F: Tu chi sei?
S: Io ti proteggo
Il secondo lungometraggio di ‘Ala’ad-din Slim, Tlamess, (“Incantesimi” in arabo tunisino) fortunatamente non propone una traduzione del titolo in altre lingue. Un buon segnale positivo per chiunque possa esser sedotto dalla musicalità del termine originale. Probabilmente una versione internazionale con un altro titolo avrebbe cambiato le aspettative del pubblico, ovviamente non locale.
Quando lo vidi per la prima volta, al Medfest di Roma, non immaginavo che Tlames (nella grafia italiana basta una sola “s”) non è altro che una variazione del termine classico “talasim”, che sta anche per amuleto, portafortuna. Se ci fossi arrivato da solo, compito effettivamente non troppo arduo, il film avrebbe anche deluso le mie aspettative, almeno per la prima ora in cui non mostra nessuna caratteristica tipica dell’atmosfera di magia che il titolo dovrebbe suggerire.
Anzi, al contrario, il film si cala fin da subito e in profondità in una realtà spazio-temporale dai contorni ben definiti: siamo nella Tunisia del post 2011, e dalla prima scena, in notturno, tra tuoni, fulmini, pioggia e rivoli d’acqua da attraversare, emerge la vita difficile dei militari che vengono sballottati qui e lì, negli angoli più remoti del Paese, per combattere gruppi terroristici, fantomatici o reali, a seconda dei punti di vista.
Sullo schermo scorrono camionette, lungo i fianchi di montagne aspre e brulle, tipiche del sud della Tunisia. Domina il silenzio umano, sovrastato da una colonna sonora angosciante e dai sopradescritti rumori di una natura selvaggia, semi-desertica. I militari sono stremati e per nulla propensi alla chiacchiera. Fa eccezione solo uno che si lamenta di fronte all’enigmatico soldato S., che sarà poi il protagonista del film. Stesso copione quando rientrano in caserma, a mensa, nelle docce, tutti sicuramente sprofondati nel monadismo asociale offerto dai “social” dei loro cellulari. La telecamera si aggira, a scatti, sui loro angoli e letti.
Nella scena successiva la calma apparente è spezzata improvvisamente dal rumore sordo di uno sparo e da schizzi di sangue su piastrelle del bagno. È l’inevitabile reazione per chi non riesce a sopportare quella vita.
S. viene convocato nell’ufficio del suo superiore per comunicargli la notizia della morte della madre. La sua espressione facciale non cambia, come il protagonista de Lo straniero di Camus. Non apre bocca (non lo farà mai durante tutto il film), nessuna lacrima, sguardo assorto in non si sa che cosa. Arriva a casa, dopo aver viaggiato su un pullman, sempre impassibile. Anche durante la brevissima scena del riconoscimento della salma all’obitorio, si limita ad annuire al medico di turno, senza esprimere alcun sentimento.
Nella routine di una settimana di licenza, che sembra scorrere silenziosa e solitaria nella casa di famiglia, matura la decisione drastica di non fare più ritorno in caserma, spiazzando un po’ lo spettatore: getta in un falò tesserino e stivali. Le rivoluzioni della vita non si annunciano, si fanno; anzi se annunciate, perdono il loro vigore, sembra dirci il regista.
Da qui in poi il film ha un ritmo più movimentato, tra inseguimenti, agguati alla polizia militare che dà la caccia al disertore. Le musiche dell’ensemble Oiseaux-Tempête, dagli accenti fortemente distopici, legano i frenetici spostamenti della telecamera tra luoghi bui, luci gialle soffuse, atmosfere rarefatte, fumi di fuochi accesi dove bruciano enormi distese d’immondizia o presso cui si scalda chi è costretto a passare la notte fuori. Una lunga scena filmata da un drone parte da sopra un minareto e sorvola strade e palazzi di un notturno di città semideserta.
S. trascina le sue stanche gambe sull’erba, ansima, è stremato. Si addormenta tra i cespugli e viene svegliato da una cagnolina, che allatta i suoi cuccioli. Si intrufola in un appartamento vuoto, ma viene arrestato dalla polizia.
Quando il suo destino sembra già segnato arriva il colpo di scena: salta dalla camionetta che lo sta conducendo a sicura prigione: è nudo, con il fianco sanguinante. Nella luce scarsa dei fari notturni, corre attraverso strade, caseggiati, tombe di cimitero, campagne, fino ad arrivare ad un bosco, nella fioca luce dell’aurora. La telecamera lo segue sempre da dietro, accompagnata da una musica con ritmo ossessivo, in una scena infinita. Ma è finalmente salvo e spoglio di qualsiasi connotato legato alla vita di caserma.
Qui finisce la storia del disertore, e ne inizia una nuova, con altri, pochi personaggi. La forte luce del giorno e la placidità di una zona di montagna, in mezzo ai boschi fa subito effetto, rispetto al buio e all’asprezza delle montagne battute dai militari della prima parte del film.
F. è una giovane in attesa del suo primo figlio. Sembra in ansia, turbata non si sa da cosa. Viene accompagnata dall’autista in una sontuosa villa di montagna, ancora in fase di arredamento. Un mondo di lusso inaudito nella prima parte del film che scorre tra luoghi desolati, periferie degradate o al massimo modesti appartamenti di zone di nuova espansione urbana.
Per F. ci sarebbero qui tutti gli ingredienti per una vita felice: un marito ricco, sempre in giro per affari, premuroso ma sicuramente attaccato al denaro e al suo stile di vita frenetico. Ma rimane la solitudine e la paura di affrontare una maternità, sebbene in una sorta di paradiso terrestre.
In una solitaria passeggiata dentro al bosco, F. si imbatte in un uomo barbuto, scapigliato, con abiti consunti: si tratta dell’ex disertore S. Per lo shock sviene e si ritrova dentro una umida cisterna sotterranea, dove il giovane ha cominciato una nuova vita. All’inizio lei tenta di scappare, ma a poco a poco, come per incantesimo, sembra irretita dall’inedita realtà che le si prospetta.
S. vive di ciò che la natura gli offre, bacche, cacciagione e pesce nel non lontano mare. È un mondo dove la natura domina sovrana, senza la contaminazione della “civiltà” umana, e che può fare a meno dello strumento verbale. Per comunicare i due si scambiano messaggi con gli occhi, che vengono tradotti sullo schermo come sottotitoli (ahimè in arabo standard, che certo non aiuta a comunicare i più veraci sentimenti), con zoomate sulle pupille di entrambi.
F. chiede all’uomo: “Tu chi sei?”. Lui risponde: “Io ti proteggo”. Probabilmente non lo sa neanche lui, deve ancora decostruire i connotati della sua vita precedente, oppure è convinto che non legare un nome a qualcosa, persino a se stesso, sia la strada maestra per la liberazione da identità che bloccano l’individuo, simili a quelle “meurtrières”, assassine, di cui scriveva Amin Maalouf.
Superata una normale diffidenza e ragionevole paura, F. entra, insieme all’incuriosito spettatore, in un mondo incantato, da favola primordiale, e sembra riappacificata con se stessa. Il progetto visionario di Slim, in cui non è difficile cogliere i segni e i simboli della narrazione archetipica di Adamo ed Eva, è quello di rifondare una società e rapporti di coppia che trascendano le sovrastrutture religiose e culturali, il patriarcato e le rigide regole del servizio militare.
Quando il bambino viene alla luce, è proprio lui ad allattarlo e ad accudirlo. Il ritorno a Madre Natura può dirsi compiuto solo se c’è una rinascita dell’essere umano e una presa di coscienza della necessità del rispetto di essa.
Senza mezze misure, Slim conduce lo spettatore dalla realtà distopica della prima parte del film al paradiso vissuto da S. ed F. nella seconda, e lo fa con sapiente utilizzo dei mezzi tecnici della sua troupe. In primis la stupenda direzione di fotografia, affidata ad Amin al-Messadi, e le sonorità avvolgenti dell’ensemble francese.
Mare in tempesta tra scogli inaccessibili, specchi d’acqua su cui si scorgono i movimenti dei personaggi, il candore della neve sul verde dei boschi: valori estetici aggiunti ad una favola contemporanea, tra la rappresentazione di un demoralizzante hic et nunc tunisino e la lieve fantasia che matura nella foresta, un mondo puro, al di fuori dello spazio e del tempo, la cui sacralità non deve essere inquinata dalle parole, che poi sono espressione di volontà di dominio sul prossimo.
Che ne sarà del bambino che S. allatta e vorrebbe proteggere? E della madre e dei progetti di vita dell’uomo nuovo? Per cifra stilistica e tematiche affrontate, Tlamess insiste nel solco tracciato dall’opera prima di Slim, Akhir wahid fina (“The Last of Us”, 2016).
Lì aveva proposto un viaggio fisico dalla Tunisia all’Europa, ma che diventa spirituale dopo l’affondamento della barca. In entrambi i film ci sono tentativi di ritorno al mondo primitivo, grazie all’intervento di persone misteriose, e scenari di rivoluzioni interiori, che non si servono di ideologie basate su discorsi, ma solo su prese di coscienza, o almeno su istinti non ancora cancellati dalla cosiddetta “civiltà”. Entrambi hanno un respiro universale, pur partendo da luoghi e situazioni geograficamente collocabili. Sembrano un grido di allarme in un mondo che ha perso la dimensione assoluta della libertà. Case come caserme, città come carceri a cielo aperto, parole come schermi neri e rumori fastidiosi che producono disarmonie e conflitti.
Dialoghi Mediterranei, n. 57, settembre 2022
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Aldo Nicosia, ricercatore di Lingua e Letteratura Araba all’Università di Bari, è autore de Il cinema arabo (Carocci, 2007) e Il romanzo arabo al cinema (Carocci, 2014). Oltre che sulla settima arte, ha pubblicato articoli su autori della letteratura araba contemporanea (Haydar Haydar, Abulqasim al-Shabbi, Béchir Khraief), sociolinguistica e dialettologia (traduzioni de Le petit prince in arabo algerino, tunisino e marocchino), dinamiche socio-politiche nella Tunisia, Libia ed Egitto pre e post 2011. Nel 2018 ha tradotto per Edizioni Q il romanzo Il concorso di Salwa Bakr, curandone anche la postfazione. Ha curato per Progedit la raccolta Kòshari. Racconti arabi e maltesi (2021).
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