di Franco Pittau e Silvano Ridolfi
In Australia, dove sono numerose le possibilità occupazionali, è severamente vietato il lavoro nero e i cittadini stranieri interessati all’inserimento, temporaneo o permanente, devono munirsi di un apposito visto. Quanto sia rigorosa la linea seguita dal governo australiano in materia di visti è apparsa, all’inizio del 2022, nel caso del numero uno del tennis mondiale Novak Djokovic, costretto a lasciare il Paese senza poter partecipare al torneo di tennis, a causa di una irregolarità (la mancata vaccinazione) nell’ottenimento del visto d’ingresso [1].
In Europa sono attivi gli agenti per l’immigrazione, registrati in un elenco del Dipartimento australiano, che sono di grande aiuto alle persone interessate a trasferirsi in Australia perché si adoperano per trovare loro un’azienda sponsor prima della partenza. Una volta arrivati sul posto gli immigrati possono ricorrere ai servizi del Job Network, una rete nazionale di agenzie e organizzazioni, private e pubbliche, specializzate nella ricerca del lavoro. Quando si ottiene la sponsorizzazione, e cioè la dichiarazione di un datore di lavoro che si impegna alla firma di un contratto di lavoro, si ottiene un visto per inserimento stabile.
I lavoratori qualificati (Skilled Workers), in grado di svolgere determinate mansioni (il cui elenco è annualmente aggiornato), ottengono il visto anche senza doversi munire di un’autorizzazione previa e possono cercare il lavoro direttamente sul posto, a condizione che conoscano bene l’inglese e siano in grado di attestare un’esperienza acquisita nel loro ramo professionale. In linea generale, per soddisfare le esigenze di quel mercato di lavoro, sono sempre richiesti operai specializzati, tecnici, medici, infermieri e ingegneri. Ogni anno vengono concessi fino a 100 mila visti a lavoratori specializzati, inclusi quelli finalizzati a una durata temporanea. Quelli che hanno fruito di una formazione più elevata possono trovare un impiego presso un’università o un centro di ricerca.
La normativa contempla anche un visto per imprenditori e investitori. I giovani fino a 30 anni possono recarsi temporaneamente in Australia dopo aver ottenuto il Working Holidays Visa, che permette loro di trattenersi per il periodo di un anno, rinnovabile a determinate condizioni. I migranti temporanei incidono per circa il 5% sulla popolazione residente e per quasi un decimo (8,5%) sulla forza lavoro. È rilevante, come si vedrà, la presenza di giovani italiani arrivati con visto per vacanze lavoro.
L’emigrazione temporanea dei giovani in Australia per una “vacanza lavoro”
La formula delle vacanze lavoro ha inciso in misura consistente sul numero totale di quanti sono arrivati per lavorare in Australia nel periodo 2014-2015 [2]. Il trasferimento annuale di giovani italiani (circa 10 mila) con il visto Working Holidays è stata oggetto nel 2015 di una pubblicazione della Fondazione Migrantes, che è imperniata sulla ricerca curata da Michele Grigoletti e Giuseppe Casarotto; titolo: Giovani italiani in Australia. Un viaggio da temporaneo a permanente [3]. Nonostante la diffusione degli abusi, specialmente a danno degli studenti recatosi nelle aree rurali, la citata pubblicazione valuta positivamente questa esperienza giovanile sotto l’aspetto psicologico e sociale, ritenendola in grado di contribuire alla formazione di una personalità dei giovani. Vi si legge, infatti, che «I ragazzi alla fine dell’esperienza australiana, e soprattutto dopo le farm, si ritrovano più adulti, più liberi dalle paure, dai blocchi psicologici, dalle convenzioni sociali soffocanti di una società italiana che vede con sospetto la diversità di pensiero, più consapevoli delle proprie possibilità e meno spaventati dai propri limiti».
Un’analisi critica, per essere esaustiva, deve tenere conto degli aspetti positivi ma anche degli eventuali limiti e negatività. È stato osservato che i giovani si recano in Australia con un’idea molto vaga di ciò che troveranno, spinti dal bisogno di evasione dall’Italia e dalla ricerca di occupazioni facili e guadagni apprezzabili. Essi sono anche interessati a misurare le proprie forze, seppure non in modo stabile, in un Paese posto molto lontano ma fortemente attrattivo per la sua modernità e il dinamismo di crescita. La preoccupazione iniziale consiste nel trovare un alloggio, che usualmente consiste in una stanza abbastanza costosa, e nella ricerca del lavoro, spesso trovato attraverso il passaparola e anche tramite intermediari a pagamento, al posto di ricorrere ai canali ufficiali. Nonostante il possesso di una laurea, per essi è il lavoro più ricorrente quello svolto come camerieri o in mansioni umili similari, spesso svolte in nero, mal pagate e senza le tutele previste dalla legge.
In un’indagine, pubblicata dal Senato Federale nel 2016, si equipara questa realtà lavorativa a una “disgrazia nazionale”. In quell’anno fu stigmatizzata di diverse disfunzioni dal Fair Work Ombudsman. Nei casi analizzati non tutti i giovani erano riusciti a farsi retribuire oppure erano stati sottopagati e, inoltre, nel 6% dei casi gli interessati avevano dovuto pagare per avere indietro firmati i propri documenti. Secondo le conclusioni del difensore civico, specialmente nel settore rurale, era radicata la convinzione che i datori di lavoro potevano sfruttare la manodopera giovanile straniera a proprio piacimento, complice la diffidenza degli stessi giovani nei confronti delle istituzioni pubbliche.
Dal 2013 l’Associazione Nomit, collegata con il sito “Senso Comune”. ha aperto lo sportello Welcome Desk (presso il Consolato Generale d’Italia a Melbourne) con lo scopo di offrire consulenza e assistenza a questi giovani. Dall’analisi dei 600 questionari è risultato che almeno la metà degli intervistati si è spostata per lavorare e che il settore di gran lunga prevalente è quello della ristorazione. Sotto l’aspetto giuridico il fatto che il Working Holidays Visa permetta di effettuare prestazioni solo a tempo parziale, rende più difficile trovare un’azienda disposta a impegnarsi per la sponsorizzazione, mentre senza questa garanzia non è consentita la prosecuzione della permanenza in Australia. Tuttavia, il diritto a tale permanenza è garantito quando gli interessati si impegnano nel secondo anno a lavorare per 88 giorni (tre mesi) presso un’azienda agricola come braccianti, raccoglitori di frutta, giardinieri o in mansioni simili.
Molti giovani per venire in Australia richiedono il visto per studenti, che prevede un orario predeterminato di lavoro a settimana. Essi sono incentivati a ricorrere a questa formula dalla propaganda di agenzie, che hanno il compito di mettere in contatto gli interessati con le scuole. Questa intermediazione è pagata dalle scuole beneficiarie del servizio. In questo modo spesso si alimentata l’iscrizione a corsi non costosi, ma di scarsa qualifica, che sono difficilmente in grado di favorire la qualificazione per far ottenere un visto per un soggiorno stabile. È positivo, invece, l’aiuto prestato da queste agenzie nella ricerca di un alloggio e di un lavoro.
Va aggiunto che i titolari di un visto per studenti, non potendo lavorare a tempo pieno, non sono in grado di affrontare l’elevato costo delle spese necessarie per sostenersi e sono costretti a ricercare un reddito supplementare nell’ambito del lavoro in nero. Di conseguenza, coloro che hanno intrapreso questo percorso si ritrovano intrappolati in una situazione che li porta a rinnovare più volte il visto come studenti e a esporsi allo sfruttamento nell’ambito del lavoro informale, alimentando così lo sfruttamento.
La recente normativa australiana sui richiedenti asilo e le espulsioni
Non si entra qui nel merito della politica australiana per i richiedenti asilo, che non riguarda gli italiani, pur venendo spesso menzionata anche in Italia nei dibattiti sulla politica migratoria. Da tempo l’Australia ha deciso di non far attraccare le imbarcazioni con richiedenti asilo e procede a respingimenti collettivi e dispone lo sbarco di queste persone in campi gestiti in isole del Pacifico grazie ad accordi sottoscritti con i relativi Stati esteri, o anche in un’isola australiana, dove si procede all’analisi delle richieste. Solo da ultimo è stato concesso che, in caso di malattia, i richiedenti asilo dai campi off shore siano trasferiti nella terraferma, dove è più agevole erogare le cure necessarie [4].
Non sono mancate le critiche a questa costosa politica di intervento non conforme a quanto disposto dalla Convenzione di Ginevra del 1951; inoltre, tale strategia, a prescindere dalle critiche a carattere giuridico e, contrariamente a quanto è stato affermato da qualche partito, difficilmente sarebbe applicabile nel Mediterraneo, dove i diversi Stati della costa sud rifiutano di fungere da frontiere esterne dell’Unione Europea e gestire per conto degli Stati membri i campi di raccolta dei richiedenti asilo. Sia a livello internazionale che nella stessa Australia sono state mosse severe critiche a questa normativa.
Un altro tema dei recenti dibattiti si riferisce alla normativa che ha ampliato la possibilità di espellere gli immigrati già residenti per motivi di ordine pubblico e di prevenzione, basandosi sul criterio del character test. Il giornalista Peter Fritz Simmon, avverso a questa rigidità, ha intitolato un suo dossier intitolato “Don’t call Australia Home”, riprendendo in negativo il titolo di una famosa canzone del passato e ha stigmatizzato il passaggio dall’accoglienza iniziale dei detenuti britannici al nuovo regime delle espulsioni. Tali disposizioni sono state severamente criticate dal governo neozelandese dopo che un numero di neozelandesi di etnia Maori è stato espulso a prescindere dal fatto che vivevano sul posto con le loro famiglie anche da decenni. Il ministro della Giustizia neozelandese Andrew Little ha equiparato l’elevato tasso di espulsione a una violazione dei diritti umani. Invece l’Australia ha rimproverato alla Nuova Zelanda di non aver fatto abbastanza per sostenere le pattuglie navali australiane a intercettare i “trafficanti” di esseri umani. Alla fine di febbraio 2020, il primo ministro neozelandese Jacinda Ardern ha ribadito che la politica australiana di allontanamento dei neozelandesi “corrode” le relazioni bilaterali tra i due Paesi.
Come si vede, la normativa australiana sull’immigrazione, apprezzabile sotto altri aspetti (ad esempio per la possibilità di passare dalla presenza temporanea a quella stabile), ha destato perplessità per quanto riguarda l’atteggiamento nei confronti dei richiedenti asilo e il regime delle espulsioni.
I dati di fonte australiana sulla collettività italiana
Al censimento del 2016 la collettività italiana, includendo quelli in possesso della cittadinanza italiana e quelli di origine italiana, includeva un milione di persone, ed era la sesta per importanza numerica con una incidenza del 4% sulla popolazione residente: per avere un’idea, basti pensare che si trattava di un’incidenza delle proporzioni ben superiore a quella della grande collettività romena attualmente presente in Italia.
Tra i membri della collettività quelli nati in Italia erano 174.044, pari solo al 2.8% di tutte le persone nate all’estero e residenti nel Paese, e ciò indicava che gli ingressi dagli altri Paesi erano continuati dopo la forte diminuzione delle partenze dall’Italia. Al censimento del 2011 i cittadini italiani residenti furono, invece, circa 45 mila in più per un totale di 218.718. La collettività nel 2011 registrò un più basso numero di membri 916.100. È andato sempre più aumentando l’invecchiamento degli italiani residenti sul posto, protagonisti dei flussi che si collocano lontano nel tempo: al censimento del 2006 l’89% risultava arrivato prima del 1980 e il 63% era ultrasessantenne.
Un’altra notizia interessante, fornita dal censimento del 2006, indica che, all’epoca, erano 157.209 quelli che avevano acquisito la cittadinanza italiana, all’incirca i quattro quinti degli italiani residenti sul posto (79%), mentre altri, come si è riferito parlando dei flussi (circa 30 mila), erano rimpatriati dopo essere diventati cittadini italiani. Una notevole concentrazione degli italiani si riscontra nelle aree di Sydney, Melbourne, Adelaide, Perth e di altre città, come anche nel Queensland dove si trovano i discendenti dei pionieri che andarono a lavorare nelle piantagioni della canna da zucchero. Merita di essere segnalato che in una stessa città si può riscontrare una rilevante densità abitativa di italiani in uno stesso quartiere, dove nel passato diedero luogo alla formazione delle “little Italy” [5].
Questo fenomeno residenziale è, ad esempio, riscontrabile nella periferia di Carlton lungo Lygon Street. Questo quartiere si configura come il distretto dei ristoranti. Si trova vicino a Piazza Italia, della cui sistemazione si sono occupati congiuntamente la città di Melbourne e quella di Milano (unite in gemellaggio dal 2004). Qui ogni anno si svolge, a novembre, il “Festival della cultura e della gastronomia italiana”. Nel quartiere è palpabile l’entusiasmo in occasione dello svolgimento della Formula Uno, attestato dal dispiegamento delle bandiere rosse e gialle, simbolo delle auto Ferrari. Il riferimento all’Italia fu anche espresso nel 2016 dalla forte animazione del quartiere in concomitanza con il campionato del mondo del calcio. Queste possono essere considerati espressioni esterne di una “italianità” che permane a distanza di tempo e che abbisogna di essere esaminata anche nelle sue dimensioni più profonde.
Tra gli altri più importanti esempi “Little Italy” si possono citare i casi di Norton Street a Sydney, Ramsay Street a Canberra, Campbell town e Athelstone, Adelaide New Far e Brisbane. Considerevole il numero degli italiani provenienti da una stessa area geografica: ad esempio nella cittadina di Brunswick si è insediata una consistente comunità originaria della provincia di Ragusa.
I dati di fonte italiana sulla collettività in Australia
Tra le fonti italiane l’archivio AIRE fornisce dettagli interessanti sull’attuale collettività in Australia. Al 31 dicembre 2018 gli italiani residenti in questo Paese sono stati 148.510 (48,6% le donne), così ripartiti per aree territoriali italiane di riferimento: 61,2 Meridione, 27,4% Nord e 11.4 % Centro. Le regioni maggiormente rappresentate per numero di residenti sono, nell’ordine, le seguenti: Calabria, Sicilia, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Lombardia, Puglia. Nel complesso prevalgono le regioni meridionali. Il 53,1% è iscritto all’archivio a seguito di espatrio e il 38,4% a seguito di nascita sul posto, mentre scende al 2,1% la quota degli iscritti per riacquisizione della cittadinanza. Si riscontra, sotto quest’ultimo aspetto, una netta differenza con i Paesi dell’America Latina, nei quali la richiesta della cittadinanza è strettamente legata anche la possibilità di trasferirsi in Italia o in un altro Paese europeo.
Questa collettività si caratterizza per un’incidenza molto bassa dei minori (8,6%, quasi dimezzata rispetto alla media degli iscritti all’AIRE) e una percentuale molto alta di quelli che hanno già compiuto i 65 anni (23,8%), quasi quattro punti in più rispetto alla media AIRE, per giunta con la previsione di un loro forte aumento in ragione della consistenza della fascia di età 45-64 anni 30,7%). Peraltro, per un ringiovanimento non si può fare affidamento sui nuovi arrivi che, pur essendo in aumento, sono comunque di modesta entità; invece, non sono soggetti a fattori demografici negativi gli italo-australiani.
Dalla lingua italiana a quella inglese
La lingua italiana ha conosciuto in Australia una notevole diffusione durante gli arrivi di massa dei primi decenni del dopoguerra, con un inizio riscontrabile già negli anni ‘30, quando la collettività, pur quantitativamente ridotta, si colloca subito dopo quelle anglofone. Mentre nelle strutture formative l’italiano può essere fatto valere come lingua di cultura, non sono più in atto quei flussi migratori che ne facevano anche una lingua di uso corrente all’interno della collettività, costituita per la stragrande maggioranza di persone a loro agio con l’inglese.
Confrontando i dati dei censimenti si riscontra che il numero di quelli che utilizzano l’italiano in famiglia è stato in continua diminuzione, cosa peraltro comprensibile perché, col tempo, le nuove generazioni tendono a parlare solo inglese, appreso perfettamente a scuola, mentre il ricorso all’italiano non viene più sostenuto, come avveniva una volta, dalla necessità di parlare con i connazionali.
Al censimento del 2016 sono stati 271.507 i residenti che hanno dichiarato di fare riferimento all’italiano, collocando così la lingua italiana al quarto posto tra le lingue parlate: ma questa posizione ha indicato un regresso rispetto al passato, quando l’italiano veniva subito dopo l’inglese. Nel 1983 erano 555.300 i residenti (quasi il 4% della popolazione australiana) quelli che parlavano italiano come prima lingua. L’italiano è insegnato da docenti locali in numerose scuole pubbliche e private in tutte le principali città. Da allora è iniziata una costante diminuzione di quelli che parlano italiano, man mano che scompaiono quelli arrivati tra le due guerre mondiali e che quelli arrivati nei flussi di massa del dopoguerra diminuiscono in percentuale rispetto a tutta la collettività e in parte muoiono. Già al censimento del 2001, su 353.603 pochi utilizzavano l’italiano, i soggetti al di sotto dei vent’anni che usavano l’italiano erano appena 21 mila circa.
Al censimento del 2006 risultò che il 28% degli italiani aveva un’ottima conoscenza della lingua inglese e buona nel 32% dei casi. Gli altri si collocavano al di sotto di tale livello, escludendo l’9% che non aveva risposto a questa domanda del censimento. È evidente, quindi, che tra gli italo-australiani la lingua italiana non ha più la stessa importanza rivestita per i loro genitori o i loro nonni e ciò impone che la riflessione sulla “italianità” delle collettività all’estero vada impostata non trascurando la lingua ma, senz’altro, senza farne il perno principale come avveniva nel passato.
L’apprezzabile livello di inserimento raggiunto dagli italiani [6]
I precedenti storici e sociostatistici prima riportati verranno completati con il riferimento a illustri italo-australiani. Naturalmente il presente saggio è ben lontano da un’esaustiva presentazione della realtà italiana in Australia. Tale compito è stato affrontato nel volume Literary and Social Diasporas: An Italian Australian Perspective, da Gaetano Rando e Gerry Turcotte, rispettivamente incaricato degli studi italiani in lingua inglese presso l’Università di Wollongong e, il secondo. docente in di lingua inglese e di Executive Dean presso l’Università Notre Dame d’Australia. Essi, avvalendosi degli apporti di studiosi australiani e italiani, hanno offerto un panorama molto ampio e multiforme del percorso compiuto dagli italiani nel corso del loro inserimento, occupandosi delle tradizioni, delle caratteristiche di alcune aree di partenza, della letteratura della nostalgia, dell’impatto linguistico, della famiglia e del ruolo delle donne, oltre a parlare di lavoro, cibo, migrazioni intellettuali e seconde generazioni. È stata anche presentata l’immagine collettiva risultante dalle lettere inviate ai giornali italo-australiani in riferimento all’Italia.
Si è parlato spesso dell’emigrazione di massa come di un’epopea, tenuto conto delle sue dure condizioni iniziali rispetto alle posizioni poi raggiunte. Gli emigrati italiani, che dall’immediato dopoguerra arrivano con un basso livello di formazione scolastica e professionale, potevano contare solo sulla loro esperienza di contadini o manovali. Essi erano destinati a svolgere i lavori più umili con la speranza che i loro figli si riscattassero da questa situazione, come in effetti è avvenuto con un buon livello di inserimento nei vari ambiti dell’economia, della società e delle istituzioni (a livello locale, statale e federale), realizzando un protagonismo diffuso.
È d’obbligo menzionare le piccole e medie realtà anche costituite dagli italiani, ma non sono mancate neppure le grandi imprese, come evidenzia il protagonismo degli italiani nelle acciaierie di Port Kembla e di Newcastle, oppure il coinvolgimento nell’industria della canna da zucchero nel Queensland, dove gli italiani iniziarono come semplici lavoratori. Gli italiani si sono parimenti distinti nel settore edile con le imprese medio-piccole e altre in grado di costruire dei ponti, centrali idroelettriche e diverse importanti infrastrutture. Sono stati gli italiani a dare inizio in Australia alla viticoltura, che ha portato all’ottima produzione vinicola attuale.
L’impronta italiana è riscontrabile nel sistema di alimentazione, nella ristorazione, nella moda, per limitarsi agli aspetti più ricorrenti. La ristorazione ha interessato tutte le classi sociali e ha proposto il cibo secondo una forma culturale che è il frutto di un forte amore alla terra maturato nel corso dei secoli, completato nella preferenza dei prodotti genuini e nel loro trattamento basato sulla semplicità e sul gusto.
Naturalmente è forte l’impronta italiana, a livello lavorativo e nei rapporti interpersonali, quelli che determinano in larga misura l’accettazione e l’apprezzamento di chi è venuto da un altro Paese. Sono stati gli stili di vita modellati, certamente fatti propri dalle singole persone ma recepiti dall’educazione tradizionale e cioè l’attaccamento alla famiglia e al lavoro, il senso dell’amicizia, la disponibilità alla solidarietà, nonché il senso della religiosità, a caratterizzare la filosofia di vita degli emigrati. Tale differenza è stata percepita e apprezzata dalla popolazione locale, dalla quale gli italiani a loro volta hanno mutuato alcuni valori e norme di comportamento. Questa è stata in sintesi la strategia degli emigrati, che nella loro semplicità hanno anticipato quella che poi, nel 1972, sarebbe stata la scelta della politica.
È fondato ritenere che gli italiani siano stati d’aiuto per sensibilizzare gli australiani all’apertura multiculturale, essendo stati per lungo tempo la collettività numericamente più consistente dopo i britannici e gli irlandesi. Pur impegnati in un cammino quanto mai difficoltoso, essendo portatori di una evidente diversità culturale, essi riuscirono a far capire che gli immigrati sono attaccati al Paese di accoglienza. Va, comunque, chiarito che il cambiamento non è avvenuto solo in una direzione ma è stato biunivoco. Gli italiani, quindi, da una parte furono agenti del cambiamento e, dall’altra, cambiarono essi stessi perché, a contatto con gli australiani, acquisirono una nuova sensibilità civica in aggiunta al loro patrimonio culturale. Fu questa impostazione a favorire una diffusa integrazione, che rese possibili le affermazioni ai più alti livelli come anche nell’usuale livello socio-professionale.
Da quasi mezzo secolo in Australia, Giuseppe Lastella, testimone dei cambiamenti
«Giunsi in Australia a fine anni 70 e trovai un contesto con un grande divario culturale. Era il 1978, l’anno dei mondiali di calcio d’Argentina. Pensavo di recarmi in una nazione, o almeno in una località dove avevo scelto di stabilirmi (Adelaide) aperta al mondo. Dovetti invece confrontarmi con un mondo diverso e chiuso, con poche informazioni sul mondo. Trovavo i giornali in lingua italiana che potevo leggere, con frequenza settimanale Il Globo di Melbourne, con cadenza bisettimanale La Fiamma di Sydney, (che naturalmente riportavano le stesse notizie) e anche il bisettimanale Settegiorni di Sydney. Si ascoltavano le partite di calcio su radio ad onde corte con una ricezione pessima. Ad Adelaide, capoluogo dello Stato dell’Australia Meridionale, trovai una stazione radio che trasmetteva programmi pre-registrati da una stazione radio universitaria (5UV) per alcune ore settimanali.
In quegli anni l’emigrazione era ai minimi storici. Sporadicamente si sentiva dire che era arrivato qualcuno dall’Italia. Per la comunità italiana di questo Stato (Australia Meridionale o, più comunemente, Sud Australia) i punti d’incontro erano i numerosi sodalizi sociali, a carattere regionale o anche, spesso riferibili a paesani di uno stesso comune che, tra gli anni ‘50 e ‘60, avevano costituito delle forme aggregative con l’intento di ritrovarsi dopo il lavoro o a fine settimana. Erano luoghi dove si parlava il proprio dialetto, si mantenevano le proprie tradizioni e spesso si incontrava il compagno o la compagna di vita. Ci si poteva anche organizzare per la messa e altre funzioni religiose e con i missionari si potevano organizzare le sagre paesane legate anche ad altre ricorrenze. La radio, seppure a livello davvero amatoriale, provvedeva a diffondere, piuttosto che le notizie desunte dalle testate prima citate, i riferimenti sulle le attività sociali dei circoli italiani.
Cosa fare, quindi, per uno come me, appena arrivato dall’Italia, di origine pugliese (Molfetta) ma vissuto a Milano per diversi anni? Era difficile incontrare giovani connazionali per socializzare con loro. Le differenze da me incontrate erano tante. Mi avvicinai quindi all’ambiente della radio, unico modo, almeno per me, per sentirmi attivo e contribuire a qualcosa di utile per me e per la comunità. Poi avvenne il terribile terremoto dell’Irpinia (1980). Io spinsi molto per suscitare nella comunità un forte spirito sociale altruista e la comunità dette il meglio di sé! Tutti i club parteciparono alla raccolta fondi, dal Sicilia Club al Veneto Club, e con un forte impegno della comunità campana, che era molto presente nel Sud Australia. Tutti diedero il loro contributo: i vari club; noi della radio (Gabriele Damian, il sottoscritto e altri ancora; gli imprenditori e i commercianti; i singoli individui, anche con la vendita di fiori per le strade con Vincenzina Ciccarello in primis). Un atto di solidarietà immenso!
In quella tragica occasione iniziarono i programmi “live” non più preregistrati e si passò dalle frequenze AM a FM con la radio 5EBI (Ethnic Broadcasting Corporation) con oltre 15 ore settimanali. Quindi, si seguì il Festival Italiano, a cadenza annuale, durante il quale la comunità italiana si presentava alla comunità australiana. Questo avvenne per tutto l’arco degli anni 80 e 90. Questo Stato dell’Australia ha avuto dei grandi premier sensibili al multiculturalismo: Hon, Don Dunstan, Hon John Bannon e Hon Mike Runn. Su tutti spicca il Primo ministro Federale Gough Whitman.
Intanto non si registrava più una nuova ondata di emigrazione se non alcuni arrivi provenienti dalla Campania a seguito del terremoto dell’Irpinia. Nello stesso tempo la comunità invecchiava. I figli s’inserivano, come ovvio, nel tessuto sociale australiano con molti sacrifici dei loro genitori che vedevano e vedono nei loro figli il loro stesso successo. Sorgeva, quindi, il problema “anziani” Poche le persone che si dedicavano a questa componente della comunità che cresceva sempre di più: fra tutti il cav. Antonio Giordano, il comm. alto ufficiale il dott. Carmine De Pasquale. Il primo fu il fondatore dell’ANF (Associazione Nazionale Famiglie Emigrati) che si occupava dell’assistenza diretta; il secondo, coadiuvato da un folto gruppo di volontari, aveva creato una casa di cura per la comunità (il Villaggio Italia). Nel frattempo altre associazioni nascevano con scopi simili il CIC (Comitato Italiano di Coordinamento), la FIKREF (già in precedenza operativa) e anche gruppi autonomi di pensionati e anziani.
Chi scrive, nel 1986, tramite il CIC, istituì la seconda mensa per anziani con lo scopo di combattere l’isolamento degli anziani e fungere da tramite tra la comunità italiana e le istituzioni australiane. La prima mensa fu fondata dall’operatrice sociale del comune di Thebarton ma solo per i residenti di quella zona.
Nel 1988 l’Australia firmò l’Accordo di sicurezza sociale con l’Italia e iniziò un grande lavoro di raccordo tra gli italiani residenti in Australia e l’INPS per fare ottenere la pensione italiana in convenzione. Nacquero altre sedi di Patronato (l’ITAL-UIl ed EPASA-CNA), mentre erano già operanti gli uffici dei Patronati INAS-CISL, INCA-CGIL e IPAS, da soli non sufficienti a sopperire alla domanda di tutela sociale.
Con l’avvento di internet e l’entrata in vigore del visto per “Vacanza/Lavoro” si è tenuto conto dell’impennata di arrivi di giovani. Il visto ha una durata di 12 mesi, prolungabili di altri 12 a condizione di trascorrere un periodo lavorativo di 3 mesi nelle farm, cioè nelle aziende agricole al di fuori dalle zone metropolitane. Si tratta di un lavoro spesso pesante e lontano dalla società civile, animato però dalla speranza di poter poi trovare una ditta che sponsorizzi l’interessato e gli consenta di essere autorizzato all’emigrazione permanente con dovute garanzie. Si arriva così agli anni 2000 e ai conseguenti cambiamenti.
Oggi, grazie a gruppi formatisi sui social (come whatsapp, messange e così via), questi giovani si scambiano informazioni, fissano incontri, organizzano meeting. Ciò comporta che non ci sia più il bisogno di frequentare i vari circoli italiani. Tra loro si organizzano anche gruppi di giovani madri, che si incontrano indipendentemente dal Paese d’origine. Molti giovani sono ora inseriti nelle due stazioni radio in lingua italiana h24, dando una nuova linfa alla presenza italiana: un supporto di cui si sentiva il bisogno. All’interno della comunità italiana ci si è confrontati, insomma, con un forte cambiamento nei rapporti sociali, culturali ed economici, anche grazie alle nuove tecnologie che hanno avvicinato Italia e Australia. Personalmente, anche se sono giunto in Australia nel lontano 1978 e andato in pensione con figli ben inseriti nel tessuto socio-economico, non posso dimenticare le mie origini e quindi l’italianità né i familiari in Italia. Trascorrere l’ultimo percorso della vita nella città nativa è un desiderio che mi porto sempre dentro ed è quello che sto realizzando.
A proposito dei figli, sono tutti nati in Australia (Giovanni Mario detto Gianni, Daniele e Michele) e tutti sposati. Gianni dopo la maturità ha frequentato l’Australian Institute of Management e ha acquisito il Certificate Business Management: oggi lavora in qualità di Head of Business Sale. Daniele, dopo la maturità e la frequenza dell’Istituto Professionale e aver ottenuto la qualifica di Piastrellista, lavora per suo conto da artigiano autonomo. Michele, conseguita la laurea in Psicologia sportiva e il dottorato presso la CQ University del Queensland, lavora per questa struttura nel settore degli studi della ricerca, in particolare con riferimento alla situazione degli atleti durante il sonno. Essi, pur seguendo tre indirizzi diversi, si sono inseriti molto bene nel tessuto socio-economico australiano, né potrebbe essere stato diversamente per chi ha seguito in Australia tutto il percorso formativo e scolastico. Nel 1990 mandai i miei primi due figli in Italia, perché volevo che conoscessero i miei familiari. Rimasero per sei mesi allo scopo di familiarizzare con i miei cari ma anche per seguire un ciclo di studi in un istituto scolastico italiano. Fu una esperienza importante per la loro formazione, anche da punto di vista culturale e sociale, tanto che ancora oggi mantengono solidi legami con i loro compagni di scuola avuti in quel breve periodo».
Alcuni esempi significativi di italiani in Australia
Non mancherà di sorprendere che questi personaggi, salvo il caso dell’imprenditore e consigliere comunale-sindaco, furono anche leader della comunità dei suoi connazionali nel suo territorio. Negli altri casi, pur trattandosi di politici importanti, nelle notizie biografiche a loro dedicate non si trovano riferimenti alla collettività italiana. Questa “dissolvenza completa” nel nuovo contesto sociale suscita degli interrogativi in chi cerca di leggere la vicenda migratoria dal punto di vista italiano, cercando di riconoscere, a distanza di tempo, i segni della permanenza del patrimonio iniziale. Sono aspetti che sono al centro della lettura del fenomeno migratorio italiano.
Eleazaro Torreggiani (1830-?)
Degli uomini di chiesa si ha molto da raccontare. Molti furono inviati come missionari tra gli italiani anche ai fini della loro promozione spirituale, impegnati in molteplici iniziative, tra le quali vanno segnalate quelle a favore degli anziani. Nel caso qui segnalato si tratta di un vescovo, inviato in Australia non per occuparsi degli italiani bensì di un’intera diocesi (quella di Armadale), compito che egli svolse in maniera egregia.
Nato a Recanati, egli entrò nell’ordine dei Cappuccini e manifestò il desiderio di partire in missione. Fu invece mandato in Inghilterra, dove si distinse per le qualità organizzative e pastorali. L’apprezzamento riscosso gli procurò la consacrazione a vescovo nel 1887 con l’affidamento della diocesi australiana di Armidale. Recatosi sul posto, svolse un immenso lavoro con un carattere gioioso, lasciando la diocesi potenziata quanto al personale pastorale e alle strutture, unitamente alla fama di essere un buon santo. Le notizie biografiche, pur attingendo agli archivi dell’Ordine dei Cappuccini e alla storia della Chiesa cattolica in Australia, non contengono alcun riferimento a un suo specifico impegno a favore degli italiani, peraltro impegnati in quel periodo in un complesso percorso di integrazione.
Hubert Peter Lazzarini (1880 –1952)
Nacque nel nuovo Galles del Sud da madre australiana e da padre italiano, immigrati negli Stati Uniti. Dopo un primo periodo lavorativo, inizialmente da dipendente poi con una sua azienda, entrò nell’agone politico, come del resto fece suo fratello maggiore. Infatti, dopo essersi trasferito a Sidney, fu eletto in parlamento, dove restò ininterrottamente fino alla sua morte con l’unica interruzione alle votazioni del 1919, maturando un’anzianità parlamentare di oltre 30 anni, diventando un importante rappresentante del Partito laburista (ALP). Negli anni ‘40 fu ministro in diversi dicasteri (sicurezza interna, lavoro, housing). Alla sua morte dovuta a una commozione cerebrale, il suo seggio fu assegnato al laburista Gpugh Withlam, artefice negli anni ‘70 del multiculturalismo.
Bartholomew (Bob) Santamaria (1915-1998)
Questo uomo politico, nato a Melbourne da immigrati siciliani delle isole Eolie, era di umili origini: il padre era fruttivendolo. Si laureò con una tesi sulle origini del fascismo e divenne, specialmente nel dopoguerra, un eminente rappresentante a livello nazionale dei politici conservatori e dei cattolici tradizionalisti. Si propose come missione il contrasto del comunismo ed esercitò una forte influenza nel sindacato e nel partito laburista, dal quale si staccò, dando vita a un partito di impronta conservatrice. A sostegno della sua linea fondò, con l’appoggio dei vescovi, un movimento di sostenitori dell’area cattolica (qualcosa di simile ai Comitati Civici in Italia). Finì la sua carriera come scrittore e giornalista. Il suo stretto legame con la gerarchia fu attestato dall’intervento ai suoi funerali del cardinale George Pell e da alcuni suoi scritti dedicati all’arcivescovo Daniel Mannix (1884-1963). Nella sua vasta bibliografia, fatta di libri e di articoli, non si trovano riferimenti alla collettività italiana e neppure riferimenti alla politica multiculturale australiana.
Nato nell’Australia occidentale dove compì i primi studi, che poi completò in Italia a Castello dell’Acqua, in provincia di Sondrio, dove era tornato con i suoi genitori, iniziò a svolgere un lavoro d’ufficio. Dopo la morte del padre, nel 1935 ripartì con la madre per l’Australia e si iscrisse alla facoltà di ingegneria. Nel 1939, prima di conseguire la laurea, fu assunto dal governo australiano come disegnatore. Dal 1942 al 1944 fu relegato in un campo d’internamento per le sue simpatie verso il fascismo. Quindi operò come imprenditore nel settore dell’immigrazione, del commercio e poi anche in quello immobiliare dell’industria del legno. Già negli anni 40 divenne presidente del Western Australian Italian Club: mantenne la carica a lungo e riuscì a portare il numero degli iscritti da 300 a 3.000. Negli anni ‘60 fu anche presidente degli Azzurri Soccer Club nella città di Perth. In città operò per dieci anni come consigliere, due dei quali come sindaco (deputy Lord Mayor). In considerazione di quanto fatto per la collettività italiana, egli ottenne diverse onorificenze da parte italiana e altre da parte britannica.
James Gobbo (1931-2021)
Nacque in Australia nel periodo antecedente la Seconda guerra mondiale da genitori italiani, che, nell’imminenza del conflitto mondiale, rimpatriarono nel padovano con il loro figlio, per poi tornare nuovamente in Australia a guerra finita. A Melbourne il padre aprì un bar e il piccolo James, che ancora non aveva appreso l’inglese, studiò presso le scuole cattoliche, per poi laurearsi in legge e, grazie a una borsa di studio, conseguire un master a Oxford. Sposato con un’australiana, ebbe una prestigiosa carriera politica (anche uno dei suoi figli partecipò alle competizioni elettorali). Dopo una lunga pratica forense nel 1978 fu nominato giudice della Corte suprema di Victoria, incarico esercitato fino al 1994. Fu quindi luogotenente del governatore e nel 1998 fu a sua volta nominato governatore dalla regina Elisabetta II, diventando così il primo italiano a ottenere questo incarico. Nel 1988 l’università di Bologna gli assegnò una laurea honoris causa in giurisprudenza. Nel periodo 2000-2006 Gobbo ebbe l’incarico di commissario per i rapporti con l’Italia da parte del governo dello Stato di Victoria, come anche consigliere di diversi organismi. Pubblicò le sue memorie nel 2010 con il titolo Qualcosa da dichiarare [7]. Alla sua morte ha avuto l’onore dei funerali di Stato con l’intervento dell’arcivescovo.
Francesco Ernest (Frank) Sartor (1961-)
Laureatosi in ingegneria chimica, inizialmente esercitò la sua professione. Entrato nel Consiglio comunale di Sidney, ne divenne poi sindaco (Lord Mayor) per 12 anni (1984-2001), segnalandosi al secondo posto per la durata dell’incarico. Durante il suo mandato fu accusato di molestie sessuali, peraltro mai documentate e mai oggetto di una denuncia. Quindi, per conto del partito laburista, assunse diversi incarichi ministeriali presso lo Stato del Nuovo Galles, occupandosi tra l’altro delle risorse energetiche e dell’ambiente, come anche della sanità: in questo incarico si distinse nella lotta contro il cancro. Di seguito fu eletto presso l’Assemblea legislativa di quello Stato, per ritirarsi infine dalla politica.
Focus sull’emigrazione italiana in Nuova Zelanda [8]
Il caso delle migrazioni italiane nella Nuova Zelanda fu molto diverso da quello riguardante l’Australia per svariate ragioni: per la dimensione quantitativa ridotta, per i settori d’inserimento e anche per il ruolo svolto dalle catene migratorie al posto dei flussi di massa, per l’accelerato processo di assimilazione.
La prima presenza italiana in Nuova Zelanda cominciò nel corso del primo viaggio di esplorazione di quelle terre, effettuata nel 1769-1770 del Capitano James Cook: infatti, faceva parte del suo equipaggio anche Antonio Ponte, un marinaio di origine napoletana. La prima presenza per motivi di lavoro seguì solo nel 1887, quando il governo decise di incrementare lo sviluppo tramite i flussi migratori assistiti in provenienza dall’Europa, da indirizzare ai lavori riguardanti le strade, le ferrovie e la colonizzazione agricola. Fu allora che si recarono nella Nuova Zelanda 300 italiani, quasi tutti uomini, che furono sistemati nella piovosa baia di Jackson, nell’Isola del Sud. La tipologia delle coltivazioni e il grande isolamento indussero quasi tutti gli italiani a decidersi per il rimpatrio. Questo comportamento rinunciatario, peraltro insolito nella storia dell’emigrazione italiana, generò un forte disappunto delle autorità, che mossero severe critiche per la mancata perseveranza, dovuta – si disse – a una carenza fisica e morale degli italiani. Muovendosi per proprio conto, e quindi al di fuori di programmi ufficiali, altri italiani si recano nell’Isola del Sud alla ricerca dell’oro nei giacimenti che essi definirono Garibaldi diggings.
Gli italiani in Nuova Zelanda erano 583 al censimento ufficioso del 1878 e 435 al censimento ufficiale del 1901. I centri di maggiore concentrazione furono Wellington, Auckland e Dunedin. Il settore di impiego prevalente, grazie anche alla presenza di ex pescatori, fu quello della pesca che portò alla costituzione di apposite comunità nei pressi di Wellington, Eastbourne e Island Bay. Nel 1890 arrivarono dalla Valtellina anche lavoratori che si inserirono nelle piantagioni di gomma dell’isola del Nord. Quindi iniziò la cosiddetta “emigrazione a catena”, perdurata fino alla Seconda guerra mondiale. Gli italiani sul posto sollecitarono la venuta dei familiari, dei parenti e degli amici. Dall’isola di Stromboli si determinarono flussi di pescatori verso Island Bay a partire dal 1900.
Nel periodo tra le due guerre, con una maggiore intensità tra il 1929 e il 1936, vi furono gli arrivi in provenienza da Massa Lubrense e Potenza diretti a Nelson e quelli in partenza da Pistoia e Stromboli verso Wellington, mentre persistono i flussi anche da Potenza, Treviso e Belluno. Si emigrò anche da Livorno. Un’altra tipologia di flussi, rispetto a quelli indicati, fu più duratura e rimase più a lungo attiva anche nel periodo del dopoguerra. Si trattò degli agricoltori originari della provincia di Como, Vicenza e Treviso, che si recavano a Wellington e Lozer Hut per occuparsi della lavorazione dei formaggi.
Prima e durante la Seconda guerra mondiale gli italiani ebbero un atteggiamento piuttosto favorevole al regime fascista, seppure in molti per un senso di amor patrio. Il governo neozelandese adottò la misura precauzionale dell’internamento, comminata da tribunali speciali, a 30 italiani fino al 1944, nell’Isola di Somes nella baia di Wellington. Furono 38 gli italiani, accusati di fascismo, insieme ad altri stranieri di origine tedesca, giapponese e tongana. Agli internati fu comunque riservato un trattamento molto umano e privo di stenti, a differenza di quanto avvenne in altri Paesi e anche nella vicina Australia.
Nel dopoguerra continuarono i flussi da Massa Lubrense e da altri Paesi del napoletano (Sorrento, Puolo e Capri) verso Wellington e Nelson. Andò invece affievolendosi il movimento in partenza da Stromboli. Le catene migratorie, seppure già dal 1933 regolate in maniera più restrittiva, continuarono ma con minore intensità e, come accennato, a persistere più a lungo furono i flussi in partenza da Treviso verso Auckland. I protagonisti di questi espatri, avvenuti nel corso di oltre mezzo secolo, furono giovani uomini con un basso grado d’istruzione e di qualificazione: specialmente pescatori e agricoltori andati a stabilirsi a Wellington, Nelson Auckland e originari di poche regioni italiane (Campania, Sicilia, Basilicata e Veneto).
Tra il 1951 e il 1954 furono accolti come rifugiati, a Wellington e ad Auckland, gruppi di italiani in precedenza residenti a Fiume e a Pola (località cedute alla ex Iugoslavia): essi, nel 1968, incidevano per quasi un decimo delle collettività italiane del posto. Dal 1963 al 1968 piccoli gruppi di italiani specializzati si recarono in nuova Zelanda come dipendenti di ditte italiane chiamate ad effettuare dei grandi lavori infrastrutturali. Secondo fonti locali nel 1968 essi erano 120. Dalla metà degli anni ‘70 i flussi verso la Nuova Zelanda, non solo si ridussero ma ebbero un carattere meno continuativo.
Resta da osservare che dal 1986 nella Nuova Zelanda è entrato in vigore il sistema a punti, basato su un alto livello qualitativo dei candidati all’espatrio o sulla loro disponibilità a investire dei capitali. I pochi italiani che continuano a emigrare sul posto non lo fanno più per riscattarsi dal bisogno, bensì per la ricerca di una migliore qualità della vita in un Paese dalla natura incontaminata e bella. Attualmente gli italiani residenti in Nuova Zelanda sono circa duemila, di cui circa un quarto nati sul posto. A Wellington, secondo fonti locali, vive circa il 30% degli italiani e un altro 30% si trova in Auckland. Molti di essi operano come commercianti, imprenditori e tecnici. Nella regione di Wellington, la comunità ebbe inizio nel 1894 e col tempo formò una piccola flotta di pescherecci. Ora, però, gli italiani sono maggiormente dediti al commercio del pesce più che alla pesca vera e propria.
Secondo l’Ambasciata italiana le persone di origine italiana possono essere stimate pari ad almeno 15 mila. Tuttavia, nel corso delle operazioni censuarie, solo poco più di 3mila hanno dichiarato di appartenere al gruppo etnico italiano. Ciò attesta una consapevolezza decrescente delle proprie origini nelle terze e nelle quarte generazioni e il passaggio da un’integrazione compiuta a una completa assimilazione. Anche in Nuova Zelanda, come in Occidente, è diventato più complesso il rapporto con i musulmani per il verificarsi di episodi che si pongono agli antipodi di un dialogo multiculturale e multireligioso. Il 15 marzo 2019 un suprematista bianco, in due moschee di Christchurch, fu l’autore di un sanguinoso attentato che provocò cinquanta morti. La premier, per commemorare l’evento, indossò il velo in segno di solidarietà con i fedeli islamici.
Il lungo cammino fatto nel continente australiano
L’Australia, pur essendo già allora una realtà dall’economia solida e dalle rassicuranti prospettive, non attrasse i protagonisti della grande emigrazione iniziata, alla fine del secolo XIX e protrattasi fino alla Seconda guerra mondiale. Influirono al riguardo la lontananza geografica, che invece non fu di ostacolo alle mete americane. Al termine del Secondo conflitto mondiale, invece, dall’Italia ben 400 mila persone si recarono in quel Paese nel corso di due decenni. Da allora fino ad oggi le partenze sono continuate ma in tono minore.
Ci si può chiedere perché un Paese così vasto (e da ultimo così aperto agli immigrati specializzati) non abbia attirato maggiormente gli italiani. Probabilmente ciò è avvenuto perché il “vecchio continente” unisce le prospettive di un inserimento professionalmente soddisfacente grazie al suo fascino secolare, che si sostanzia di un insieme di eventi, culture, ricordi storici che, complice anche la vicinanza geografica, danno a chi si sposta l’impressione rassicurante di trovarsi in un’area comune e in un sistema di vita che, nonostante le differenze di lingua e di tradizioni, è simile a quello lasciato. La decisione di stabilirsi nel continente australe costituì a suo tempo (e tuttora) una decisione meno scontata che non tutti si sentono di prendere. Dall’Australia non si può tornare per visitare i genitori e gli amici durante il fine settimana, come invece è possibile se si risiede in qualsiasi città europea.
Gli italiani che fecero nel passato la scelta australiana, diedero inizio alla formazione della collettività italo-australiana dei nostri giorni, da considerare anche quantitativamente rilevante. Aldo Lodigiano, un emigrato rimpatriato da quel Paese, in un suo articolo del 2007 ha presentato il caso australiano, da un lato come un flusso tutt’altro che scontato e, dall’altro, come un esempio di integrazione riuscita e di reciproco e fruttuoso scambio. Queste le sue parole: «Poteva sembrare impossibile che una collettività di migranti, arrivata nella sua massima consistenza a contare 250 mila persone, riuscisse a influire sul cambiamento di un Paese dalle radici britanniche».
Conviene entrare nel merito di questo suggestivo compendio e riflettere sulla “italianità” di cui gli emigrati sono stati portatori, premettendo una puntualizzazione. In Australia erano antiche le radici culturali degli inglesi e degli irlandesi che la colonizzarono. Le loro visioni ristrette non erano inclusive e tenevano per lungo tempo ai margini anche una quota dei residenti bianchi, quelli dell’Europa meridionale.
Aldo Lodigola spiega con queste parole il processo intervenuto in Australia: «L’isola-continente non aveva alcuna visione di sé, non conosceva la sua direzione, mancava di fiducia nelle sue stesse forze, si sentiva saldamente attaccata all’ombelico di Londra, ostica ad allentare le redini del colonialismo. Ed è stata fortunata l’Australia a dare il benvenuto agli italiani, i quali hanno saputo nell’insieme mantenere un percorso di osmosi continua con tutti gli altri gruppi etnici fino a farsi considerare cittadini in piena regola. Senza quasi accorgersene, l’Australia è cambiata radicalmente».
Gli australiani hanno accolto gli stimoli di cui gli italiani sono stati portatori e, in qualche modo, si sono adattati a loro (e viceversa, naturalmente). L’Australia, tramite questo contatto, è stata indotta a superare la rigida e non inclusiva impostazione coloniale e ad aprirsi agli immigrati con le loro diversità, considerati portatori per il Paese di benefici non esclusivamente a livello economico. A loro volta gli italiani si sono adattati al Paese ospitante, alle sue leggi e a diversi aspetti del suo modo di vivere.
L’Australia può essere definito un Paese intrinsecamente multiculturale perché multietnico e multireligioso. L’accortezza politica dei governanti è consistita nel riconoscere sul piano normativo questa sua composizione: il 25% della popolazione residente è nata all’estero, e, se si prendono in considerazione anche i loro discendenti, immigrati, il 50% della popolazione australiana è di origine immigrata, diversa da quella dei colonizzatori e dei loro discendenti.
Gli italiani, che nel dopoguerra hanno avuto un’incidenza più elevata sulla popolazione straniera, hanno svolto un ruolo attivo per favorire il passaggio dalla presenza multietnica alla convivenza multiculturale e al riconoscimento degli immigrati (di origine diversa a quella dei coloni) come componente intrinseca del Paese seppure portatori di peculiarità non risolvibili nella britannicità. L’evoluzione positiva è consistita nel superamento della chiusura etnocentrica e unidimensionale dei coloni per aprirsi ai nuovi protagonisti. Di converso, negli italiani il percorso è consistito nel diventare sempre più australiani, attenuando il riferimento nostalgico all’Italia, così come è avvenuto nella Nuova Zelanda, dove peraltro la collettività italiana ha avuto sempre una consistenza molto esigua. Il riferimento ai Paesi di origine si sono attenutati e il riferimento è l’Australia con il suo multiculturalismo.
Per gli italo-australiani, come accaduto anche per i discendenti dei coloni venuti dal Regno Unito o dall’Irlanda, ormai l’Australia mostra che si è avvalsa dell’apporto di tutti, e questa base comune ha consentito la composizione delle diversità su una base di sostanziale uguaglianza: questo è in sintesi il multiculturalismo dell’Australia.
Il caso australiano, uno stimolo al ripensamento della italianità
Solo una ridotta quota del milione circa di italo-australiani è costituita da persone nate in Italia e successivamente emigrate. In altri Paesi, invece, non solo tale quota è maggiore ma, in aggiunta, gli arrivi degli italiani continuano in misura più cospicua e, per così dire, mantengono sempre vivo il cordone ombelicale con la madrepatria. In Australia, invece, la collettività australiana cresce quasi esclusivamente per l’apporto delle seconde e successive generazioni, mentre continua la diminuzione dei pionieri dell’emigrazione e il loro invecchiamento. Peraltro, il consistente arrivo di giovani per un periodo di “vacanza lavoro” è abbastanza estrinseco alla collettività stanziata sul posto, fatta eccezione per ridotto numero di chi riesce a ottenere una sponsorizzazione e a inserirsi stabilmente.
Partendo da questa considerazione è opportuno impostare una riflessione rigorosa sulla “italianità” dei membri della collettività, sia attualmente e anche in prospettiva. L’italianità non può essere più legata in prevalenza alla testimonianza di persone venute dall’Italia, ormai in continua diminuzione rispetto ai loro discendenti, il cui legame con l’Italia non è diretto, e quindi più sfumato rispetto a quello che sussiste con l’Australia, loro terra di nascita, di formazione e d’riferimento. Ciò non comporta necessariamente che negli italo-australiani debba venire meno l’attaccamento all’Italia. Operano, anzi, a favore della persistenza, diversi fattori, quali l’interesse alle proprie radici, l’ammirazione per l’impegno degli antenati, il fascino di una storia così antica come quella del “bel Paese” con i suoi tesori artistici. È spesso grande anche l’attaccamento a un mobile o a un oggetto antico per il “portato” storico che racchiudono e lo rende inusuale e prezioso; a maggior ragione influiscono le potenzialità evocative delle persone che stanno all’origine degli italo-australiani, terminali di una storia di persone per lo più non famose, ma a modo loro “grandi” per il loro coraggio nel ricominciare la vita in un Paese lontano. Sussiste, quindi, una base potenziale di collegamento tra l’Australia e l’Italia per il tramite dei discendenti degli immigrati. Se si vuole, questo è un discorso ideale, da intendere in senso positivo perché si tratta di enfatizzare valori reali con il supporto di specifiche iniziative da condurre sul piano o socio-culturale e politico.
La linea qui tracciata può apparire fumosa, perché poco ancora si fa per renderla concreta, ma è l’unica che può essere perseguita. Altre vie non sembrano realistiche perché non si può fermare il corso delle cose. Si è di fronte a una collettività australiano-italiana, piuttosto che italo-australiana, costituita sempre più da cittadini australiani che non sono emigrati dall’Italia e non ne possiedono la cittadinanza: questa non costituisce più, come una volta, la base dei rapporti con l’Italia e lo stesso va detto per quanto riguarda la conoscenza della lingua italiana.
Un flusso continuo consistente è, come ricordato, quello dei giovani italiani, che si recano temporaneamente in Australia per un periodo di “vacanze lavoro”. Senz’altro un’esperienza interessante ma non priva di problemi. Per diventare più proficui sotto l’aspetto socio-culturale, questi flussi giovanili meriterebbero di essere accompagnati da iniziative bilaterali di sostegno, coinvolgendo anche l’ambito sociale: reti parentalie amicali, Ong, fondazioni, strutture ecclesiali, oltre a università ed enti locali. In tal caso le esperienze individuali non avrebbero una valenza solo per i singoli giovani ma si configurerebbero anche come un’energia di legame tra i due Paesi.
Sarebbe opportuno percorrere nuove vie per rafforzare l’italianità nella consapevolezza della grande posta in gioco. Sarebbe anche utile inventariare le esperienze che hanno riguardato le collettività italiane all’estero e abbiano dispiegato un effetto di collante tra i due Paesi, considerandole la base per la futura programmazione. Dalla letteratura analizzata per redigere questo studio sono emerse pochissime iniziative con queste caratteristiche di avvicinamento bilaterale: qualche caso di laurea conferita honoris causa, onorificenze italiane concesse qualche volta a australiani e più spesso a italo-australiani, qualche iniziativa comune da parte di comuni gemellati e, nel recente passato, la venuta dei giovani oriundi per partecipare a campi-scuola conoscitivi organizzati dalle Regioni. Anche il mondo accademico da sempre impegnato nella convegnistica che coinvolge docenti esteri, potrebbe fare molto per rinsaldare i legami con i Paesi che ospitano le maggiori collettività all’estero e per favorire che i discendenti degli italiani possano trascorrere un periodo di studio in Italia.
Non va dimenticato che gli studi su questa e le altre collettività all’estero, pur numerosi e di grande valore, sono letti da una cerchia ristretta di persone interessate, tanto più quando in buona parte sono scritte nella lingua locale, come avviene nel caso dell’Australia, pur essendo stata l’emigrazione un fenomeno pervasivo fino a pochi decenni fa e, in forme differenti, continua ad esserlo. Gli approfondimenti non fatti propri dalla condivisione sociale perdono gran parte della loro funzione, eppure nella progettazione alla sensibilizzazione continua ad essere attribuita un’importanza secondaria.
Un’altra non trascurabile carenza consiste nelle scarse linee di progettazione sulle collettività all’estero che invece, se potenziate, potrebbero ravvivare l’attenzione all’estero tra i residenti in Italia e ciò comporterebbe apprezzabili benefici. Ad esempio, uno spunto di riflessione può essere la legislazione sugli stranieri vigente nei Paesi in cui sono andati a risiedere gli italiani. In Australia è molto interessante la possibilità di passaggio dalla presenza temporanea, anche per turismo, al soggiorno per lavoro a condizione però di trovare un’impresa disposta ad assumere l’interessato: una flessibilità, non recepita in Italia, che consente di evitare o ridimensionare l’insorgenza di sacche di irregolarità.
Invece, un aspetto problematico della normativa australiana è l’estrema severità nei confronti di chi arriva via mare come richiedente asilo: in questi casi vige la pratica del respingimento collettivo verso centri off shore. Questa soluzione, seppure talvolta auspicata in Italia, è criticata in Australia per lo spreco di soldi e la lesione dei diritti umani e il mancato rispetto di convenzioni internazionali: ciò va precisato a prescindere dal fatto che nel Mediterraneo non sussiste la disponibilità di trovare isole di altri Stati da adibire a tale scopo.
Un altro punto di confronto è quello sull’acquisizione della cittadinanza da parte degli immigrati di prima generazione, resa sempre più agevole (dopo due anni di residenza) con lo scopo di far sentire l’Australia la nuova patria degli immigrati. Accenniamo solo ai benefici in termini di ritorno economico che potrebbero essere favoriti da diaspore ben inserite sul posto e anche ben collegate con l’Italia, un aspetto assolutamente indispensabile in una fase di mutazione della geopolitica mondiale che dovrebbe portare a considerare la presenza italiana all’estero come una notevole opportunità. E così la storia dell’emigrazione, da non considerare più un mero racconto del passato, porta all’attualità e al futuro.
La testimonianza di mons. Silvano Ridolfi
Questa ampia esposizione sull’emigrazione italiana in Australia, sull’evoluzione della collettività italiana, sul faticoso avanzamento della politica culturale, sulla messa a punto della cura pastorale e sul futuro della italianità, ha offerto una serie di spunti di riflessione per il dibattito. Si è ritenuto opportuno chiudere con la testimonianza di uno degli autori, che ha seguito l’emigrazione italiana del dopoguerra, sia direttamente sul campo (in Germania con responsabilità anche per i Paesi scandinavi), che occupandosi presso l’UCEI della pastorale degli immigrati italiani in tutto il mondo e anche, fino ad oggi, continuando a seguire il settore come studioso.
«Inizio ricordando il monumento che Sydney ha dedicato ai “fondatori dell’Australia”. Si tratta di un cippo con tre figure: il “deportato.” incatenato e una palla ai piedi; il “guardiano” con un fucile; i “coloni” in un carro. Una volta feci presente ai miei interlocutori australiani la mia ammirazione per una nazione moderna e prospera come l’Australia, che ammetteva e si confrontava con le sue umili origini, riscattando un triste passato. Ma al tempo stesso osservai che nel gruppo scultoreo mancava una figura, quella del migrante, quarta componente dell’Australia moderna e meritevole di riconoscenza per l’apporto dato allo sviluppo del Paese, come attestato dall’adozione della politica multiculturale.
Un’altra nota andava fatta sugli aborigeni, troppo a lungo ignorati se non emarginati. Di essi si è interessata primariamente la Chiesa. Ma, negli anni ‘80, lo Stato australiano ha avuto un ripensamento e ha avviato un processo di revisione sulla politica verso gli aborigeni, riconoscendo che l’Australia non era terra nullius come dichiarato dai loro scopritori occidentali, fino alla piena riconciliazione del 2008, unendo, a segno e conferma, una seconda bandiera nazionale, quella degli aborigeni.
Per gli italiani non fu agevole spostarsi verso un Paese tanto lontano. Ed allora negli anni ‘50 intervenne lo Stato italiano con il provvidenziale sostegno del Comitato Interministeriale per le Migrazioni Europee (CIME), che accordava un prestito ad hoc per la preparazione alla migrazione e per le spese di viaggio con, prestito che l’emigrante avrebbe dovuto rimborsare ad inserimento nel mercato del lavoro avvenuto. Ciò che poi non sempre si è verificato. Nella sua operatività il CIME si avvalse inizialmente della collaborazione della Pontificia Opera Assistenza, alla quale subentrò l’Ufficio Centrale Emigrazione Italiana (UCEI), organismo pastorale dell’Episcopato italiano e rappresentante in Italia dell’International Catholic Migration Commission (ICMC) di Ginevra, organismo costituito dalla Santa Sede nel primo dopoguerra. I candidati all’emigrazione prima della partenza dovevano sostare presso il Campo profughi di Latina. Durante questa loro permanenza si provvedeva al disbrigo delle pratiche amministrative connesse all’espatrio, alle prime informazioni sul Paese di arrivo e anche all’insegnamento dell’inglese, adempimenti nei quali erano impegnati gli operatori dell’UCEI, che nel campo aveva aperto un apposito ufficio. In Australia il referente sia dell’ICMC sia dell’UCEI era Mons. Crennan, un ecclesiastico autorevole ed efficace che agiva a nome della Conferenza Episcopale australiana e svolgeva un’importante opera di sensibilizzazione presso la Chiesa locale e le Autorità australiane
La collettività italiana in Australia fu molto importante anche in ragione della sua consistenza numerica, seconda dopo quella di lingua inglese. Sarebbe diventata ancora più importante e numerosa se negli anni ‘70 i criteri per l’ammissione all’ingresso in Australia non avessero dato una eccessiva importanza alla previa conoscenza della lingua inglese a scapito di altri parametri, come la professionalità e il sostegno dei parenti o connazionali da tempo immigrati, che potevano facilitare il percorso di integrazione. La condizione “bianco-anglosassone-protestante” (WASP) era, insomma, troppo stringente. Se ne sono accorti più tardi anche gli asiatici e ciò, come mi disse un diplomatico, tra i responsabili dell’emigrazione era prevalsa la convinzione di un “destino asiatico dell’Australia”.
La collettività italiana, conosciuta per la sua dedizione al lavoro, non era certamente priva di aspetti problematici, non solo di natura linguistica. Ricordo una situazione particolare. All’inizio degli anni ‘80 si diffuse a Griffith una forte diffidenza nei confronti degli italiani a causa di asserite infiltrazioni mafiose nel caso di alcuni inspiegabili omicidi tra italiani i cui cadaveri – si mormorava – sarebbero stati eliminati, mischiandoli nel cemento delle colonne di un ponte in costruzione. Ma anche le perforazioni ordinate dal tribunale non diedero conferma di tale supposizione. Poi il clamore andò scemando e il fatto non fu d’intralcio al percorso d’integrazione che andava consolidandosi.
La Chiesa italiana, qui come in altri Paesi, fu molto vicina agli italiani. Un’occasione molto particolare è stata la “XIII Giornata Mondiale della Gioventù” a svoltasi a Sydney nel 2008. Quando, numerosa fu la partecipazione dall’Italia, ma si vide anche la forte partecipazione dei giovani italiani immigrati. La Fondazione Migrantes dedicò all’evento un Quaderno della rivista “Servizio Migranti” dal titolo Italia chiama Australia, facendo un po’ il sunto sull’impegno pastorale svolto dai missionari italiani in risposta alle esigenze spirituali e di promozione umana dei nostri emigrati. La linea indicata dalla Chiesa cattolica era quella della “Exsul Familia” di Pio XII (1952), aggiornata dal documento “De pastorali migratorum cura” di Paolo VI (1969), prevedevano comunque il coinvolgimento di ambo le Chiese, sia di quella di partenza, sia quella di arrivo (con prevalenza della seconda)».
Gli effetti di un’integrazione che andava realizzandosi ha portato via via con sé un indubbio apprezzamento degli italiani, del loro cibo, della ristorazione, della loro moda, delle loro capacità imprenditoriali, della loro tradizione artistica e culturale, mentre a livello commerciale i prodotti italiani, dalla bella forma piacevole, nel confronto sul mercato con quelli cinesi dal prezzo concorrenziale, hanno portato a privilegiare un’offerta più qualitativa per le fasce dei più abbienti, come tuttora continua ad avvenire.
Siamo così arrivati alla situazione attuale, presentata in questo saggio insieme agli aspetti storici e alle proiezioni nel futuro. Ricordare l’emigrazione è indispensabile, ma non basta. Bisogna farlo nella prospettiva di preparare il futuro, come qui si è cercato di fare saggio.
Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022
Note
[1] https://www.agi.it/estero/news/2022-01-16/djokovic-sentenza-australian-open-15250256/
[2] Armillei R., Mascitelli, B., 2016, From 2004 to 2016 a new Italian exodus in Australia, Melbourne, 2016.
[3] Cfr anche “Emigrare in Australia”, https://www.portaledeigiovani.it/scheda/lavorare-australia “Le condizioni dei ragazzi italiani in Australia,” https://www.senso-comune.it/rivista/oltreconfine/le-condizioni-dei-ragazzi-italiani-australia/.I
[4] Questo respingimento, denominato “Pacific Solution”, fu introdotto dal primo ministro di un governo di centro-destra John Howard: cfr. le critiche dello storico attivista per i diritti umani Ian Riontoul, raccolte da Francesca Lancini, https://www.notiziegeopolitiche.net/australia-il-criticissimo-sistema-dellaccoglienza-dei-migranti/, Cfr. anche https://www.notiziegeopolitiche.net/australia-il-criticissimo-sistema-dellaccoglienza-dei-migranti/.
[5] Le concentrazioni, oltre che in determinati quartieri della città, sono avvenute anche in determinate località come l’effetto delle catene migratorie familiari, parentali, amicali e paesane. Sono ad esempio, citati tra i siciliani, degli abitanti di Nasso a Fermemantle, degli abitanti di Vizzini a Carlton, di altri siciliani a Brunswick e degli abitanti di Casilonia e Caulonia ad Adelaide.
[6] Naturalmente queste considerazioni a carattere generale diventano più particolareggiate quando si analizzano i diversi contesti territoriali: cfr., a esempio, Baggio F., Gli italiani a Brisbane, Fatti e personaggio dal 1945 al 1990, Rintochi Brisbane, 2008: 847-8. https://www.researchgate.net/profile/Fabiobaggio/publication/260291626_
Gli_Italiani_di_Brisbane_2/links/0a85e5309c6f05e0ba000000/Gli-Italiani-di-Brisbane-2.pdf
[7] Something to declare: a memoir by Sir Jmes Gobbo, Carlton, Melbourne University Pub., 2011.
[8] Cfr. Ballara,B., Presenza italiana in Nuova Zelanda, Auckland, 1975; Coccaro M., Alla fine del mondo…la presenza italiana in Nuova Zelanda, https://www.itals.it/alla-fine-del-mondo%E2%80%A6-la-presenza-italiana-nuova-zelanda. Cfr. inoltre il sito governativo People Born Overseas.
Riferimenti bibliografici
Baggio F., Sanfilippo M., “L’emigrazione italiana in Australia”, in Studi Emigrazione, n. 183, 2011:477-499, ttps://dspace.unitus.it/bitstream/2067/2227/1/Se-183%20Baggio_Sanfilippo.pdf
Bertelli L., “Il profilo socio-culturale della collettività italiana in Australia”, in Il Veltro, XXXI (1987): 49 ss.
Bosi P., On God’s Command / Mandati da Dio. Italian Missionaries in Australia / Missionari Italiani in Australia, CIRC, Melbourne, 1989, in italiano e in inglese.
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Franco Pittau, dottore in filosofia, è studioso del fenomeno migratorio fin dagli anni ’70, quando ha condotto un’esperienza sul campo, in Belgio e in Germania. È stato ideatore del Dossier Statistico Immigrazione (il primo annuario del genere realizzato in Italia). Già responsabile del Centro studi e ricerche IDOS (Immigrazione Dossier Statistico), continua la sua collaborazione come Presidente onorario. È membro del Comitato organizzatore del Master in Economia Diritto Intercultura presso l’università di Roma Tor Vergata e scrive su riviste specialistiche sui temi dell’emigrazione e dell’immigrazione.
Silvano Ridolfi, recatosi nel 1955 a Francoforte come missionario per gli emigrati italiani, qui divenne nel 1960 direttore del “Corriere d’Italia” e nel 1966 direttore prima e poi delegato dei missionari italiani in Germania e Scandinavia fino al 1971. Rimpatriato nel 1973 dopo un biennio di studi a Lovanio, fu prima vice direttore e poi direttore (1979-1988) dell’UCEI, ufficio CEI, diventato poi Fondazione Migrantes, di cui fu inizialmente direttore della pastorale per gli emigrati. Sempre molto attento alla stampa pastorale, nel 1979 fondò l’agenzia “Migranti-press”. Ritornato nella sua diocesi di Cesena e nominato parroco-arciprete di Cesenatico, ha continuato a seguire i fenomeni migratori dedicandosi a diverse pubblicazioni e mettendo a disposizione la sua memoria storica per ricostruire l’evoluzione delle Missioni Cattoliche Italiane.
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