumultuoso ed epifanico Novecento, consegnando ai nativi digitali del XXI secolo un giacimento infinito di generi e sottogeneri musicali. Una lunga ed affascinante storia che prende le mosse all’alba del secolo breve, che ha riscritto per sempre le modalità del fare e fruire la musica, con una straordinaria fioritura di generi fra colto e popolare, destinati al consumo di massa. Un mix epocale di musiche dalle origini etniche, abilmente riplasmati in nuovi generi, a partire dal rivoluzionario jazz. Una forma musicale questa, innovativa e sincretica fra i saperi eurocentrici e la radice afroamericana, coniugata presto anche alle lotte contro la discriminazione razziale. Una rivincita a suon di jazz contro la disumana condizione di riduzione a schiavitù e all’apartheid degli afroamericani, mai cancellato del tutto fino ai nostri giorni.
Un bisogno di musica diffuso e planetario, come tratto identitario imprescindibile, contagioso, che mette assieme le diversità dei linguaggi musicali di matrice tradizionale, unitamente agli strumenti musicali etnici. Una rivoluzione copernicana associata a nuovi stili culturali e di vita, e ad istanze di rinnovamento sociale ed economico. Un complesso puzzle entro un abile disegno di marketing, finalizzato grazie ai nuovi e seriali riproduttori di musica (radio e disco, e molto più avanti la televisione) al consumo di massa di quel bene culturale immateriale, che è sempre stata la musica, che rivive nel tempo e nello spazio nella performance unica ed irripetibile, e che ora ha trovato un supporto fisico dove conservare e ascoltare l’esecuzione!
A sorreggere il pervasivo mercato musicale del Novecento, la fiorente industria planetaria della musica. Ecco, tutto ha inizio da quella incredibile invenzione del disco dovuta al geniale tedesco Berliner, e al grammofono che invade ogni casa, dopo l’insuccesso del fonografo dell’americano Edison.
La nuova terra promessa per la nuova musica democraticamente offerta a tutti con dischi e grammofoni prodotti su scala mondiale, senza distinzione di razza e fede religiosa, è la frontiera americana del futuro e del benessere per tutti i popoli. La grande macchina commerciale della riproducibilità dell’opera d’arte nell’era della tecnica, come aveva acutamente capito Walter Benjamin, in tutte le sue forme, dunque, inizia la lunga marcia planetaria, annunciata messianicamente urbi et orbi, unendo invenzioni tecnologiche a prodotti da supermarket offerti generosamente a tutti i popoli della terra
Insomma una prima prova generale di globalizzazione, quella delle Major discografiche d’oltreoceano, che dispiegherà i suoi devastanti effetti sovranazionali in altri ambiti del mercato di massa dominato dalle lobby e dai potentati finanziari nella seconda metà del XX secolo fino alla liquidità digitale della nostra contemporaneità.
Ora quello che emerge prepotente da questa rivoluzione musicale del XX secolo, confrontandosi con la Google Maps music – un macro disegno grafico labirintico, di specie e sottospecie di generi e stili musicali – è che tutto ha origine dall’incontro inaspettato e virtuoso di differenti codici musicali riconducibili alla grande sfera folk da un lato, dunque alle musiche di tradizione orale di qualsiasi latitudine, e alla musica colta eurocentrica dall’altro, ovvero dalla lettura musicale alta, che in verità ha sempre tratto la materia prima delle sue forme d’arte dalla musica e danze popolari delle diverse aree europee. Una sorta di intrigata foresta musicale solcata da tanti sentieri, che riflettono lo straordinario incontro di culture musicali etniche, provenienti anche dalle aree più remote, dovute peraltro alle sistematiche ricerche etnomusicologiche.
La musica, al pari di tutte le avanguardie artistiche del Novecento, che rimettono in discussione nel profondo i consolidati canoni estetici ereditati dall’Ottocento, come d’altra parte la letteratura, l’arte, il teatro, incontra il cinema – quest’ultimo, la sesta arte, altrettanto rivoluzionario, perché riunisce in sé parola, racconto per immagini filmate e musica – sviluppandosi come un organismo vegetale in evoluzione, con una straordinaria fioritura di frutti, riflesso del nostro tempo accelerato.
Incredibilmente, sul versante strumentale, in questa straordinaria avventura musicale, di cui tutti siamo stati partecipi, a dominare la scena è stata la chitarra, proprio questo umile strumento popolare, che tanta parte ha avuto assieme al mandolino e al violino, nella musica da ballo e all’accompagnamento delle serenate dei suonatori barbieri, e non solo di tradizione siciliana. Un cordofono figlio di un Dio minore, sempre ai margini della letteratura musicale accademica, troppo esile la sua voce, relegato a ruoli secondari di accompagnamento. Ma ecco giungere, dopo la crisi di fine Ottocento, ritenuta dai più irreversibile e definitiva, una rivincita inaspettata nel primo ventennio del Novecento.
Mentre nel delta del Mississippi risuona la novità del canto blues di strada, dolente e poetico con il suo carico di storie di vita, accompagnato appunto dai suoni della chitarra mai sentiti prima, che presto dischiude le porte al jazz, in Europa, grazie a una serie di congiunture favorevoli, è iniziata un’altrettanta riscossa inarrestabile dell’umile strumento. Tutto ha inizio con un brano scritto per chitarra da Manuel De Falla, che nel 1920, per commemorare la scomparsa del grande Debussy, padre dell’Impressionismo musicale francese, sceglie come strumento solista per la sua composizione la chitarra, scrivendo Homenaje, Pièce de guitare écrite pour “Le tombeau de Claude Debussy”, donando un vero e proprio capolavoro alla chitarra, che da quel momento si trasfigura in strumento principe da concerto. Un successo, che si unisce all’opera di riscatto operato dai compositori spagnoli, e dal grande profeta Andres Segovia, un chitarrista sublime, un caposcuola, per il quale molti compositori scriveranno, fra i quali Torroba, Turina, Villa Lobos, Castelnuovo Tedesco, Rodrigo. Segovia terrà poi dei corsi all’Accademia Musicale Chigiana di Siena, e tra i suoi allievi prediletti emerge il talento dell’italiano Oscar Ghiglia, dal quale si alimenta una scuola chitarristica nazionale di classe superiore dai tanti nomi, fra i quali ricordiamo anche Ruggero Chiesa
Sul versante del jazz, la chitarra si ritaglia spazi solistici di rilievo; fra le firme più celebri, quelli di Wes Montgomery, Django Reinhard, Pat Metheny, Joe Pass. Ma la vera e decisiva consacrazione della chitarra come icona strumentale rivoluzionaria della Popular Music del Novecento, si registra con l’invenzione della chitarra elettrica. Dal secondo dopoguerra, dagli anni cinquanta, dal blues, come è noto germinerà il ritmo & blues; il rock roll,, e poi giungeranno dall’Inghilterra gli osannati Beatles e i Rolling Stones. Sulla scena americana intanto si consacra il mito di Jim Hendrix. L’adunata storica a Woodstock dell’agosto del 1969, che per tre giorni celebrò la cultura hippie a Bethel vicino New York, tra rock, folk, pace e amore, farà conoscere le band rivoluzionarie, arriveranno in seguito i gruppi americani e anglosassoni, indicando la strada da seguire con solisti alla chitarra elettrica di straordinario talento. Ad illuminare la scena arriveranno i Deep Purple, i Pink Floyd, i Queen, i Genesis, i Dire Strait, i Genesis. Per non parlare della country music americana, delle band della West Coast, da Neil Young, ai mostri sacri di Bob Dylan e del Boss. L’elenco è davvero sterminato. Ma tra i chitarristi rock che hanno fatto la storia non possiamo non ricordare Jimmy Page, Keith Richards, B. B. King, Chuck Gerry, Roger Waters, Eddie van Halen, Eric Clapton, George Benson.
Una lunga marcia quella della chitarra che si è riscattata sul doppio versante della musica colta e pop, trovando, grazie a compositori, quali Hector Villa Lobos, e italiani come Mario Castelnuovo Tedesco, uno spazio di primissimo piano sulla scena maggiore. Ma la chitarra anche quella folk si è fatta sempre più apprezzare e riconoscere per la sua versatilità, i tanti colori strumentali, le innovative tecniche strumentali e performative. Molti i didatti compositori e concertisti, che hanno formato nuove schiere di chitarristi di classe cristallina. Fra gli altri in Italia, ricordiamo l’italiano d’adozione Alirio Diaz, Bruno Battista D’Amario, e tra gli spagnoli oltre Segovia, Narciso Yepes. Dunque, inevitabile e ampiamente meritato l’ingresso della chitarra classica nei conservatori italiani, con l’istituzione di tante cattedre, per rispondere alla crescente domanda di formazione accademica di nuove generazioni di chitarristi.
A dare man forte al riscatto della musica di tradizione anche l’istituzione di cattedre riservate alla fisarmonica, altro strumento dalle origini popolari. Ma altre sono le new entry di questi ultimi anni in Conservatorio relative al patrimonio etnorganologico ed etnomusicologico italiano. Ci riferiamo ad esempio all’insegnamento degli strumenti a fiato quali la zampogna italiana ed altri fiati pastorali, quali i flauti diritti di canna. Tra i corsi più recenti quelli istituiti a Nocera Tirinese, in provincia di Catanzaro e a L’Aquila.
Tornando ora alla chitarra, va segnalata grazie allo straordinario impegno di didatta, compositore e performer versatile e di grande talento, di Micki Piperno, romano, allievo del grande chitarrista D’Amario, l’istituzione della prima cattedra di chitarra acustica folk al conservatorio Alfredo Casella de L’Aquila, unica in Italia, oltre quella di chitarra acustica Pop fingerstyle, di cui Piperno è specialista, al conservatorio G. Braga di Teramo.
Una sfida coraggiosa, quella di Micki Piperno, che per tre giorni a partire dal 16 maggio sarà ospite al Conservatorio Corelli di Messina, per tenere una master class e un concerto. Un appuntamento fortemente voluto dal suo collega di studio il chitarrista messinese Nicola Oteri, anche lui formatasi alla scuola di D’Amario, titolare di una delle cattedre di chitarra classica al Corelli di Messina. Un racconto in musica, quello proposto da Piperno, che parte dalle origini della musica afroamericana passando poi per le composizioni originali e approdando infine alle nostre danze europee e canzoni tradizionali italiane.
A conferma poi dello sguardo musicale ampio di Micki Piperno, che si nutre anche dei repertori della tradizione italiana la recente pubblicazione, che trascrive per chitarra tutta una serie di temi della tradizione regionale italiana, nati proprio per questo strumento, consegnandoli allo studio dei suoi allievi.
Tradizional Music for guitar, questo il titolo dell’opera, si offre ad una serie di riflessioni legate alla contemporaneità del fare ed ascoltare musica, con l’augurio di ampliare il confronto ed arricchire il dibattito sul tema delle memorie musicali di tradizione e della loro rigenerazione didattica e performativa. E a questa preziosa raccolta si aggiunge sempre a firma di Piperno, fresco di incisione un’opera discografica di assoluto valore, Largo Appassionato, che rispecchia a tutto tondo una cifra stilistica interpretativa di classe superiore, esaltando le tante anime della chitarra, in un gioco seducente di sentimenti, immagini e colori poetici.
In piena epoca di colonizzazione digitale che invade, con effetti collaterali imprevedibili, tutti i campi del sapere, compreso l’apprendimento e la formazione musicale, affidarsi come fa Micki Piperno, alla nobile ed antica fisicità del testo scritto, nel genere dell’edizione musicale canonicamente didattica, non è certo una scelta nostalgica e conservativa. Piuttosto, a me pare, una matura e responsabile presa di coscienza dell’insostituibile ruolo di confronto diretto fisico, irripetibile e insostituibile, fra docente e allievo, uniti da uno strumento musicale, in questo caso la chitarra, che li legherà per tutta la vita, nel segno del sentimento di dedizione e devozione che merita la musica.
In più, e soprattutto, visto il mio sguardo etnomusicologico, Micki Piperno, sente, in piena consonanza, con un movimento più vasto, di far posto, nelle aule dei conservatori, a quel vasto giacimento, in gran parte inesplorato e sconosciuto ai docenti dediti a vario titolo all’insegnamento della musica, costituito dalle fonti etnomusicologhe, disponibili negli archivi pubblici e privati e nelle tante antologie sonore, prima in vinile e poi in CD, che dai mitici anni del Folk Revival degli anni settanta del secolo scorso, giungono ai nostri giorni. Rigenerare, come ha fatto, con intelligenza e coerenza Micki Piperno, i documenti musicali delle tante tradizioni regionali ballabili, riproposti in una ragionata ed organica raccolta alle nuove generazioni di chitarristi in chiave didattico-formativo, porta con sé anche un recupero quanto mai necessario dei tratti identitari musicali territoriali, da salvaguardare e valorizzare sempre più.
Una stagione, quella della ricerca etnomusicologica italiana di assoluto valore scientifico e culturale che prende le mosse nel 1948 con il Centro Nazionale Studi di Musica Popolare fondato da Giorgio Nataletti, con l’apporto tecnico della nascente Rai e dell’Accademia Nazionale di S Cecilia, che avvia una campagna sistematica di ricerca sul campo, con figure carismatiche, quali Alan Lomax, Marius Schneider e Diego Carpitella, assieme a Roberto Leydi, il padre nobile dell’etnomusicologia italiana.
Far incontrare il variegato mondo musicale della didattica con la ricerca sul campo e le residue forme di musica di tradizione orale, in gran parte decontestualizzate, come ha fatto lodevolmente Micki Piperno, può dischiudere, ne sono convinto, tanti luminosi e nuovi orizzonti musicali nel segno del più autentico Sentimento Popolare, per dirla con il compianto grande musicista e poeta a me conterraneo, Franco Battiato.
Dialoghi Mediterranei, n. 55, maggio 2022
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Mario Sarica, formatosi alla scuola etnomusicologica di Roberto Leydi all’Università di Bologna, dove ha conseguito la laurea in discipline delle Arti, Musica e Spettacolo, è fondatore e curatore scientifico del Museo di Cultura e Musica Popolare dei Peloritani di villaggio Gesso-Messina. È attivo dagli anni ’80 nell’ambito della ricerca etnomusicologica soprattutto nella Sicilia nord-orientale, con un interesse specifico agli strumenti musicali popolari, e agli aerofoni pastorali in particolare; al canto di tradizione, monodico e polivocale, in ambito di lavoro e di festa. Numerosi e originali i suoi contributi di studio, fra i quali segnaliamo Il principe e l’Orso. Il Carnevale di Saponara (1993), Strumenti musicali popolari in Sicilia (1994), Canti e devozione in tonnara (1997); Orizzonti siciliani (2018).
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