Il tempo della Storia – si sa – ha un passo desultorio, irregolare, frammentato. Come un fiume, scorre lento secondando le dolci anse in pianura e procede impetuoso e a sobbalzi su impervi pendii. Il secolo che abbiamo chiamato “breve” credendo di averlo lasciato alle nostre spalle ha allungato le sue tragiche ombre sul tempo che viviamo, stretti e sospesi senza un attimo di respiro, tra crisi ambientali, pandemiche, belliche e nucleari. Le ansie si moltiplicano e si sovrappongono alle paure, le incertezze alle insicurezze. Alla vulnerabilità dei nostri corpi e del nostro stesso pianeta si accompagna la fragilità delle democrazie, scopriamo la precarietà e la provvisorietà della pace.
Quella metafora lessicale che abbiamo impropriamente adoperato per “combattere la guerra” contro il virus, per “sconfiggere il nemico” invisibile del nostro immaginario, si è inverata e materializzata nel racconto in cui le trincee non sono più gli ospedali ma quelle vere scavate nelle città ucraine assediate, e gli eroi delle prime linee non sono più i medici impegnati a curare e salvare le vite ma i soldati del fronte mobilitati nello sforzo di uccidere per sopravvivere. Un rovesciamento di segno e di paradigma che rende ancora più cupo il cielo delle nostre giornate, più inquietanti gli interrogativi sul futuro e sul senso delle parole che usiamo, dei valori che agitiamo come bandiere, degli ideali che ci vantiamo di incarnare. Abbiamo dibattuto fino a poco tempo fa intorno al difficile ma necessario equilibrio tra i diritti delle libertà individuali e le limitazioni imposte dalla politica emergenziale di salute pubblica, e oggi ci troviamo a discutere e a dividerci su un altro delicato crinale: da una parte, coloro che pensano sia stato giusto aiutare gli ucraini inviando le armi a sostegno della eroica resistenza contro i russi e a difesa dell’autodeterminazione del popolo aggredito e, dall’altra, quanti ritengono che in questo modo, diventati cobelligeranti, abbiamo violato la norma dettata dalla Costituzione del ripudio della guerra e abbiamo favorito una incontrollata e pericolosa deriva incendiaria.
Mentre a Kiev e a Mariupol missili e propaganda si fondono e si confondono nel terrore e nell’orrore della carneficina quotidiana, nel nostro Paese le parole della guerra si torcono in guerra di parole, fino a perdere di vista spesso il senso della tragedia che si sta consumando, fino a trasformare i ragionevoli dubbi in presunte post-verità, fino a sostenere o legittimare il nonsenso di tesi ideologiche che nell’architettura dell’eterno complottismo o della vecchia manfrina del benaltrismo oscurano o deformano la irriducibile realtà fattuale. Quella che, a dispetto delle più raffinate teorie geopolitiche che spiegano cause e concause dello scenario internazionale, ci costringe a fare i conti con la dura e insopprimibile verità delle vittime, con i loro diritti e con le loro vite.
Qualunque sia la narrazione politica o la rappresentazione mediatica nell’inarrestabile infodemìa delle opinioni scambiate per evidenze scientifiche, la guerra che ha fatto irruzione nelle nostre giornate già affannate dall’estenuante logorìo della minaccia pandemica, ci fa precipitare con un balzo improvviso nel cuore del secolo scorso, nell’età del ferro e del fuoco dei carri armati, delle trincee e dei bombardamenti, dei cecchini e degli scontri corpo a corpo, delle carestie e dei razionamenti, delle pulizie etniche e delle fosse comuni. E nello stesso tempo mai come questa volta, grazie al massiccio impiego di droni, satelliti, videocamere e fotografie, abbiamo potuto vedere da vicino – spettatori condannati all’impotenza – le atrocità sulla popolazione civile, il dispiegarsi di quella forza arcaica, brutale e cieca che da millenni ci è compagna di odio e di morte, «questa ingluvie di sangue – come ha scritto Claudio Magris nel suo capolavoro Praga magica – questo macabro sabba, che si tramuta alla fine in sfilate di grucce e di manichini spettrali». Parole che nella potente e fulminante immagine del prezzo pagato dalle vittime danno il senso dell’inutile strage e dell’immane tragedia.
Su questa catastrofe incombe poi il rischio della deflagrazione nucleare, l’apocalisse della fine non semplicemente di un mondo ma del mondo, l’impossibilità di rifondare dal caos un qualche ipotetico cosmos, una qualche speranza di sopravvivenza della specie umana. Può accadere – quando il mito della deterrenza si incrina, quando l’ordine politico si sgretola e cadono i tabù – che la storia degli uomini diventi ostaggio dell’hybris, del potere distruttivo e primordiale della violenza fine a se stessa, del furore e della tracotanza che acceca gli individui destinati alla perdizione. La presenza nel teatro di guerra in Ucraina di centrali atomiche può perfino rendere pensabile l’impensabile, praticabile l’imponderabile. Dentro questo scenario inquieto e perturbante, dentro l’ossimoro di questo conflitto – drammaticamente anacronistico e contemporaneo – ci muoviamo spaesati nel labirinto di tante domande. Alle quali questo numero di Dialoghi Mediterranei tenta di dare qualche risposta, ospitando una pluralità di riflessioni che offrono diverse chiavi di lettura utili a comprendere aspetti, contesti, dinamiche, prospettive, significati, immagini e immaginari di questa guerra.
«Possiamo noi antropologi dire qualcosa di utile, magari di nuovo, sulla guerra?» scrive Piergiorgio Solinas in apertura al suo contributo, che è denso di osservazioni sul tema della violenza, sulle sue radici umane, «per capire, magari, se la guerra si presenta come una sorta di patologia culturale, oppure se fa parte della normale fisiologia strutturale dei sistemi umani di convivenza». L’antropologo richiama i grandi miti di fondazione, l’epica zeppa di combattimenti, scempi e carneficine narrata nei poemi studiati a scuola, una violenza scientificamente organizzata che abbiamo imparato a considerare sostanza e fulcro dell’identità degli esseri umani e del costituirsi delle comunità. Nell’analisi distingue la tesi etologica che attribuisce all’aggressività innata della nostra psiche l’origine della condotta bellica da quella ecologica ed economica che sulla spinta della sopravvivenza muove alla contesa per il possesso di beni e risorse. Risorse, in verità, precisa Solinas a proposito dello scontro in Ucraina, non solo materiali, non essendo soltanto «quelle che scorrono negli oleodotti» ma anche quelle che riguardano patrimoni antropologicamente significativi. «La sovranità, l’indipendenza, e, ancora una volta l’identità sono i beni che da una parte si cerca di togliere o di negare, dall’altra di difendere, di valorizzare e di accrescere». E riflettendo sulla drammatica potenza evolutiva della tecnologia militare che ha fatto delle armi «oggetti alieni, strutture che oltrepassano la coscienza e il potere di dominio dei soggetti che li somministrano», l’antropologo così conclude: «Il nemico che siamo stati capaci di generare, ormai, è la nostra stessa aggressività armata, che si è separata da noi stessi, si è esternalizzata, ha trasceso non solo la nostra natura animale, ma anche la sovranatura che la scienza, l’etica, l’arte, il pensiero hanno potenziato oltremisura».
Che la guerra pur razionalizzata incarni qualcosa che non solo sfugge alla razionalità ma trascende e signoreggia perfino la stessa civiltà dell’antropopoiesi è concetto che, con accenti e approcci diversi, sfiora o attraversa un po’ tutti i contributi degli studiosi intervenuti. Il teologo Leo Di Simone che s’intrattiene a lungo su una esegesi biblica della violenza identifica nel «mistero dell’iniquità», nel nonsenso «che non ha logica alcuna, aristotelica almeno», il fil rouge che percorre come una ininterrotta scia di sangue la vicenda millenaria dell’umanità, l’attrazione esercitata dal male simbolicamente rappresentato nell’Anticristo, sotto la quale egida «sono state viste le figure dei più grandi dittatori della storia più antica e più recente». Repulsione e fascinazione si mischiano in una sorta di inconscio collettivo, oscuro ostaggio della perenne contaminazione di eros e thanatos, di libido e di morte.
«Le guerre cominciano nella nostra testa prima ancora che nei campi di battaglia» ci ricorda nel suo illuminante contributo Enzo Pace, che da sociologo delle religioni sottolinea il ruolo delle credenze e delle pratiche rituali quali «marcatori di identità etno-nazionali». Nella guerra in Ucraina, scrive, «siamo davanti a una pagina di storia non nuova. Un nazionalismo etno-religioso a vocazione imperiale come quello espresso dalla Russia di Putin, da un lato, che cerca di schiacciare con la sua potenza militare un nazionalismo di più recente formazione, dall’altro, che a differenza del primo non è aggressivo verso l’esterno e soprattutto non si carica di alcuna missione civilizzatrice o spirituale. Il ritorno dei nazionalismi, sia nella versione ad alta intensità messianica ed escatologica sia in quella più pragmatica e strumentale, costituisce il fattore R (rischio) più elevato di disordine mondiale».
Anche Nicola Martellozzo sostiene che «questo conflitto, come qualunque altra guerra nella Storia, è frutto della modernità, è contemporaneo quanto noi, le nostre istituzioni e le nostre armi». E ne cerca e trova conferme nello studio degli aspetti specifici della propaganda condotta dalle parti belligeranti, in quella retorica segnata dalla «post-verità, in cui la verità diventa irrilevante». Esacerbate dalle esperienze della pandemia e delle tante teorie del complotto, «fake news e credenze eterodosse mantengono la loro capacità di influenzare l’opinione pubblica e gli immaginari culturali anche dopo la loro smentita». E nello stesso approccio alla propaganda non è difficile rilevare – annota l’autore – presunzioni eurocentriche, da una parte, ed evidenti distorsioni del linguaggio ad opera del potere autocratico, dall’altra.
Di crisi della verità scrive pure il filosofo Neri Polastri che muove dall’analisi epistemologica del thauma – terrore o angosciante stupore – destinato a fiaccare le facoltà del pensiero e «a mettere in mora gli apparati simbolici con i quali abbiamo costruito la nostra immagine della realtà», per spiegare il trivialismo «per il quale “tutto è vero” e, quindi, ciascuno può avere una verità privata – può, in altre parole, affermare come vero ciò che più gli piace. Esattamente quel che abbiamo visto all’opera negli ultimi due anni». Così a fronte dell’incapacità di sfidare la complessità del conoscere finiamo con il prendere ciecamente partito affidandoci allo schema strutturale della propaganda basata su tre pilastri: «l’argomentazione retorica; la demonizzazione dell’altra parte; l’utilizzo dei soli dati a sostegno e la censura di quelli a sfavore». Ne consegue che la realtà di cui si discorre non è più la stessa per tutti e la verità è patrimonio competitivo ed esclusivo dei fuochi fatui del più banale e arrogante opinionismo.
Giovanni Cordova propone una riflessione critica sull’immaginario bellicista che fa parte ormai del nostro quotidiano, penetrando «nei corpi, nei pensieri, nella soggettività più profonda». Lo studioso si chiede cosa resti di umanamente riconoscibile nel tempo in cui «l’orrore e l’indicibile sono visionabili, cliccabili, accessibili e fruibili», «nell’era della riproducibilità della sofferenza e delle tragedie», «nella società “infomaniaca” satura di dati, immagini e comunicazione» e povera di verità, di realtà e di umanità. Chiarito che guerra e postmodernità non sono un ossimoro – «straniante e paradossale illusione derivata dal tramonto delle aspettative che la fine delle grandi narrazioni e delle idee di progresso portavano con sé» –, invoca in conclusione «un moto di inattualità: il coraggio della pace, la dismissione degli arsenali bellici e la cessazione di ogni politica esercitata contro il pianeta e gli esseri che lo abitano».
Intorno ad un’idea “politica” di pace, non utopistica né quietista, ragionano Franca Bellucci e Gianluca Serra. La prima, ispirandosi alle idee di Gino Strada, richiama le tradizioni e le culture da cui è scaturita la Lega delle Nazioni e poi l’Onu e mette in connessione la convivenza civile dei popoli con l’azione di protezione del pianeta Terra, la pace tra gli uomini e tra gli uomini e la Natura. Gianluca Serra, da prospettiva e postura differenti, ci invita a rileggere più attentamente l’articolo 11 della Costituzione e a «reimpostare la polarità guerra-pace su una nuova coppia di termini. In prima approssimazione: instabilità globale-sicurezza internazionale. Non un mascheramento semantico (…) ma una presa di consapevolezza della necessità di politiche attive per attuare i nobili propositi che i costituenti espressero nel citato articolo».
C’è da augurarsi che la guerra in Ucraina, con la sua travolgente visibilità e prossimità, combattuta in luoghi non alieni né remoti, abbia contribuito a riappropriarci del valore semantico e del senso eminentemente umano della parola profugo, significante e significato troppo spesso dissociati e separati dalle tragedie e dalle violenze della fuga. Generoso e unanime è stato infatti il moto di accoglienza in Europa delle migliaia di sfollati giustamente soccorsi, protetti, assistiti, ospitati. Ma anche in questa vicenda la solidarietà è rimasta incestuosamente legata all’ipocrisia di una politica che accoglie o respinge a seconda delle nazionalità, delle etnie o del colore della pelle dei rifugiati, così che le porte aperte agli ucraini si sono chiuse all’accesso degli immigrati africani in quello stesso Paese, come ai profughi afgani e siriani, vittime anch’essi di drammatiche crisi umanitarie, da tempo bloccati sullo stesso confine polacco con la Bielorussia. “Compassione selettiva” la chiama Giuseppe Sorce che nel suo contributo si chiede «perché l’accoglienza, come sentimento, come narrazione, come impulso, come fatti, come politiche, si sia attivata così prontamente e senza dubbi, come è giusto che sia, nel caso del conflitto ucraino, mentre sia stata così diversamente applicata, oltre che raccontata, con i rifugiati degli altri conflitti». L’esodo da una fronte di guerra posto nel cuore del nostro continente ha reso ancora più stridenti le contraddizioni e più evidenti le fratture nella pusillanime politica di integrazione europea che tende oggi più di ieri a esternalizzare il controllo delle frontiere e a decentrare gli obblighi di asilo e protezione a Paesi terzi, ieri la Libia e la Turchia, oggi il Ruanda o il Senegal.
Uno sguardo sulla guerra in Ucraina completamente diverso è quello di Giovanni Gugg, che ha raccolto, documentato e commentato il folklore cosiddetto bellico, quelle leggende e credenze popolari nate attorno ai fatti realmente accaduti o realisticamente inventati: dal Fantasma di Kyiv alla Babushka avvelenatrice, ad altre storie che richiamano figure mitiche o eroiche e che esprimono e traducono sul piano simbolico – come spiega lo studioso – «un’esigenza di rassicurazione, come una forma di controllo dell’incertezza presente», un modo di evadere dall’orrore delle violenze e dal timore della morte.
Dalla guerra infine non poteva non muovere l’intervento di Pietro Clemente che, nell’introdurre i contributi degli autori de “Il centro in periferia”, evoca l’immagine delle sette spade piantate sul petto della Madonna Addolorata, ognuna delle quali rappresenta, al più alto livello simbolico, le “Passioni” inferte dalla guerra: dalla morte dell’universalismo alla perdita dell’innocenza, dalle ambiguità della politica occidentale alla tragedia umanitaria degli esodi e degli eccidi. Nel paragonare poi la strage di Bucha del marzo 2022 a quella nazista di Civitella della Chiana del 1944, annota che «così si mescolano le storie di violenza di guerra, di uccisione arbitraria di civili innocenti, si misurano i tempi del dolore che la guerra produce. Ci vogliono poi decenni per ritrovare memorie conciliabili». A pensarci bene, le parole di Clemente ci ricordano quelle di Agnes, personaggio de L’immortalità di Milan Kundera: «L’inganno dell’odio sta in questo, che ci lega al nostro avversario in uno stretto abbraccio. Qui sta l’oscenità della guerra: l’intimità del sangue reciprocamente mescolato, la lasciva vicinanza di due soldati che si trafiggono guardandosi negli occhi».
È appena il caso di precisare che questo numero di Dialoghi Mediterranei offre come sempre intensi e plurali dialoghi intorno ai temi privilegiati dalla rivista. Si continua a dibattere su Scuola e Università, sullo stato di salute del sistema dell’istruzione nel nostro Paese (Aledda), sul valore della conoscenza e dell’educazione nel tempo segnato dalla grave crisi delle competenze (Cavadi) e sul ruolo dell’antropologia nell’organizzazione dei saperi accademici (Armano). Si dà voce agli studenti per ragionare insieme sulla scrittura che è, come scrive Alberto Biuso nel suo contributo, «l’essenza del pensare, il geroglifico del mondo, la pienezza della mente, il lampeggiare dell’intelligenza, il senso di una vita umana capace di lasciare traccia di sé nel tempo al di là del tempo che si è». Franco Pittau prosegue la rassegna sulla presenza storica degli italiani all’estero; è la volta dell’Australia, l’Isola-continente che attrae ancora oggi una cospicua collettività di giovani che vi si recano per un periodo di “vacanze lavoro”.
Diverse ancora una volta le pagine su letteratura, arte e cinema, migrazioni interculturali e relazioni interreligiose. Chi vuole conoscere più da vicino il complesso mondo dell’effimero trova nello studio di Nicola Squicciarino su abbigliamento e moda un puntuale excursus storico del fenomeno che ha conosciuto negli ultimi anni «la crescente emancipazione dei significanti dai significati». Chi è interessato alla filologia può leggere con profitto il testo di Antonio Pioletti che, «in tempi di crisi dei saperi umanistici», ne riafferma con forza la vitalità e la centralità del ruolo contemporaneo. Dell’Iran antico e dei suoi valori culturali disseminati «molto al di là dei propri diversi confini politico-geografici» Bruno Genito traccia un affresco di grande respiro con particolare attenzione alle testimonianze artistiche. Paolo Giansiracusa ci guida all’osservazione ravvicinata dei ritratti opera di Tintoretto, Lina Novara ci fa scoprire i tesori della “Marina grande” di Trapani, mentre Antonietta Iolanda Lima ci accompagna lungo i percorsi dell’architettura del sacro nella Pasqua siciliana. C’è spazio poi per numerose letture sulle donne e il loro protagonismo nella storia (Cultrera, D’Anna, Lentini, Traìna); per gli accurati saggi etnografici su due città campane, Napoli e Caserta, rispettivamente a firma di Annalisa Di Nuzzo e Mariano Fresta; per la dettagliata rassegna letteraria della cucina a base di pesce a cura di Ninni Ravazza; per la intelligente ricognizione che Dario Inglese compie del libro complesso di Graeber e Wengrow, L’alba di tutto, un’opera di notevole impegno per ogni lettore che, «come la pallina di un flipper, è condotto in giro per il mondo (da un continente all’altro) e a spasso nel tempo (lungo un arco cronologico ai limiti del concepibile) alla ricerca di connessioni e di interpretazioni».
C’è infine tutto il resto sacrificato in questo editoriale. Ci sono le foto d’autore con i loro racconti e c’è il ricordo di Letizia Battaglia che nel nome portava la natura composita della sua personalità, la gioia di vivere da un lato e “lo spirto guerrier” che ne animava la sfida quotidiana dall’altro, la generosa umana empatia unitamente al carattere indomito e pugnace. La sua fotografia, nell’asciutto e rigoroso bianco e nero, riproduceva in fondo questo splendido doppio profilo, coniugando la morte pietosamente da mostrare, con i cadaveri delle tante vittime ammazzate nella guerra di mafia, con la vita comunque da rappresentare, con i volti dei bambini e delle bambine, ove non cessò mai di ricercare la grazia, la purezza e la speranza, in ostinato e critico contrappunto alla violenza, al dolore e all’avverso destino. «Le bambine fotografate nei quartieri degradati di Palermo – scrive Silvia Mazzucchelli nel suo omaggio a Letizia – simboleggiano la bellezza che si oppone all’emarginazione. La loro forza sta proprio nella fragilità, nel candore, nell’innocenza. Una donna che aveva visto tanta morte si commuoveva dinnanzi alla possibilità che le ragazzine rappresentano».
Letizia Battaglia è stata a suo modo fotografa di guerra ma anche e soprattutto di pace. Testimone del desiderio di pace che muove da un profondo sentimento di giustizia, da un’ansia di riscatto dalle povertà materiali e culturali. Ci ha lasciato mentre ci troviamo in mezzo ad una guerra che dura da più di due mesi e a cui rischiamo piano piano di assuefarci. «La odierna sorte dell’Ucraina assaltata – scrive Nino Giaramidaro in questo numero – è quella di fame e di sangue, di dibattiti in poltrona, inviati che ci mostrano il niente alle loro spalle o intorno a loro, aruspici della guerra che tentano di indovinare sui cadaveri sparsi le mosse di Putin. Non è possibile immaginare la guerra». Le fotografie che ci giungono da Mariupol o Kherson sono raccapriccianti, inquietanti, insostenibili allo sguardo. E tuttavia la loro quotidiana iterazione, la loro pervasiva proliferazione può paradossalmente sottrarre senso all’insensatezza delle stragi, può rendere insensibile la nostra capacità di percezione e reazione, così che diventano perfino invisibili i cadaveri ammucchiati e disseminati per strada o gettati nelle fosse comuni, ridotti a “nature morte” nel teatro di macerie che l’abitudine sta privando dello scandalo della tragedia.
Vale forse la pena riprendere le parole di Paul, un altro personaggio de L’immortalità di Kundera, che alla domanda quale fosse il presupposto della guerra così rispondeva: «Ti mandano a morire perché esiste, pare, qualcosa di più grande della tua vita. La guerra può esistere solo nel mondo della tragedia: fin dall’inizio della storia l’uomo non ha conosciuto che il mondo tragico e non è capace di uscirne». Ultimo dispaccio dal fronte: “Odessa sotto attacco, colpito l’aeroporto. Putin verso l’annuncio: guerra totale il 9 maggio”. Per non cedere alla rassegnazione o alla assuefazione non ci resta alla fine che unire, all’impegno di non smettere di interrogarci, la speranza che questo Primo Maggio sia viatico di orizzonti meno cupi e di una non lontana stagione di Pace!
Dialoghi Mediterranei, n.55, maggio 2022
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