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Nc’era na fiata u Mesciu… Nc’era na fiata a Puteca… Storie di vita, arte e fatica nelle puteche del sud Salento

Bottega di Mesciu Peppino Ventura, ferracavaddi (maniscalco). Via Roberto Caputo, Tricase. 29 aprile 2011 (ph.Ornella Ricchiuto, Archivio LiquiMag).

Bottega di Mesciu Peppino Ventura, ferracavaddi (maniscalco), Via Roberto Caputo, Tricase, 29 aprile 2011 (ph.Ornella Ricchiuto, Archivio LiquiMag).

il centro in periferia

di Ornella Ricchiuto

Il presente lavoro, frutto di una mia ricerca minuziosa quanto appassionata – rientra nel progetto “Nc’era na fiata u Mesciu… Nc’era na fiata a Puteca… Storie di vita, arte e fatica nelle puteche del sud Salento” di Liquilab – Istituto di cultura di interesse storico-antropologico, di ricerca socio-artistica e di cinematografia etnografica per la ricerca, salvaguardia, valorizzazione e diffusione del patrimonio culturale immateriale e materiale – si snoda tra il centro storico e le strade periferiche del paese, entra nelle antiche botteghe artigiane per destare sapori, odori, colori, suoni, sensazioni, attività, fatiche, nascosti nel cassetto della memoria.

Botteghe come microcosmi in cui le storie personali si intrecciano con la storia del paese e la storia del costume collocandosi in uno spazio e in un tempo ben definiti. Botteghe in cui persino le pareti “parlano” di presenze operose, esperienze, preoccupazioni, soddisfazioni, storie ricostruite nella mente di chi quella vita l’ha intensamente e duramente vissuta. Salvate dall’oblìo, le botteghe rompono il silenzio e diventano espressioni di una subcultura che si va dissolvendo nella società contemporanea; un forte senso di rispetto nei confronti della “cultura della miseria”, di elementi arcaici in via d’estinzione, mi spinge a trasformare il lavoro di ricerca sul campo in una sorta di missione, salvaguardando ostinatamente ogni dettaglio osservato… toccato… ascoltato… percepito…

Volendo dettagliare la metodologia di lavoro sul campo, ho cercato di implementare una combinazione multidisciplinare che unisce la ricerca antropologica all’arte (narrazione, musica, teatro). Qui mi soffermerò sulla prima precisando che la ricerca ha permesso di registrare le storie di vita degli artigiani alla moviola utilizzando una videocamera; attraverso lo studio della lingua, dei costumi, dei comportamenti e più in generale delle storie di vita, ho ricostruito l’evoluzione della cultura di alcuni artigiani dal secondo dopoguerra fino al 2011 a Tricase, una cittadina del sud Salento in provincia di Lecce.

La dimensione locale è servita per leggere i legami e i rapporti tra luoghi e persone, tra cultura dominante e subcultura, una dinamica processuale che vede la microscopica presenza di antichi mestieri come mosche bianche intrappolate in una rete di alveari commerciali e industriali. In un primo momento ho avviato un’analisi contestuale della comunità di Tricase, individuando i luoghi della memoria e le attività che hanno storicamente caratterizzato il territorio, ma ben presto mi sono resa conto che la bibliografia era già ben ricca in questo settore con numerose ricerche su piazze, chiese, monumenti, sulla lavorazione del tabacco e altre attività locali, perciò ho deciso di intraprendere un nuovo sentiero di ricerca procedendo all’osservazione di case-story. A tal proposito occorre precisare che il risultato dell’osservazione partecipante è il frutto dell’incontro tra le mie influenze culturali, quelle del testimone privilegiato e del contesto contemporaneo.

Una sistematica osservazione della realtà nativa (in tal senso faccio riferimento alle puteche, le botteghe, che rappresentano un luogo non solo lavorativo ma di crescita sociale socio-educativa legata anche all’infanzia e all’adolescenza dei testimoni) è stata intrecciata a un ascolto scrupoloso e attivo dei ronzii di quelle poche mosche bianche rimaste sul territorio. Del resto, Tricase nel 2011 ma anche nel 2022 si presenta come una cittadina vivace dal punto di vista economico-commerciale: negozi, bar, supermercati, pub, ristoranti hanno preso il sopravvento sulle botteghe artigianali, all’interno delle quali il lavoro si mescola con l’arte e la passione rifiutando la produzione in serie della società moderna.

Il problema di ricerca che mi sono posta non ha riguardato l’individuazione di teorie scientifiche sull’evoluzione del lavoro che supportasse la ricerca sul campo di antichi mestieri nella comunità locale, ma in primo luogo mi sono chiesta se esistessero ancora a Tricase artigiani che svolgessero il proprio lavoro in antiche botteghe e lo step successivo è stato quello di recuperare, salvaguardare e valorizzare la storia degli ultimi “superstiti”.

All’interno del microcosmo delle botteghe e degli artigiani, ho recuperato mediante strumenti audio-visuali (fotografia etnografica, documenti audio e video) i segni visivi dei luoghi, le voci dei testimoni e i loro peculiari gesti. Siccome l’intervista si è sviluppata all’interno delle botteghe, i testimoni privilegiati hanno narrato la loro storia a partire dal proprio lavoro che essi svolgevano; pertanto il contesto di ricerca ha fortemente influenzato ogni artigiano a immergersi nel ruolo professionale, mettendo in secondo piano quello di marito, genitore, ecc.

Al termine della ricerca sono emersi due interrogativi fondamentali:

- le antiche botteghe si contano sulla punta delle dita nonostante si esercitino lavori di primaria importanza come calzolaio, barbiere, fornaio, sarto, fabbro, falegname… Che cosa succederebbe se le ultime botteghe rimaste chiudessero i battenti?

- quale mondo della vita si nasconde dentro le botteghe che quotidianamente siamo abituati a frequentare?

Per rispondere a questi interrogativi è stato necessario osservare non solo i luoghi, bensì effettuare un viaggio esplorativo nell’immaginario di chi ha vissuto o vive tuttora nelle botteghe, cercando di cogliere le loro storie di vita e di lavoro, il loro approccio con gli arnesi di lavoro che diventano dei veri e propri oggetti rituali, il loro rapporto con i clienti nel corso del tempo e ancora i sogni, le difficoltà, i desideri e le colonne sonore che hanno accompagnato il lavoro o i momenti particolari della vita.

Per entrare nei vari piccoli mondi, in due occasioni sono ricorsa a un mediatore nativo di Tricase che condivideva lo stesso dialetto locale impiegato dagli intervistati. Gli appuntamenti con i vari artigiani sono stati presi direttamente da me e, in due casi, attraverso l’intermediario; prima di raccogliere “ufficialmente” le storie di vita, sono stati necessari più incontri per instaurare un rapporto empatico. Le loro “confessioni” sono uscite dalla sfera privata divenendo dunque fonte pubblica, umane ricordate istorie. I protagonisti sono: 

- Mesciu Ginu piazzaiulu - Gino Bardoscia, pizzaiolo;

- Mesciu Riccardu barbieri - Riccardo Marra, barbiere;

- Mesciu Francesco sartu - Francesco Sabato, sarto;

- Mesciu Luciano cojifierri, Luciano Grimaldi, raccoglitore di ferro;

- Mesciu Luigi scarparu - Luigi Minerva, calzolaio (deceduto);

- Mesciu Peppino ferracavaddi - Giuseppe Ventura, maniscalco (deceduto).

La registrazione, tranne qualche eccezione, ha suscitato timori, esitazioni, perplessità, paure, ritrosie visibili dagli sguardi degli artigiani non essendo abituati a corpi tecnologici. Dopo la registrazione delle storie di vita ho realizzato un lavoro di sbobinatura trasformato poi in copioni teatrali per la realizzazione di più restituzioni alla comunità organizzate da Liquilab:

 pettacolo dell’8 luglio 2011. Sala del Trono di Palazzo dei Principi Gallone, Tricase. (ph. Michele Turco, Archivio LiquiMag)

Spettacolo dell’8 luglio 2011, Sala del Trono di Palazzo dei Principi Gallone, Tricase (ph. Michele Turco, Archivio LiquiMag)

- “Nc’era ‘na fiata u Mesciu… Nc’era ‘na fiata a Puteca… mesci de vita, arte e fatica nelle puteche del basso Salento” è una manifestazione che si è tenuta l’8 e il 16 luglio 2011 a Tricase. L’8 luglio nella Sala del Trono di Palazzo dei Principi Gallone un gruppo misto di giovani e adulti, professionisti e amatori, ha ricreato uno spaccato di vita, arte e fatica e, al tempo stesso, un’atmosfera di rumori, colori, sogni, desideri e musiche degli artigiani. Lo staff era composto da Franco Coppola, cantante; Vincenzo De Carlo, musicista; Roberto Esposito, musicista; Angelo Litti, artista e direttore artistico dell’evento; Michel, musicista; Arianna Montinaro, narratrice; Oreste Montinaro, custode del Museo; Lorenzo Nescis, narratore; Alessandro Ricchiuto, lettore; Ornella Ricchiuto, sociologa, ricercatrice in Antropologia Culturale e direttrice della ricerca; Luca Valiani, custode del Museo; Luigi Za, docente di Ricerca Sociale e Territorio; Zio Mimmo, cantante.

Il 16 luglio è stato proiettato in Piazza Antonio Dell’Abate il video-documento “Interno. Giorno. Puteca” – regia di Gianni De Blasi e Ornella Ricchiuto – che prende origine dalla ricerca antropologica e in particolare da alcuni interrogativi: nella società contemporanea esistono ancora artigiani che svolgono il proprio lavoro nelle puteche? Come si è evoluta a fatica nelle puteche del sud Salento dal secondo dopoguerra ad oggi? Com’è avvenuta l’integrazione di vita e di lavoro degli emigrati salentini degli anni ‘60’-’70, soprattutto verso il Nord Italia, la Svizzera e la Germania? Le rimesse e i ritorni degli emigrati hanno veicolato o meno delle trasformazioni nel processo lavorativo meridionale? Il video-documento presenta l’intreccio di quattro storie di vita: Mesciu Luigi Minerva, Mesciu Riccardo Marra, Mesciu Francesco Sabato, Mesciu Luciano Grimaldi. I quattro testimoni privilegiati allora erano operanti all’interno delle rispettive puteche, dove regnano i tipici rumori, suoni, odori che contraddistinguono un determinato lavoro dall’altro. Il video-documento è stato presentato in altre iniziative nel corso degli anni. 

Serena Rizzelli interpreta Mesciu Ginu pizzaiulu. Via Santo Spirito, Tricase. 25 giugno 2019 (ph. Giuseppe Ricchiuto, Archivio LiquiMag)

Serena Rizzelli interpreta Mesciu Ginu pizzaiulu, via Santo Spirito, Tricase. 25 giugno 2019 (ph. Giuseppe Ricchiuto, Archivio LiquiMag)

- “Mescia & Mesciu” è un mosaico di cinque rappresentazioni territoriali per raccontarsi e raccontare le storie di vita di cinque Maestri di Tricase (mesciu Ginu piazzaiulu, mesciu Riccardu barbieri, mesciu Francesco sartu, mesciu Luciano cojifierri e mesciu Luigi scarparu). Un teatro di strada itinerante tra le vie del centro storico tricasino messo in scena il 25 giugno 2019 che è stato diretto dal regista Ippolito Chiarello e interpretato dai partecipanti della Scuola di Teatro Liquilab “Dal racconto la bellezza”. Interpreti della serata sono stati: Rosanna Coletta, Anna Maria Marra, Serena Rizzelli, Lucia Sanfrancesco, Joselita Sanfrancesco.

Anna Maria Marra interpreta mesciu Luciano Cojifierri. Piazza Antonio Dell’Abate, Tricase.

Anna Maria Marra interpreta mesciu Luciano Cojifierri, Piazza Antonio Dell’Abate, Tricase, 15 luglio 2021 (ph. Giuseppe Ricchiuto, Archivio LiquiMag)

- il 15 luglio 2021 durante l’inaugurazione di “LiquiMag – Magazzino delle memorie” sono state interpretate da Anna Maria Marra e Katia Rizzo rispettivamente la storia di vita di mesciu Luciano cojifierri e mesciu Luigi scarparu.

Le storie dei maestri continueranno a viaggiare nel futuro grazie alla opportunità di consultarle nell’archivio “LiquiMag – Magazzino delle memorie”, un archivio digitale narrativo creato da Liquilab che raccoglie la cultura popolare del sud Salento. La storia di vita che qui si riporta è di Gino Bardoscia, popolarmente conosciuto come Mesciu Ginu, intervistato il 30 maggio 2011 a Tricase nell’abitazione del figlio all’età di 83 anni. Oltre al figlio, erano presenti un’altra figlia del testimone privilegiato, Ornella Ricchiuto in qualità di ricercatrice e direttrice della ricerca e Angelo Litti in qualità di mediatore e direttore artistico dello spettacolo dell’8 luglio 2011.

La raccolta dell’intervista (durata di 01:25:07) è avvenuta mediante un registratore vocale. Ancora oggi la sua figura di maestro pizzaiolo è molto sentita nell’immaginario collettivo dei cittadini di Tricase ed è legata alla sua ultima pizzeria un tempo situata presso Largo Santa Lucia. La storia di vita è il frutto di un montaggio e rispecchia solo in alcuni tratti il parlato dialettale del testimone in prima persona singolare; la maggior parte del racconto è stata trasformata in terza persona singolare per la drammatizzazione artistica avvenuta nella Sala del Trono di Palazzo dei Principi Gallone. 

Ginu da pizzeria

«“… jeu stia a mare, jeu… parlu de sessant’anni rretu… tannu cuminciavuu cinquantunu…” ricorda Gino… stava giù al mare a Marina Serra lui.

Invece a Ruffano avevano due trattorie: una suo fratello e una sua madre e suo padre… e lui lì andò. A sette, otto, dieci anni lavorava già in cucina, aiutava a casa…

Aveva il bar di sotto alla Serra…..poi sotto al porto vicino alla rena… Poi venne la mareggiata di Santa Lucia… e si portò tutto… tutto in mezzo a mare… tutto completamente… i quattro muri c’erano… Venne sta mareggiata e lo lasciò in mezzo alla strada proprio…

C’era una sorella a Supersano… č aveva un cugino suo che stava a Modena, a Rimini, Riccione… aveva una catena di ristoranti, pizzerie, no?

Gino…” disse sua sorella “vo te ne vai”?

A mie… a cquai jeu nu pozzu stare chiù… comu aggiu ffare”…

La sorella scrisse una cartolina al cugino di Modena, spiegò la situazione del fratello:

Guarda… fratama così, così…” e il cugino rispose:

E ci spetta? Se vole vene cu mie, cu parte”.

Partì. Fece la valigia, “senza rote e valigie pe lla cronaca” e se ne andò con lui a Riccione, Rimini e Milano Marittima.

Eeeeh… e rote… ancora era de cartune e… lu spagu ttaccatu puru… e cu lu spagu ttaccatu… prima e seconda”… Le ruote sotto le valigie non esistevano, erano ancora di cartone con lo spago attaccato intorno per motivi di sicurezza.

Andò là e fece i primi tre mesi a Milano Marittima… Trentacinque, trentasei anni aveva… Nel ’62, ’63…

Cominciava alle tre e finiva alle dieci. Le nove, nove e mezzo massimo finiva di lavorare.

Il padrone non lo pagava. Gino avanzava novanta giornate… novanta giornate! Mille lire al giorno era. Mille lire, ventiquattro ore su ventiquattro, faceva apertura e chiusura. Insomma si fidavano solo di lui!

A Riccione, là, la pizzeria… era abbinata al locale giù in cantina… e quando il pizzaiolo faceva l’impasto, Gino andava giù e guardava, rubava con l’occhio solamente… solo con l’occhio rubava e basta…

Dopo sti tre mesi, ritornò a casa. Chiese a suo fratello se gli poteva trovare nu localettu… Voleva mettere una pizzeria a Tricase.

Trovò il locale… i tavoli… tutto a posto… tredici anni là, sedici anni fece lì sotto… Cominciò a lavorare là sotto. Si chiuse una settimana nella pizzeria… non aveva mai fatto le pizze, mai viste fare, mai… insomma gli venne così… voleva mettere una pizzeria…

   Gino Bardoscia. Primi anni ’50 (Archivio LiquiMag)


Gino Bardoscia, primi anni ’50 (Archivio LiquiMag)

Davvero, si chiuse una settimana dentro al locale. Dopo una settimana, il sabato, disse:

Bah, devo aprire… facciamo sabato gratis e domenica si lavora…”.

Il primo della provincia di Lecce fu… il primo…

Quaranta lire costava la prima pizza a Tricase. Ottanta costava a Modena. 

A Tricase cominciò con quaranta lire, poi cinquanta… a dieci lire, a dieci lire…

Pizza e birra! Raffo, Dreher, la speciale… come si chiama… c’era pure qualche birra speciale pure che teneva.

E la miseria! E ci! U macello nc’era da mmane alla sira! e ci era! focu meu!” – aggiu dittu -a cquai me manciene…” insomma tutti a pizza vulivene… dal primo giorno era speciale grazie a Dio… insomma sfondò dal primo giorno.

Teneva una clientela, cari miei, che… tutte le sere venivano, eh! E c’erano clienti fissi, fissi…

Eeeeh… a Leuca… L’Approdo… i padroni di là, madre e due figli andavano tutte le sere da lui a mangiare la pizza e si portavano la domenica, ogni domenica dieci, quindici, venti persone (quelli che mangiavano e dormivano là), li portavano e addio! Aveva i tavoli … là mangiavano! Alla fine li levò che non ce la faceva.

C’era il sindaco di Tiggiano che era geometra… veniva ogni sera col figlio piccolo, che si metteva sullo sgabello.

L’Antonio, il figlio di Gino, li conosceva tutti.

Ogni sera andavano i Martinucci… tutti quindici, venti, ogni sera. Rocco Martinucci… i figli…

Ogni sera tutti i dottori dell’ospedale, tutti da lui andavano…

Oggi tra clienti fissi e gente comune, la frase che Gino si sente ripetere è sempre la medesima: “Ginu mannaggia ci hai fattu cu chiudi!”. Tutti i giorni!

Tra i clienti difficili c’era il marito della Giovanna: u Zì Ucciu. Infatti, era di domenica, e c’era un macello de gente, arrivò e disse:

Fuscennu, fuscennu do pizze m’ha ffare! Mo, me l’ha fare”, lo Zio Uccio, in maniera prepotente, voleva immediatamente due pizze.

“E’ inutile” gli rispose Gino mintiti in coda, quannu arria u turnu tou, eh! ”.

C’era gente che aspettava da due ore per le pizze! Per la miseria! Non poteva favorire lo Zio Uccio che era arrivato all’ultimo momento!

Sì… non voleva aspettare… incominciò a parlare a casaccio. Se ne andò bestemmiando! Gino lo mandò via e non gli diede le pizze…

Da Lecce, da Maglie, da Scorrano, da tutte le parti andavano nella sua pizzeria. Da tutti i paesi perché era solo. Un’altra pizzeria a Lecce stava! Guido… in via Maglie… in via Maglie ristorante, pizzeria…

Gino fu il primo nella provincia di Lecce. Non c’era nessuno insomma…

Tra i clienti particolarmente affezionati c’era Don Tonino. Lui veniva con la cinquecento senza porte. Veniva e ordinava quindici, venti pizze. Don Tonino le ordinava e le dava ai poveri… ai bambini… ai ragazzi disagiati.

E c’era anche don Eugenio… “Ahi mamma!” sospira Gino, lui era talmente di famiglia che se ne andava in cucina e mangiava… e poi…. E poi c’erano le infermiere dell’ospedale… trenta quaranta… cinquanta… Portava Gino stesso le pizze. Con la macchina… una bianchina azzurra.

E c’erano pure i monaci di Gagliano! Quanto mangiavano! I monaci tutti andavano nella sua pizzeria, tutti belli vestiti in bianco con le mani così… se lo ricorda benissimo la figlia di Gino…

Mangiavano e poi portavano… Ottanta, novanta, cento le portavano poi, eh!

Padre Biagio… un tipo curioso era … u capu

“Gino mio!” faceva sempre… “Eh, amore mio! Dai… Eh, amore mio!” eh… e Gino correva per accontentarlo …

Codacci Pisanelli andava nella sua pizzeria… e la principessa pure!

Codacci Pisanelli alto, molto magro, alto… una figura imponente sembrava alla figlia grande di Gino… Questa figura con gli occhiali che andava con la signora… si mettevano in un angolo in una stanza…

Ogni tanto andava Donna Bianca Principessa Gallone… Andava al bar suo che aveva sotto a mare… e Gino cucinava per lei tutti i giorni a mezzogiorno… il brodino… lo spaghettino… Alla principessa, eh… poi pure a Santa Lucia andava… qualche volta… e… altro cliente, Vito Raeli…

Entrò nella sua pizzeria Franco Simone. Alt! Fece la pizza. Se la mangiò di corsa.

“Buona, buona, bravo!” disse Franco Simone…

Statte bonu!” rispose Gino che intendeva offrirgli la pizza.

“Quanto è?” [domandò Franco Simone].

Va bbanne in grazie de Diu!”, lo mandò via Gino in grazia di Dio.

Altri clienti chiamavano spesso… Dall’ospedale, dall’ospedale solamente… Ma non c’era telefono in pizzeria! Mai sia! Stava a casa.

Alle suore portava le pizze… E c’era un tipo golosissimo, ne voleva tre pagnottine in modo che la pizza fosse molto grande. Erano grandissime… E una volta fece… fece una scommessa con altri… che si sarebbe mangiato cinque o sei… quattro… quattro pizze doppie. Più il coniglio… gli involtini d’agnello… gnummareddi che quando li prendeva, ne prendeva venti, trenta alla volta.

Ma che mangione quello là! Aaah!!! E vinceva sempre! Veniva con il motorino.

La sua pizza era conosciuta anche in Svizzera e in Germania poichè Ginu faceva pizze anche per persone che puntualmente arrivavano a Tricase e ripartivano per la Svizzera o la Germania.

Le faceva e le metteva dentro la carta, dentro la carta dove si mettevano le pittule… La carta oleata… carta oleata. Le metteva dentro a quattro a quattro e le mandava. Poi quando i clienti tornavano l’estate venivano e si ricordavano della pizza di Gino… Sì, andavano e venivano insomma… i suoi clienti affezionati.

Due tipi faceva: margherita (mozzarella e pomodoro) e completa. Basta!

Margherita e basta! E la Completa! Quelle erano le pizze per Gino. Le metteva nella carta oleata… scolava l’olio dentro… se liccavane l’oiu li ristiani sulla carta… Daveru nu profumu! Le persone leccavano l’olio sulla carta oleata!

“Mamma: che odore di pissa!” esclamavano i bambini passando dalla sua pizzeria.

Quel mix di mozzarella, pomodoro, acciughe, capperi, pepe… Mozzarella, pomodoro divella e la foglia di alloro sopra e basilico, basta… era un mix da leccarsi i baffi!

Le pizze le lasciava in forno non più di un minuto e mezzo…. massimo, massimo… Perché la pizza in forno deve lievitare subito… fare “ffff”, diceva e basta.

Se le olive vulìvane… Li mintìa cusì, nu sai? Se qualcuno voleva delle olive sopra la pizza, le metteva.

 Gino Bardoscia. Anni ‘70. Pizzeria presso Largo Santa Lucia, Tricase (Archivio LiquiMag)


Gino Bardoscia, anni ‘70, Pizzeria presso Largo Santa Lucia, Tricase (Archivio LiquiMag)

Macinava il pomodoro, metteva il sale, na goccina d’olio sopra e basta… il pepe non dentro la salsa.

Era caratteristica la bottiglia d’olio cu lu tappu, cu lu sugheru… Una bottiglia di birra, la riempiva di olio, metteva il tappo col buco e poi faceva… Così faceva. 

Tutti i bambini erano affascinati dal rituale dell’olio, soprattutto per l’enfasi con cui Gino shakerava l’olio e suo figlio tutt’ora se lo ricorda, “Mi ricordo così… mi ricordo tanto ero più o meno, arrivavo allu bancune e me mpizzava comu tutti i vagnoni”… Ogni volta che i bambini entravano nella pizzeria era sempre un’arrampicata per affacciarsi al bancone, incuriositi dalla magica preparazione della pizza. Ah! E quando faceva la mozzarella era uno spettacolo… ballava… Gino era sempre in movimento. Teneva i calli alle mani. Un dito spaccato perché un coltellaccio così… insomma non era capace a fare piano piano… Aaah cos’era! Una macchinetta fotografica! Ti ti ti ti ti.

Per acquistare le mozzarelle doveva andare a Lecce. A Lecce tre volte alla settimana doveva andare a Lecce da De Bellis per prendere le mozzarelle cu lu Bardoscia, u Toto Bardoscia… u Toto e lu Toniu… cu na millequattro nera… Mentre per recuperare un altro ingrediente magico, Gino si recava a Otranto; qui si trovava l’origano che lui stesso raccoglieva! Andava lui a Otranto, andava… e ricorda l’ultima volta che ci andò perché per guadagnarsi l’ingrediente magico dovette combattere contro una gigantesca sacara, il cervone, un serpente comune nel territorio salentino. Profumato… era profumato quell’origano…

Con l’ape andava solo… Era n’ape normale, che poi aprivi il cassonetto con la tela sopra. Dello Zio Uccio forse era…  du Zì Ucciu. Era blu. Fra il blu e il celeste. Nu grigiu.

 Gino Bardoscia. Primi anni ‘80. Pizzeria presso Largo Santa Lucia, Tricase( Archivio LiquiMag)


Gino Bardoscia, primi anni ‘80, Pizzeria presso Largo Santa Lucia, Tricase (Archivio LiquiMag)

Il papà di Gino lo aiutava a raccogliere l’origano a fasci… Col pullman veniva da Ruffano fino a Tricase. 

Per quanto riguarda gli attrezzi da lavoro, c’erano due pale. Erano una di ferro e una di legno. Quella di legno per far andare dentro il forno le pizze, se no si attaccavano. Una se la portò da Modena e anche un forno… il primo forno… L.e.i.r.a.

Insomma ordinò una pala al falegname Luca che gli fece una sorta di bestione… Andavano giuste, giuste due pizze come le pizze che faceva lui. Le faceva quanto un piatto insomma.

Comunque lavorò con quella pala e con quella poi finì. Ne fece fare un’altra rotonda per quanto va la pizza sopra. Con quella le cacciava.

Non si consumava perché era di ferro mentre quella di legno metti, caccia, inforna, sforna, si consumava.

Gino Bardoscia. Primi anni ‘70. Pizzeria presso Largo Santa Lucia, Tricase (Archivio LiquiMag)

Gino Bardoscia, primi anni ‘70,  Pizzeria presso Largo Santa Lucia, Tricase (Archivio LiquiMag)

Lui faceva tutto. Preparava i cassetti. Per ogni cassetto andavano ventiquattro pagnottine…

Sì, sempre, tutti giorni se ne andava la mattina alle sette, faceva l’impasto, puliva tutto, prendeva i polli. 

Andava a Botrugno per prendere i polli… Polli, conigli.

C’era il papà di Vitu Calogiuri che girava, casa casa e vendeva ulìe, olive. La moglie era la Cesira. La Cesira che faceva le punture. In mezzo alla strada gridava: “Ci tene ulìeee?!”.

Gino Bardoscia. Ottobre 1981. Pizzeria presso Largo Santa Lucia, Tricase (Archivio LiquiMag)

Gino Bardoscia, ottobre 1981, Pizzeria presso Largo Santa Lucia, Tricase (Archivio LiquiMag)

Quello teneva conigli… dieci, quindici, venti, trenta chili di coniglio al giorno… Con le patate al forno lo faceva… il coniglio. Sempre tutto nello stesso forno faceva… Arrostiva polli. Tutto là dentro faceva… gnumareddi… tuttu… tuttu faceva dentro al forno…

Il primo forno se lo portò da Modena e gli diedero anche un banco. 

L’ultimo forno fu il Morbidelli. Quello a due bocche, lo prese alla Fiera del Levante. Erano due forni, tutto in uno, eh! Erano due bocche… meno di un milione… ottocento, novecento mila lire…

Generalmente faceva due, tre pizze alla volta. Non come adesso che ne fanno sette, otto, dieci… lui sempre due, tre, due, tre. Eh, sì… un minuto e mezzo, due minuti scarsi erano… mentre faceva… le altre le doveva cacciare, metteva l’altre dentro…

Gino Bardoscia. Primi anni ‘50. Rimini (Archivio LiquiMag)

Gino Bardoscia, primi anni ‘50, Rimini (Archivio LiquiMag)

La faceva rotonda, perché poi la doveva mettere a posto… sistemarla… faceva le ricchie, ovvero le orecchie ai lati.

Il figlio Antonio era sempre di fianco a lui che impacchettava, stava alla cassa e incartava le pizze.

Inoltre, ad Antonio era riservato un compito speciale: la preparazione delle focaccine. Sì, sì, le focaccine le faceva proprio lui. Le focaccine arrivarono verso gli anni ottanta.

Quando c’era la festa di San Rocco e la festa di Santa Lucia con la fiera, le focaccine si dovevano preparare prima… C’era lo scaldavivande, le mettevi dentro e restavano belle calde…

Tannu nc’era la vulìa, a quel tempo c’era l’oliva sulla focaccina! Sì, sì… una… una, però! Eeeeh!!! Ma le focaccine erano speciali. Eeeeh!!! a tipo pizza proprio sì ca manciavi na pittula, sembrava come se mangiassi una pittula…

Di Santa Lucia… Se ne andavano… duecento, trecento, settecento… Sì, sette, ottocento ne facevano… Ottocento focaccine!!! Ma pure di più! Tutta la notte! Sììììììì!!! Pure mille certe volte! La notte… del 12 si lavorava… perché il 13 poi era la fiera di Santa Lucia…

Gino Bardoscia. Aprile 1976. Pizzeria presso Largo Santa Lucia, Tricase (Archivio LiquiMag)

Gino Bardoscia, aprile 1976, Pizzeria presso Largo Santa Lucia, Tricase (Archivio LiquiMag)

La figlia Giuseppina eeeh!!!… quante ne fece anche lei di focaccine!!! Madonna! Per la miseria! Sì, di Santa Lucia era… la notte…

E allora già quando cominciava la prima messa verso le sei… le cinque e mezza, le sei, che era buio e già cominciavano… e allora bisognava farle prima… la notte. Sempre a lavorare e basta!

 

Nu nc’era né Natale, né Capudannu, né Pasca… nenti! Sempre… i meiu giurni tuccava fatichi!!! Una vita all’insegna del sudore, della fatica, dove il Natale, il Capodanno, la Pasqua erano i giorni in cui si raddoppiava il lavoro! In quei giorni i profumi inondavano i passanti che non riuscivano a resistere alle fragranze che uscivano dalla bottega di Gino.  

Non c’era… non c’era mai festa. Loro stavano chiusi solo il mercoledì… Il mercoledì erano felici perchè andavano a trovare i nonni a Ruffano.

Gino Bardoscia. Pasquetta 1983. Pizzeria presso Largo Santa Lucia, Tricase (Archivio LiquiMag)

Gino Bardoscia, Pasquetta 1983, Pizzeria presso Largo Santa Lucia, Tricase (Archivio LiquiMag)

Gino ricorda con minuziosità l’ultima pizzeria che ebbe vicino a piazza Santa Lucia; in particolare la sua memoria si sofferma sui quei fatidici quattro tavoli che si trovavano in una minuscola mansardina… Chissà se Gino aveva fatto i conti con il significato del numero “quattro”! Infatti, quei quattro tavoli scatenavano una bufera di fuoco, acqua, terra, aria… proprio come i quattro elementi della materia. Tutti volevano salire là sopra perché era un cantuccio riservato dove le coppie avevano la possibilità di rimanere più nascoste. E tutti là a cianciare… così… levò tutti i tavoli… eh! ulìane cu se ne vannu tutti… poi aggiu vistu chiù de na fiata… volevano andare tutti i clienti sopra la mansardina per rimanere più appartati… eh, eh, eh, eh.

Alcuni clienti avevano preso il vizio che volevano andare tutti là sopra!!!… E non sapete quanti matrimoni s’hannu scunzati?! Sfasciati, no? Qualche moglie rimproverava il proprio marito dicendogli:

Comu, vai ddhai e sai jeu… stamu cquai e manci a pizza allu Ginu! Percé addai sì?! Percè non me ne nuci una a mie?! Perché nu faci cusì?!

La pizzeria e soprattutto quei fatidici quattro tavoli erano considerati luogo del peccato di gola perché qualche marito preferiva cenare lontano dalla propria moglie, ma era anche luogo del peccato di infedeltà dove qualche coppia extra-coniugale si rifugiava.

Insomma tre, quattro sposalizi si sono rotti, persi insomma… s’hanno scucchiati! si sono divisi!

Diciamo che andare in pizzeria era una trasgressione…

Eh, sì! Una cosa nuova insomma: “Uuh! a pizzeria guarda! Varda chiru è sciutu!” mormorava la gente in paese.

Grazie a Dio però litigate in pizzeria non ce ne sono state.

Manciavane, bivìane… mangiavano, bevevano… 

Gino Bardoscia. Primi anni ‘80. Pizzeria presso Largo Santa Lucia, Tricase (Archivio LiquiMag)

Gino Bardoscia, primi anni ‘80, Pizzeria presso Largo Santa Lucia, Tricase (Archivio LiquiMag)

Gino aveva una radiolina, tant’anni è stata con lui quella là… sempre… lavorava e a suon di musica lavorava.

Quando stava giù al mare? Al bar teneva… come si chiama? Un grammofono con l’altoparlanti… metteva fuori il grammofono e i dischi tutti antichi…

C’era Carosone che aveva conosciuto e servito a Rimini. Nilla Pizzi, Carosone, aveva conosciuto. Poi Carnera il pugile proprio andò nel locale dove lavorava a Rimini. Carosone… Ma tu vulive ‘a pizz”.

E poi… ziccaluziccaluziccalu! Sprincitiralu, pìlu… la notte andavano tutte le barche, andavano alla chianci a pescare…. “Eh Gino mi raccomando, eh, quannu nui stamu adda vanna, minti u discu” affermavano i pescatori che volevano udire il disco “U pisci spada” di Domenico Modugno. E suonava… suonava… sentivano dal bar in mezzo al mare pigghialu lu pisce spada, pigghialu, pigghialu…”. Era diventato ormai quasi un rito propiziatorio per i pescatori, come se già sapessero che non avrebbero pescato nulla se non fosse partito il disco. Dunque, una canzone portafortuna contro le avversità del mare che al sol udirla rallegrava gli animi dei pescatori che non si sentivano abbandonati in mezzo al mare.

Altro particolare che Gino ricorda con affetto nella sua ultima pizzeria era una scimmietta che proprio tanto simpatica non era.                   

A Lecce… andò a Lecce con suo fratello. Andarono a Lecce ed entrati in un locale trovarono una scimmietta. Gino disse:

Antonio Bardoscia, figlio di Gino. Anni ‘70. Largo Santa Lucia, Tricase (Archivio LiquiMag).

Antonio Bardoscia, figlio di Gino, anni ‘70, Largo Santa Lucia, Tricase (Archivio LiquiMag).

Na, Uccio vidìmu se la piàmu”, cioè appena la vide, si accese una lampadina nella sua mente e capì che una scimmietta in un paese come Tricase poteva essere fonte di attrazione per tutto il Capo di Leuca.

Alla fine la commissionarono a Milano. E arrivò dall’Africa. La portarono, per lui la portarono. Andò a Milano a ritirarla… tanta era… mezzo chilo andava… Kitti… Kitti… trecento mila lire la pagò… tanta era… tanta così… ma, cari miei dentro al treno!… Tutto il treno, tutta la gente esclamava: “Wei, wei, wei”.

Nessuno può immaginare che invasione subì Gino sul treno a causa di quella scimmietta! Il suo vagone si era trasformato in uno zoo dove tutte le bestie dis-umane tentavano di socializzare con l’unica e indifesa anima “umana”. Che scena illogica per quella poveretta rinchiusa in una gabbia che vedeva dinnanzi a sé fiumi di bestie, che si calpestavano solo per riscuotere una carezza o un saluto ravvicinato! 

Gli faceva guadagnare soldi quella scimmietta. Tutte le famiglie dicevano: “Andiamo da Gino, andiamo da Gino alla pizzeria!”.

Ovviamente prima o poi sfiderei qualunque essere animale o umano a non stancarsi nel vedersi costantemente bersagliata e, a volte anche stuzzicata, dalla perenne folla di visitatori. Così un giorno una famiglia aveva tre, quattro figli piccolini… una bambina si avvicinò alla scimmietta mentre Gino stava lavorando. Si avvicinò… mise la mano vicino alla gabbia così… e la scimmia, cari miei… il dito gli spezzò proprio! Eeeh! Marescialli, l’ira di Dio!

E allora poi uno di Andrano… se la portò. Con tutta la gabbia se la portò. La tenne fuori nel giardino e la mattina dopo la trovarono mpassulata, morta.

La povera Kitty che non solo aveva dovuto subire il ruolo di marionetta dentro quel teatro a sbarre, si ritrovò a coprire il ruolo di colpevole e condannata a morte dalla distrazione di un dis-umano! Che tragica sorte!

La scimmietta, il grammofono, i quattro tavoli nella mansardina, il bancone, i forni, la pala di ferro e la pala di legno, la bottiglia di birra con il tappo di sughero contenente l’olio, il coltellaccio per tagliare la mozzarella, i fascetti d’origano inebrianti, l’unicità e la tradizionalità di prelibatezze… tutto era curato nei dettagli tanto da non consentire un minimo sospiro! Non c’era il tempo di fermarsi, scambiare una chiacchiera: Gino era impassibile a tutto ciò che lo circondava. Le uniche direttive erano quelle del figlio Antonio che riportava le ordinazioni dei clienti.

Una vita di dedizione al proprio lavoro con sacrifici e rinunce sia per Gino che per la sua famiglia. Nei suoi occhi è ancora visibile la stanchezza e al tempo stesso la soddisfazione di essere stato un pizzaiolo all’altezza delle papille gustative della gente. I suoi clienti ancora percepiscono quel sapore unico “della prima volta” che mai più potranno sentire, così come non se ne andrà più via quella nostalgia nel sentire sempre il solito “disco” dai passanti: “Ginu! Mannaggia ci hai fattu cu chiudi!”. Che profumata nostalgia!». 

Storie di vita, racconti, fiabe, leggende, miti, filastrocche, aneddoti rientrano nella narrativa popolare che quest’anno sarà la tematica di un’importante iniziativa “Fiabe, storie di vita e narratori. Dialoghi di Storia delle Tradizioni Popolari” che Liquilab organizzerà con l’Istituto Centrale per i Beni Sonori ed Audiovisivi del Ministero della Cultura; Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale del Ministero della Cultura; ICCD – Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione del Ministero della Cultura; Università del Salento, Dipartimento di Storia, Società e Studi sull’Uomo e con una rete di partner. L’iniziativa si terrà dal 18 al 24 luglio 2022 principalmente a Tricase e a Specchia Gallone di Minervino in provincia di Lecce.

Per vivere in tempi di globalizzazione e pandemia ogni comunità cerca di resistere ed elabora storie e racconti per non perdersi, per capire lo status quo, per contrastare lo spaesamento. Gli uomini raccontano e si raccontano, parlano di sé, degli altri, di quel che è accaduto, o credono sia accaduto, oppure inventano storie, a volte del tutto inverosimili, di animali parlanti, di fantasmi, di santi, di strani esseri che vivono nei boschi. C’è una ragazza carina che a un certo punto perde una pantofola e trova marito; un uomo ardimentoso vola a cavallo sulla luna e vi trova il senno perduto dagli uomini sulla terra; un topolino per assaggiare il sugo cade nella pentola e lascia vedova la povera moglie formica…
Il nostro consueto ciclo annuale di incontri sui temi di Storia delle tradizioni popolari, riguarderà quest’anno, proprio la narrativa popolare, in particolare quella di trasmissione orale. Gli studiosi si sono preoccupati di distinguerne i generi: fiabe, favole, saghe, miti, storie di vita, storia orale, talvolta con qualche forzatura. Ci proponiamo di esplorare il ricchissimo mondo della narrazione, guardando ai documenti innumerevoli raccolti, agli stili narrativi, agli strumenti analitici, ai problemi della catalogazione.
La più importante campagna di raccolta sistematica di fiabe (testi narrativi di trasmissione orale) in Italia è quella guidata da Alberto Cirese tra il 1968 e il 1972; parte di quei materiali è ancora inedita, per cui sarà oltremodo interessante recuperare quei testi e quelle voci. Cercheremo tra le vecchie raccolte e quelle più recenti, daremo conto delle indagini svolte attualmente sul campo tra i narratori, tra archivi e le collezioni private. Vogliamo presentare gli studi, le inchieste, le passioni di alcuni tra i più importanti cercatori di storie, Vito Domenico Palumbo, Aurora Milillo, Ernesto de Martino, Annabella Rossi, Alberto Cirese. E cercheremo di capire che cosa di questo enorme patrimonio è rimasto vivo o può tornare a vivere. Ci proponiamo, inoltre, di giocare con i repertori, e ne presenteremo alcuni tratti significativi attraverso una residenza artistica che si completerà con momenti di restituzione al pubblico del lavoro svolto.

I terreni privilegiati dei nostri seminari saranno la Puglia e la Basilicata, ma i temi verranno affrontati da esperti del settore provenienti dall’Italia e dall’estero, perché, come è nostro costume, esperienze e metodologie si intrecciano e si alimentano, dialogano e ci aiutano a raccontare il mondo.

L’arte di raccontare, come sostiene Pietro Clemente, può essere considerata uno dei pilastri della società contemporanea in quanto risorsa del mondo che «­­non costa, non inquina ed è strategica per la ricchezza dei rapporti umani, sociali e generazionali» e per il campo culturale e turistico; da sempre noi siamo abitati da storie di vita e memorie che si trasmettono attraverso i corpi, le voci, che spesso si trasformano in libri o, nei tempi più recenti, in digital storytelling, e questi non finiscono mai di raccontare lo spessore dell’esperienza umana. 

Dialoghi Mediterranei, n. 56, luglio 2022 

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Ornella Ricchiuto, sociologa, ricercatrice in Antropologia Culturale ed Esperta in Economia e Managment dei Beni Culturali e Patrimonio Unesco, si occupa di ricerca antropologica finalizzata all’identificazione, salvaguardia e diffusione del patrimonio culturale immateriale e materiale nel sud Salento. Collabora con la Cattedra di Antropologia Culturale dell’Università del Salento. È fondatrice e presidente di Liquilab. Ha esperienza di: project manager, youth worker in progetti europei; regista di documentari di Antropologia Visuale; organizzatrice di eventi, manifestazioni e fiere; autrice di pubblicazioni a stampa e report di ricerca. Tra i suoi lavori: Salvatora Marzo. Biografia di una guaritrice, Liquilab Editore, 2019; Beni intangibili. Ricerche etnografiche nel sud Salento, Liquilab Editore, 2018; La comunità del Mito. Prime annotazioni per la ricerca, in Palaver, vol. 7, Università del Salento, 2018; CantiCunti. Una ricerca antropologica a Tiggiano nel Salento, Liquilab Editore, 2017; Oltre il tabacco. Storie di donne a Tricase. Una ricerca antropologica, Liquilab Editore, 2015.

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