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Per gli altri è cambiato solo il paesaggio. Le comunità appenniniche dopo il sisma

coveril centro in periferia

di Mariano Fresta 

Tra i libri che ho avuto tra le mani e letto più o meno recentemente sui numerosi paesi abbandonati o che riportano ampie antologie di ricordi e di testimonianze di persone vittime delle sciagure che periodicamente si abbattono sul territorio italiano, come i frequenti terremoti, Quando arriva primavera. Biografie e storie di comunità negli Appennini del doposisma (ed. Affinità elettive, Ancona 2022) che parla delle genti dell’Italia centrale vittime di disastrosi movimenti tellurici, presenta delle novità considerevoli, perché oltre ai ricordi personali ci offre una serie di riflessioni sull’uso della memoria, specie quella scritta e autobiografica.

Questo libro in realtà più che una raccolta di testimonianze relative a giornate e a momenti drammatici, come quelli che seguono eventi catastrofici, potrebbe essere considerato una specie di manuale per chi deve raccogliere e trascrivere le biografie di quanti hanno vissuto quei drammatici eventi. I promotori dell’iniziativa editoriale, infatti, si prefiggevano di far conoscere e spiegare lo scopo, per loro primario, di formare persone capaci di saper riadattare racconti soggettivi ed emozionali in narrazioni quanto più oggettive possibili e tali da poter essere condivise. Ed è questo aspetto, più che la presenza delle biografie, ad avere notevole rilevanza nel volume.

L’iniziativa è partita dall’Istituto Storico della Resistenza di Macerata e dal suo presidente Paolo Coppari e si è ispirata al lavoro che da decenni ormai svolge la Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari, fondata da Duccio Demetrio. A proposito della ricostruzione dei paesi terremotati dell’Italia centrale, Coppari si era chiesto: «Che ruolo può svolgere un istituto che tradizionalmente ruota intorno al capoluogo di provincia e a una normalità fatta di convegni e corsi di formazione per docenti e studenti?». La risposta fu Scrivere per ricostruire, un progetto mirato a contribuire all’opera di ripristino delle aree, ispirato dalla consapevolezza  che una ricostruzione solamente materiale dei paesi ridotti in macerie dal sisma, avrebbe significato seppellire sotto le rovine il senso delle vecchie comunità, il tessuto immateriale e invisibile che però costituisce l’essenza stessa della società: i rapporti sociali, le conversazioni nate mentre si passeggia per le strade o le piazze, la solidarietà tra vicini che scatta nel momento del bisogno.

Ecco, raccogliere le testimonianze e restituirle alle comunità non come personali cahiers de doléances e punti di vista soggettivi, ma come documenti utili per chi ha perso oltre ai beni materiali anche l’orientamento culturale, perché costretto a cambiare vita repentinamente, a vivere in agglomerati provvisori, costruiti in fretta e furia e abitati per necessità e non per libera scelta. Per questo, prima di pubblicarle occorreva elaborare le testimonianze, privarle di tutti gli aspetti soggettivi, farle diventare patrimonio di tutti: era dunque necessario che i raccoglitori e i trascrittori fossero preparati prima di iniziare il lavoro di raccolta. Furono, quindi, istituiti dei corsi di formazione, con docenti provenienti dall’esperienza di Anghiari, diretti ad insegnanti e a volontari che, solo a formazione conclusa, furono avviati nel 2019, in primavera (ecco il significato, letterale e allegorico, del titolo del volume), a fare il lavoro sul campo. La formazione di questi “biografi” aveva inoltre l’ambiziosa finalità «di creare nuove competenze spendibili nella ricerca storico-memoriale che non ammette improvvisazioni o banalizzazioni».

Sulla formazione dei “biografi” si soffermano Anna Maria Pedretti e Silvana Nobili, docenti del corso; la Nobili, tra l’altro scrive: «Il biografo di comunità non è uno storico né un giornalista, l’indagine è sulla verità soggettiva ed emozionale che ogni singola storia contiene e sulla ricostruzione dell’idea di comunità, attraverso lo sguardo sulle micro-storie delle persone che abitano un determinato territorio». E poi: «[Egli] trascrive e rielabora in forma narrativa quanto è stato raccontato e registrato fino al momento della condivisione con il narratore, a cui il biografo legge il risultato del suo lavoro, per averne il consenso, riconoscendo che quella letta è proprio la sua storia».

Il volume ha un andamento particolare, perché non si sviluppa partendo dall’idea del progetto e illustrandone progressivamente le fasi transitorie per arrivare al traguardo finale, cioè alla pubblicazione delle biografie; parte, invece, da queste e ripercorre a ritroso tutti i procedimenti e tutte le riflessioni che via via era stato necessario fare per mettere a punto il programma. Tra l’altro, le biografie pubblicate sono appena diciotto e costituiscono non tanto la parte importante del volume quanto una esemplificazione dei risultati che si possono raggiungere applicando determinate metodologie. Per questo il libro sembra essere una specie di manuale e di guida.

Poiché all’impresa hanno preso parte anche istituti scolastici, il volume si chiude con gli interventi di operatori scolastici che, dall’esperienza, traggono considerazioni di carattere didattico e pedagogico.

Amatrice, 2017 (ph. A. Scotti)

Amatrice, 2016 (ph. A. Scotti)

Le biografie

Le biografie pubblicate sono poche ma tuttavia sufficienti sia a mostrare quali risultati si possano raggiungere per scrivere una storia basata sulle fonti orali, sia a darci un’immagine credibile delle genti che abitano l’Italia appenninica centrale che, comunque, non deve essere molto diversa dal resto del territorio nazionale di tipo collinare e montano. Ed è su questo aspetto che vorrei soffermarmi a riflettere.

Esaminando tutti i testi appare evidente una coesistenza di sensibilità culturali diverse: accanto a mentalità formatesi nelle scuole e con l’uso di strumenti di comunicazione moderni e tendenti ad avere una visione più aperta e più critica della realtà, emergono anche elementi residuali di antiche tradizioni, più presenti in persone anziane che sono vissute in ambienti in cui la circolazione culturale era piuttosto minima, ma riscontrabili anche in persone giovani. Per esempio, Claudia Ciminelli sembra la persona più legata alla vita tradizionale di paese, tanto da non sentire il bisogno di allontanarsi dal luogo dove è nata: «Fondamentalmente le mie radici sono nel mio quartiere, sono cresciuta qui, questo è il luogo dove ora vorrei ritornare. Tanto il mio punto di riferimento preciso è sempre questo». Sembra che la sua mentalità non possa essere scalfita nemmeno da eventi sismici, c’è in lei una determinazione caparbia che rifiuta ogni cambiamento di luogo (ma forse il termine “radici” è stato usato dal biografo per tradurre un’espressione più semplice e meno impegnativa).

Anche Teresa Marziali, di 96 anni, appare della stessa costituzione culturale: per tutta la sua vita è vissuta nello stesso paese, Pioraco, in due case diverse ma collocate nella stessa strada. La sua infanzia è stata povera, come quella della maggioranza dei suoi concittadini; i ricchi erano pochi e vivevano separati dal resto della popolazione, avendo recintato la loro dimora e tenendo i propri figli lontani dagli altri bambini con un cancello insormontabile che li separava dalla strada, senza, però, impedire ai ragazzi di potersi scambiare almeno qualche parola. Quando racconta che l’attività culturale della sua comunità si basava esclusivamente sulle feste dei santi e la celebrazione del Venerdì santo, la sua testimonianza diventa importante e forse paradigmatica di tutti i paesi isolati in cui la vita si svolge con molta lentezza e molta ripetitività.

Un altro tipo di isolamento culturale, di carattere ideologico più che sociale stavolta, è quello di Roberta Vitali, che con il marito gestiva una casa famiglia a Tolentino. Per loro il terremoto è un evento voluto da Dio, perché crea situazioni che permettono di fare opere di bene e per questo va accettato. Tutti i problemi e i disagi connessi al sisma e ai lavori di ricostruzione e che sono la parte più consistente di tutte le biografie nel loro racconto sono quasi tenuti in secondo piano. Per loro la cosa più importante era mettere in salvo i loro ospiti, ma per far questo hanno preferito cercare aiuto presso altri enti simili a quello da loro gestito.

Talora le persone più anziane manifestano un certo fatalismo di fondo, comunque esse sembrano esprimere una maggiore capacità di adattamento anche alle situazioni più drammatiche. È il caso di Giuliana Mancini che, dopo essersi lamentata del fatto che «il terremoto tra le altre cose ha proprio danneggiato il valore della comunità», aggiunge: «Cosa significa per me resistere? Resistere vuol dire convivere con tutto ciò. Chi ha deciso di rimanere qua, nel bene o nel male, deve resistere. Se vuoi decidere di andare via non resisti, ti arrendi. Se invece decidi di restare devi convivere con il fatto che ci può essere un altro terremoto, che la ricostruzione potrà andare a lungo venti, trenta, quarant’anni. Resistere vuol dire far diventare un’abitudine tutto ciò, anche questa paura». Anche in questo caso sembra di capire che un eventuale trasferimento altrove è sentito come qualcosa di più doloroso che restare in quelle ostiche situazioni.

Amatrice, Assemblea pubblica

Amatrice, Assemblea pubblica

Nelle persone più giovani, invece, c’è più adattabilità ma anche una carica di rabbia che però non trova su cui o cosa scaricarsi. Una giovane donna, anonima, si lamenta per l’impossibilità di una qualche aggregazione sociale e per l’incapacità dei più anziani che, pur avendo già vissuto esperienze simili, non sanno cosa fare, non sanno organizzarsi e affrontano le conseguenze del sisma come se fosse la prima volta. È, però, l’isolamento quello che a lei pesa di più, pur se i giovani trovano un surrogato nel cercare gli amici su Whatsapp e sui cosiddetti social. «Ma la nonna?», si chiede con un po’ di angoscia la ragazza … La nonna e molti altri anziani suoi coetanei forse non sanno che esista Whatsapp.

Marina, originaria di San Severino Marche dove ha vissuto un’infanzia felice, è una donna molto dinamica che è rimasta nei luoghi in cui è cresciuta, ha la forza di resistere a tutto, è molto battagliera e affronta le numerose difficoltà cui va incontro con molto coraggio e determinazione. Ha sposato un uomo di estrema sinistra, con cui aveva consonanza di idee, con «cui parlavo di tante cose. Comunque ho dato scandalo, mio malgrado, per aver voluto il rito civile». Il suo problema più grosso è quello di avere il lavoro a molti chilometri di distanza dall’abitazione (una casetta prefabbricata di 40 mq, con una sola camera, una di quelle messe a disposizione dalla SAE – Soluzione Abitativa di Emergenza), che per la qualità infima dei materiali di costruzione usati e per la fretta con cui è stata tirata su è soggetta a frequenti guasti; per questo aveva chiesto di poter utilizzare, ma non gliel’hanno permesso, la sua cucina: «… più solida e più funzionale rispetto a quella che uso attualmente con piani gonfiati e maniglie spellate, e che ho dovuto comunque integrare con altri spazi, senza contare che poi la tengo anche molto bene, sono sola, mi piace tenere tutto pulito ed in ordine. Con quello che sono costate queste case ci doveva essere un’attenzione ed un arredamento almeno passabile, che durasse almeno, ottimisticamente, una decina d’anni». I problemi comunque sono più gravi per chi è solo: «Anche altri hanno avuto problemi, ma nessuno lo fa presente perché ci si arrangia da soli, stanno a casa, rimediano in tempo reale, non come me che esco la mattina e rientro la sera con la speranza che non sia rotto niente, comunque qualcosa è successo a tutti. Ma la gente dopo tanto penare si è adeguata». A lei l’alloggio si è allagato per ben due volte, non si è data per vinta, è riuscita a portare a casa sua il sindaco, per fargli vedere i danni subiti.

Tolentino, 2026

Tolentino, 2016

Al polo opposto si colloca l’Anonima di Tolentino, che si presenta come una giovane spensierata, simile alle migliaia di giovani italiani che vediamo frequentare le discoteche e le piazze notturne delle città grandi e piccole, che sembrano non avere prospettive culturali di grande respiro. Una sorta di qualunquismo innocuo che si dilegua nel momento in cui il bisogno della comunità li chiama ad iniziative di grande solidarietà, come quelle necessarie dopo un devastante sisma. Basta che ci sia qualcuno che li chiami e subito rispondono con grande generosità.

C’è poi chi è stato traumatizzato dall’evento e nonostante continui a lavorare per superare le difficoltà ha perso gli scopi che si era prefisso prima. È il caso di Patrizia Boldrini che vive nelle zone di Seppio e Pioraco: «Dopo il terremoto vivo di più alla giornata, non faccio progetti a lungo termine, compro molti meno oggetti, visto che quelli che avevo ho dovuto lasciarli. Mi accontento di quello che ho, va bene anche l’essenziale». Quello che però le manca e che manca a tutti è la necessità di un contatto con gli Enti locali regionali, con lo Stato. In loro, sia per un fatto psicologico sia per ragioni effettive, il problema più importante è come combattere la solitudine, il sentirsi soli e abbandonati. Così si esprime Patrizia:

«Tra le persone che vivono in questi luoghi il bisogno principale è quello di essere ascoltati perché spesso trovo di fronte dei muri da parte di quelli che non hanno vissuto quello che abbiamo provato noi, non c’è sempre l’ascolto e la comprensione da parte di chi invece dovrebbe averli. Anche una semplice richiesta, uno sfogo non vengono sempre accolti nella maniera giusta. Il bisogno primario è quello di essere ascoltati, a volte qualcuno grida mentre qualcun altro parla sottovoce, ma la richiesta è la medesima: essere ascoltati!».

Una delle ultime biografie è quella di una ventiduenne, figlia di allevatori che mostra di avere intelligenza delle cose e buone capacità riflessive. Si chiama Angela Sepi ed è capace di tanta ironia nel descriverci un centro abitativo che si è formato autonomamente e che è chiamato il Bronx. Questo nome è stato coniato dagli stessi che

«hanno dato vita a questa esperienza, era in realtà un gruppo di roulotte e camper, quasi tutti donati o prestati da persone generose, che dopo il terremoto sono stati raggruppati nei pressi del campo sportivo di Visso, dove potevano essere utilizzati gli spogliatoi, i servizi igienici e le docce prima usati dai giocatori. Si è formata così una strana comunità, in tutto circa una trentina di uomini, donne e ragazzi, famiglie e persone singole, a cui spesso si univano ‘ospiti’ abituali o che venivano a trovarci saltuariamente e si fermavano a mangiare con noi. In gran parte si trattava di gente che era dovuta restare perché doveva accudire gli animali, mucche e pecore tenute allo stato brado o nelle stalle, oppure perché lavorava in questa zona».

L’intervista di Angela è molto lunga e comprende tante considerazioni sulla situazione post-terremoto, sulla ricostruzione, sui nuovi rapporti venutisi a creare in una situazione di grande precarietà. In essa c’è la rappresentazione del paese prima del sisma e di quello dopo:

«Quasi tutti possedevano un orto o un giardino, dove piantavano gli ortaggi e i fiori e poi li curavano per tutta l’estate, togliendo le erbacce e innaffiandoli. Tutto questo non c’è più. Il terremoto ha spazzato via modi di vita che erano sopravvissuti nel tempo in questi piccoli borghi. Ha sradicato intere famiglie dal proprio ambiente, lasciando soprattutto i vecchi in una condizione di solitudine». E poi l’amara conclusione: «Le cose vanno meglio perché qualcosa sta cambiando, ma le cose vanno meglio soprattutto perché ci stiamo adattando».

Fino a qui ho esaminato alcune biografie rilasciate da donne, adesso ne riporto altre che vedono protagonisti uomini. La sensibilità con cui questi affrontano la realtà nuova e i problemi ad essa connessi è alquanto diversa da quella femminile, perché probabilmente in quei piccoli paesi, mentre le donne restavano a casa, gli uomini frequentavano i bar, si incontravano in piazza, avevano possibilità di occuparsi e di parlare di questioni pubbliche; per questo in alcuni di loro il problema del dopo terremoto si presenta non solo come isolamento e ricostruzione, ma come necessità di prendere provvedimenti guardando ad orizzonti più ampi che comprendano anche il futuro prossimo e meno prossimo. L’Anonimo biografato da N. Pierdominici è un insegnante che lavora a Camerino e che è piuttosto critico sugli interventi e sulla politica relativa ai soccorsi e alla ricostruzione: 

«Questa ovviamente è una mia personalissima considerazione: il terremoto ha messo in luce la scarsissima autonomia e la scarsissima capacità della popolazione in generale di darsi una visione del proprio futuro o comunque di assumere decisioni proprie …  Le persone sono concentrate esclusivamente sulla ricostruzione della casa e sul riparare i danni. Ovviamente ciò è molto comprensibile, ma secondo me il problema non può essere ridotto solo a questo. Il problema è invece quello di avere una visione del futuro per queste aree».

E poi parla della mancanza di strumenti culturali adeguati che impedisce di avere uno sguardo più ampio, capace di prevedere un futuro diverso: 

«Prima del terremoto, il sabato a Camerino tutti andavano via; non esiste una libreria a Camerino, che è una città universitaria! … Cosa fanno il sabato pomeriggio gli abitanti del territorio? Vanno nei centri commerciali, giustamente, perché forse devono fare spesa. Non so bene, ma leggo questo come un problema nel saper reinventare un territorio che invece ha enormi potenzialità (…) Non c’è creatività, non c’è fantasia, c’è solo un aspettare l’azione dello Stato, a cui viene delegata la soluzione di tutto. Anche perché lo Stato si propone in una maniera opaca, grigia, burocratica, e assolutamente Illeggibile».
Amatrice, 2016

Amatrice, 2016

C’è in lui anche una certa ingenuità nel valutare certi atteggiamenti della popolazione più anziana: «Una cosa veramente incredibile è che questi paesi mantengono una nostalgia vetero-fascista. Tutti quanti questi paesi di montagna: veramente tutti! Mi sono sempre domandato: “Ma perché? Ma per quale motivo?”». Poi si dà anche una risposta: «Se hanno visto una modernizzazione l’hanno vista in quel periodo lì. In più si è creato questo mito dell’uomo forte, virile, che riesce a condurli, a salvarli, a dargli le risposte». Ma forse la nostalgia di un certo fascismo sta in quei residui di tradizionalismo e nella scarsa circolazione culturale che abbiamo già intravisto come sottofondo di alcune biografie.

Luigi Luconi ha sempre abitato a Tolentino, senza mai pensare di andare altrove; per questo si è impegnato nel campo sociale e in quello sportivo, nel tentativo di contribuire a creare una città più moderna, più cordiale. Dopo il terremoto tutti pensarono ad una ricostruzione immediata: «Poi è subentrata la convinzione che tutto non sarebbe ritornato come prima, ed è lì che i tolentinati tutti si sono rimboccati le maniche ed hanno ripreso a pensare, a costruire un nuovo futuro». Lui, comunque, ha qualche perplessità, perché va bene un certo entusiasmo, ma «da sola la popolazione non ce la fa a venirne fuori, è necessaria una buona guida. La popolazione può dare il suo contributo, ma occorrono delle guide sicure che devono avere senz’altro carisma, ma soprattutto le competenze ed anche la fantasia, le idee vengono anche dalla fantasia, che non risolve tutto, ma aiuta a trovare a volte piccoli elementi che accelerano un po’ la risoluzione del problema».

La sua profonda convinzione è che occorre una classe dirigente che sappia indicare un futuro concreto, aiuti le persone ad acquisire il senso dell’appartenenza, perché «per la popolazione è importante sentirsi comunità».

Abita a Roma Enrico Seri ma torna spesso a Seppio, il paesino in cui sono vissuti i genitori e anche lui per diversi anni. Addirittura, dopo il sisma, ha pensato di trasferirsi lì dove c’è ancora il senso della comunità, nonostante tutto. Vorrebbe far tornare tutto come prima, anzi meglio, tanto che aveva visto il «terremoto come opportunità di cambiamento, per costruire una società più giusta». C’è in lui un qualcosa di utopistico e velleitario, ma è sincero nella sua ansia di un rinnovamento sociale che deve essere universale: 

«sento che stiamo rovinando il mondo. Da un lato vorrei realizzare il mio sogno, fare una rivoluzione o essere rivoluzionario, scendere in campo e lottare, combattere contro queste ingiustizie. La necessità che ho è di ripartire da una casa perché il terremoto mi ha tolto la casa, mi ha tolto gli spazi, mi ha tolto i ritmi che avevo, me li ha cambiati, mi ha dato la possibilità di vedere anche che con l’essenziale si può vivere. Ti apre le ferite, soprattutto per chi come me è ipersensibile e vive sempre sull’orlo di una crisi di nervi, nel senso che ci sono delle cose banali che mi mancano ma sono quelle che mi rassicurano. Quindi la necessità è la casa ed il sogno è vedere una società più giusta».

Chi dimostra di avere idee molto chiare sulla devastazione causata dai terremoti in quelle zone e sulle cose da fare per la ricostruzione è Fernando Lapucci, che abita a Pieve Torina (MC), forse perché, come lui stesso fa capire, è un tecnico (non dice di che genere) di un Comune. L’idea è di ricostruire

«guardando con attenzione all’aspetto funzionale ed estetico, ma mantenendo sempre anche un qualcosa che ci ricordi come erano i luoghi di un tempo, un qualcosa che tornerà alla mente come familiare percorrendo di nuovo quelle strade. Ad esempio stiamo rilevando tutti i portali di fine ’800 per ricostruirli come erano per poter lasciare delle tracce che tutte le persone del posto ricorderanno passando in quei luoghi».                                                  

Non si limita, però, a parlare di urbanistica e di paesaggistica, egli sa anche raccontare cos’era il paese prima, quale era la sfera sonora che lo circondava: «Effettivamente non esiste più il rumore dei bambini che corrono lungo la strada e questa è forse la cosa che rattrista di più, che dà un senso di abbandono al paese. Un altro suono che mi torna alla mente è quello degli animali perché ogni casa aveva la stalla con diverse mucche che ad un certo orario, quando era l’ora di essere munte, iniziavano a muggire». Altre scene, di carattere visivo, tornano nella sua memoria: 

«Ai tempi della mietitura e della vendemmia, o quando si pulivano le pannocchie del granturco tutti i paesani, venti o trenta si ritrovavano, sedevano sui mucchi di pannocchie del granturco che erano molto alti, enormi per i più piccoli, e si ripulivano, una sera da un contadino, la sera dopo dall’altro. Questo modo di stare insieme era un continuo raccontarsi la vita quotidiana, era uno dei momenti più belli dal punto di vista sociale». 

Nelle sue parole rivive la comunità di una volta, più che in altre testimonianze, perché è una persona che sa guardare e sa trarre frutto da quello che vede. La stessa attenzione, velata di tristezza, ha nel raccontare le vicende più dolorose e traumatiche: 

«Una cara amica di Roma era partita per prendersi tutto, ma dopo un pianto dirotto, l’unica cosa che ha portato con sé è stato il bambolotto della nipote. Per tutto il resto mi ha lasciato delle disposizioni per salvare quante più cose possibili, poi non è più rientrata in quella casa. Queste sono esperienze che si ripetono molto spesso e che ti lasciano una ferita profonda, perché vorresti aiutare, ma sono cose a cui non c’è un rimedio, devi solo guardare perché le parole di conforto sono difficili da tirare fuori». E aggiunge: «Queste sono cose che può capire solo chi le vive direttamente, per altri è come se fossero cambiati solo il panorama e il paesaggio. Noi che siamo rimasti ce ne accorgiamo, quando ci incontriamo, ci guardiamo come per chiederci un aiuto reciproco, ma non sappiamo come aiutarci perché non abbiamo mezzi e strumenti. C’è solo bisogno di avere tanta pazienza, finché sarà possibile».

Già, fino a quando potrà durare la loro pazienza? Tra tutte le testimonianze una mi ha lasciato perplesso, ed è quella che i curatori del libro hanno intitolato Cronaca del terremoto a Visso, che ha il ritmo di una “radiocronaca in diretta”, ma il cui senso generale sfugge per colpa di un accento; non si capisce, infatti, se ancora sia un avverbio (ancòra – come è scritto) oppure è quell’attrezzo che serve a tenere ferma la barca quando si trova in acqua alta (àncora – è forse questa la forma corretta) e che qui sembrerebbe usato come metafora. A volte la fretta nel correggere le bozze fa prendere fischi per fiaschi.

Per concludere: si tratta di un libro molto utile per tutti coloro che si accingono a raccogliere testimonianze di vita perché indica, nelle pagine in cui si parla di metodologia, qual è il modo corretto di raccogliere una testimonianza e trasformarla in documento storico. Nella Prefazione Pietro Clemente scrive, citando De Martino, che il «loro racconto è – come nel titolo del progetto – un esercizio di elaborazione del lutto per poter superare la lunga fase di vita nel terremoto e col terremoto»; solo che l’elaborazione avviene in due momenti, nel primo nello sfogarsi raccontando e nel secondo trascrivendo con l’aiuto del biografo, senza il quale è difficile spogliarsi di un dolore tutto personale e intimo.

Io credo che l’iniziativa dell’Istituto della Resistenza di Macerata potrebbe essere l’esempio da seguire da chi vuol fare la storia di quelle classi sociali rimaste neglette e del tutto anonime e la cui vita è affidata solo ai racconti orali: l’aiuto di un biografo, estraneo ma solidale, potrebbe dare alle narrazioni quell’oggettività richiesta dai documenti storici.

cantieri della ricostruzione

Amatrice, cantieri della ricostruzione, 2020

Nella nostra nazione ci sono migliaia di paesi piccoli e grandi, molti dei quali spopolati, vuoi perché abbondonati per le alluvioni, per i terremoti e soprattutto perché è stato distrutto il loro sistema economico dall’irrompere dell’ industrialismo, del consumismo e della letale economia finanziaria. A poco a poco i piccoli comuni e le loro frazioni si sono visti privati prima dell’Ufficio postale, poi delle scuole e perfino delle parrocchie. I Governi, invece di trovare meccanismi e civili soluzioni per difendere e salvaguardare queste comunità, le hanno abbandonate al loro destino in nome di una presunta modernità. Se poi, oltre alle grandi trasformazioni economiche e sociali, ci si mettono anche i terremoti e le alluvioni (queste ultime prevedibili ed evitabili), allora il destino di questi paesi è segnato.

Di fronte a questi gravosi e drammatici problemi la pubblicazione di un volume di testimonianze e di ricordi è ben poca cosa, ma può aiutare quelle comunità a ritrovarsi, a “ri-accasarsi”. Se il volume, ovvio, è fatto bene, come questo del progetto Scrivere per costruire, i cui promotori erano ben lontani dal volere sottolineare solo i momenti di sconforto e di demoralizzazione delle popolazioni colpite dai terremoti degli anni 2000. Per questo mi sembra un po’ eccessivo e fuori luogo quello che ha scritto nella Presentazione Franco Arminio: «I paesi di cui si parla in questo libro sono un cantiere della sfiducia»: perché la sua sarà anche una constatazione dei dati di fatto, ma nel libro ci sono, oltre alla rassegnazione, anche la speranza e la combattività delle popolazioni. Probabilmente il “paesologo” non ha letto tutto il libro, essendosi fermato alle prime biografie.

Ha, invece, ragione Pietro Clemente che nella prefazione parla di Polifonie: ogni comunità, tutte le persone si presentano con la propria cultura, con il proprio carattere, con la propria capacità di leggere la realtà, come le diverse voci che concorrono a formare i cori. Nelle diciotto biografie si può trovare, scrivevo all’inizio, il paradigma del popolo italiano. Questo può fare l’antropologia, rilevare la molteplicità e la diversità presenti in ogni comunità: è (sarebbe) compito poi della politica trovare le soluzioni possibili per i singoli e per tutto l’insieme. Ma, come dice uno dei narratori, ci vuole una classe dirigente, dotata di fantasia e capace di guidare e dare prospettive per il futuro.

Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022

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Mariano Fresta, già docente di Italiano e Latino presso i Licei, ha collaborato con Pietro Clemente, presso la Cattedra di Tradizioni popolari a Siena. Si è occupato di teatro popolare tradizionale in Toscana, di espressività popolare, di alimentazione, di allestimenti museali, di feste religiose, di storia degli studi folklorici, nonché di letteratura italiana (I Detti piacevoli del Poliziano, Giovanni Pascoli e il mondo contadinoLo stile narrativo nel Pinocchio del Collodi). Ha pubblicato sulle riviste Lares, La Ricerca Folklorica, Antropologia Museale, Archivio di Etnografia, Archivio Antropologico Mediterraneo. Ultimamente si è occupato di identità culturale, della tutela e la salvaguardia dei paesaggi (L’invenzione di un paesaggio tipico toscano, in Lares) e dei beni immateriali. Fa parte della redazione di Lares. Ha curato diversi volumi partecipandovi anche come autore: Vecchie segate ed alberi di maggio, 1983; Il “cantar maggio” delle contrade di Siena, 2000; La Val d’Orcia di Iris, 2003.  Ha scritto anche sui paesi abbandonati e su altri temi antropologici.

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