C’è bisogno di figure che, per la coerenza tra modo di vivere e modo di pensare e la profonda qualità sociale di tali modi, facciano riflettere criticamente sulla complessità del mondo in cui viviamo – il che vuol dire sulla totalità del mondo, sulle sue contraddizioni e sulle possibilità di superarle – e inducano ad andare oltre la dicotomia tra intelletto e prassi che sembra avere ormai strutturato la nostra forma mentis; che, insomma, suggeriscano letture dei processi storici in cui siamo immersi e vie per trasformarli non rigide ma anzi morbide, aperte all’imprevisto e all’imprevedibile, umili.
Tra questi riferimenti c’è sicuramente la figura forte e delicata di Rosa Luxemburg, la cui cifra principale è forse proprio quella della capacità di ascolto e di confronto. Così viene descritta e raccontata nel volume di Giovanni Di Benedetto, La primavera che viene. Attualità di Rosa Luxemburg (Edizioni Mimesis, 2021, prefazione di Maria Turchetto).
Scritte con lucida passione, ricche di citazioni che àncorano l’interpretazione del pensiero della rivoluzionaria polacca ai suoi testi, queste pagine costituiscono una lettura stimolante per chi coltiva il sentimento intellettuale del pensare e l’amore pratico dell’agire nella vita quotidiana. Il volume vuol essere, sì, un lavoro storiografico e una guida alla concezione del mondo e all’azione di Rosa Luxemburg come personalità delineata a tutto tondo, senza cesure tra ambito privato e ambito politico che in essa appunto non hanno cesure, ma anche e soprattutto un lavoro di riflessione su ciò che questa donna ha ancora da dire al nostro tempo, un libro, come recita il sottotitolo, sulla sua attualità.
In cosa consiste, dunque, tale attualità? Per dirla con una sola frase, delle cui parti vorrei fare il filo di questa recensione, Rosa Luxemburg ci parla perché 1. essa è «un condensato di differenze» che, 2. servendosi di una pluralità disciplinare, 3. analizza il funzionamento e le contraddizioni del capitalismo, e 4. pensa e agisce non dicotomicamente nel mondo concepito come sistema.
Le prime due proposizioni sono abbastanza semplici e le si possono chiarire sbrigativamente. Rosa Luxemburg è «un condensato di differenze» come scrive Di Benedetto, in quanto donna, ebrea, polacca, socialista, perseguitata, … socratica. E nel suo strumentario concettuale attinge, oltre che alla letteratura e alla poesia, come si ravvisa anche dai toni delle sue lettere, che infatti l’autore cita non meno dei saggi politico-economici, all’economia politica (e alla critica dell’economia politica, cioè a Marx), alla filosofia, al diritto, all’antropologia (i suoi riferimenti ai popoli ‘altri’ sono molteplici), alla botanica e alla zoologia. Basti, per questi ultimi ambiti, citare il passo, che il libro ha cura di riportare, di una lettera a Sonja Liebknecht del 2 maggio 1917:
«cosa leggo? Soprattutto libri di scienze naturali: botanica e zoologia. Proprio ieri ho letto qualcosa sulle cause della diminuzione degli uccelli canori in Germania: sono la crescente coltura razionale delle foreste e dei giardini e l’agricoltura che man mano distruggono tutte le loro condizioni naturali di nidificazione e alimentazione. [...] è l’immagine del silenzioso, inarrestabile declino di queste piccole creature che mi addolora fino alle lacrime. Mi richiama alla mente un libro russo del prof. Ziber sul declino dei pellerossa nell’America del nord, che lessi quando ero a Zurigo; anche essi furono man mano scacciati dal loro territorio dagli uomini civili e condannati ad un silenzioso, crudele destino».
Il che mostra che, in Rosa Luxemburg, l’economia politica si lega all’ecologia politica, lo sfruttamento dell’uomo e quello della natura sono due aspetti paralleli, e simultanei, dello stesso processo.
Per spiegare la terza proposizione ci vorrà maggiore spazio, perché è il cuore dell’opera della Luxemburg e su di esso l’autore del volume concentra adeguatamente la sua attenzione. Dunque, il funzionamento del capitalismo: non solo sul fronte interno, quello del modo di produzione, in cui avviene lo sfruttamento del lavoratore, l’estrazione di plusvalore dalla sua forza-lavoro, e quello del mercato in cui il plusvalore viene concretamente realizzato; ma anche sul fronte esterno, sulla «scena mondiale» (Rosa Luxemburg, L’accumulazione del capitale, 1913, trad. it. Einaudi, Torino 1980: 454), dove il capitale ha necessità di espandersi per riprodursi in maniera allargata. Il capitalismo non è solo un modo di produzione ma è anche un moto che si esercita in uno spazio geografico sempre più ampio:
«Il capitale non può fare a meno dei mezzi di produzione e delle forze-lavoro dell’intero globo; ha, per l’illimitato svolgimento del suo moto di accumulazione, bisogno delle ricchezze naturali e delle forze di lavoro di tutta la terra. (…) Ne viene il poderoso impulso del capitale ad impossessarsi di tutte le terre e di tutte le società» (ivi: 360; cors. miei).
Il capitale investe lo spazio della globalizzazione. Ma ne ha bisogno contraddittoriamente: ne ha bisogno come di un «fuori da sé» da portare «dentro di sé», da sussumere, da rendere «sé»; ne ha bisogno come di uno spazio esterno illimitato che, invece, tale non può essere – almeno all’interno del pianeta: il che, caso mai, spinge a non reputare fantascienza la ricerca di altri pianeti da sfruttare.
Ma restiamo all’oggi, che era per Rosa Luxemburg il futuro intravisto, previsto. Questa sussunzione e appropriazione dello spazio geografico avvengono sotto il segno della catastrofe – nozione che non a caso è centrale in tutto il libro: «la catastrofe come forma naturale di esistenza del capitale». Infatti, il capitale effettua la sua riproduzione allargata (spazialmente) in diversi modi, ma tutti catastrofici.
Innanzitutto, come catastrofe ambientale-coloniale. Lo abbiamo visto già nel passo della lettera a Sonja Liebknecht. Lo vediamo ancora in certe righe dell’Accumulazione del capitalismo sul colonialismo (che prima Rosa Luxemburg aveva chiamato «colonizzazione mercificante»):
«perciò il capitale persegue nei confronti dei popoli coloniali (ed è una sua condizione di vita) l’appropriazione violenta dei principali mezzi di produzione. Ma poiché le comunità sociali primitive degli indigeni sono a un tempo il più forte baluardo della società e la base materiale della sua esistenza, premessa di questa appropriazione è un’opera sistematica e pianificata di distruzione e annientamento delle comunità sociali non-capitalistiche, in cui il capitale si imbatte nel corso della sua espansione. Non siamo più, qui, nel raggio dell’accumulazione primitiva: è un processo che dura ancora ai nostri giorni» (ivi: 365).
E, aggiungo, è un processo che dura ancora dopo più di cent’anni dalla pubblicazione de L’accumulazione del capitale. Siamo ancora in presenza di un meccanismo di moto del capitalismo che è lo stesso di quello del periodo delle sue origini, e che è fatto di «violenza e rapina», perché tale moto è la sua norma, la sua normalità: c’è bisogno di ricordare la sua presenza, esattamente in termini di violenza e rapina, in Africa o in Amazzonia, con quel che esso comporta in termini di modificazioni climatiche catastrofiche planetarie (desertificazione, scioglimento dei ghiacciai, buco dell’ozono…)?
Colonialismo significa imperialismo, significa dominio bellico che, come Di Benedetto ci fa notare, Rosa Luxemburg smaschera pienamente, per esempio, citando il caso delle Americhe che, nella narrazione diffusa, «nella leggenda liberale», diventa «un’opera prometeica del genio umano e della civiltà» ma che in realtà nient’altro è che il massacro dei nativi. E da qui l’antimilitarismo di Rosa Luxemburg che le costò un processo per istigazione alla disobbedienza (e un anno di prigione) da lei rivendicato, come dice Di Benedetto, «con coraggio e a testa alta», socraticamente, come socraticamente e, oserei dire, in maniera nonviolenta accetta di scontare la pena, sdegnandosi che i giudici possano pensare che lei voglia scappare.
Sia chiaro: Rosa Luxemburg è antimilitarista ma non nonviolenta, perché, secondo lei, le guerre possono essere fatte, anche se con la precisazione «quando e solo finché la massa del popolo lavoratore o le fa con entusiasmo, perché le ritiene cosa giusta o necessaria, o almeno le sopporta pazientemente». Comunque, scrive bene Di Benedetto:
«dominazione militare e oppressione sono caratteristiche del regime di accumulazione. Oltre a rappresentare lo strumento bellico con il quale sostenere il conflitto concorrenziale con i potentati capitalistici degli altri paesi, il militarismo garantisce, attraverso lo Stato, una domanda e una possibilità d’investimento per il capitale e, dunque, condizione di un più ampio contesto per l’accumulazione».
Ma la catastrofe e la «violenza e rapina» si presentano non solo nella forma del disastro ambientale e della guerra, ma anche in quella del ‘pacifico’ rapporto commerciale-bancario. Di Benedetto, molto opportunamente, ci ricorda a questo punto la pratica del landgrabbing e il funzionamento del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale i cui Piani di Aggiustamento Strutturale prevedono prestiti finanziari agli Stati poveri dell’Africa che accettino di praticare politiche di eliminazione dello Stato sociale nell’ambito della Sanità e dell’Istruzione. È ormai evidente che davvero si tratta di socialismo (o meglio eco-socialismo) o barbarie!
Infine – e con ciò passo all’ultima proposizione della frase iniziale di queste annotazioni – Rosa Luxemburg pensa e agisce nel mondo, concepito come sistema, al di là delle opposizioni classiche: natura-società, pubblico-privato, politico-personale, teoria-pratica, organizzazione-spontaneismo, partito-massa popolare; riforme-rivoluzione. Se il superamento delle prime tre dicotomie è di fatto già stato mostrato implicitamente da quanto detto prima, a proposito delle altre tre vale la pena spendere qualche rigo, soprattutto per evidenziare alcuni aspetti che avvicinano le idee di trasformazione del mondo della Luxemburg a quelle della nonviolenza.
Rispetto alla ridislocazione teorico-pratica della coppia organizzazione-spontaneismo, basterà dire, con l’autore, che i due fattori vanno considerati non «distinti e isolati ma nel loro rapporto dialettico e, di conseguenza, come due aspetti dello stesso movimento»: insomma, nessuno dei due va assolutizzato ma ognuno va contemperato, armonizzato con l’altro.
Da ciò anche il rifiuto dell’opposizione partito-massa popolare, ma soprattutto, se è lecito presentare una scala dei (dis)valori, il rifiuto del partito che si fa «dittatura del proletariato». Le parole di Rosa Luxemburg mi appaiono molto significative e di estrema attualità:
«La vita pubblica cade lentamente in letargo, qualche dozzina di capi di partito di energia instancabile e illimitato idealismo dirigono e governano; tra loro guida in realtà una dozzina di menti superiori; e una élite della classe operaia viene convocata di quando in quando a delle riunioni per applaudire i discorsi dei capi e per votare all’unanimità le risoluzioni che le vengono proposte – è dunque un governo di cricca, una dittatura certamente, ma non la dittatura del proletariato, bensì la dittatura di un gruppo di uomini politici, una dittatura del significato borghese, nel significato giacobino (…). C’è di più: una tale situazione porta necessariamente ad un inselvatichirsi della vita pubblica: attentati, fucilazione di ostaggi ecc.» (ivi: 165, cors. mio).
Ora, perché dicevo che questo passo, di indubbio valore dal punto di vista dell’analisi e della riflessione storica, è anche di una straordinaria attualità? Capisco che la risposta può essere resa difficile dalla presenza delle prime righe e dell’ultima. Ma, se astraiamo da esse e consideriamo quelle centrali, poste in corsivo, allora forse la risposta – almeno quella che trova il sottoscritto – risulta abbastanza facile: Rosa Luxemburg sta parlando del nostro presente, quello in cui una «cricca» governa sotto la facciata democratica, sta parlando della «democratura» che, lungi dall’essere etichetta valida soltanto per paesi come la Russia (dove forse in qualche modo vale anche quanto detto negli ultimi righi), è applicabile anche al nostro sistema politico. Qui la strada alternativa che Rosa Luxemburg propone è quella della democrazia consiliare che Di Benedetto definisce il mezzo per «la trasformazione della società in senso socialista» e che a me sembra molto vicina a quella democrazia dal basso, pensata e attuata da Aldo Capitini con la creazione a Perugia, Ferrara, Firenze, Napoli, e altre città, dei Centri di Orientamento Sociale (COS), esperienze di democrazia territoriale diretta (nulla che abbia a che fare con l’odierna prospettiva del Presidenzialismo che, in qualsiasi forma possa essere realizzata, costituisce invece un ulteriore passo che allontana la reale partecipazione quotidiana della gente alla vita politica e legittima l’autoritarismo).
E qui ci sarebbe da chiedersi se il modello consiliare (e dei COS) non spinga a pensare, per l’oggi, all’opportunità di un federalismo che, rifiutando seriamente la distanza tra organi di governo e cittadini e la rigida gerarchia attualmente imperante, apra alla gestione dal basso della cosa pubblica e coniughi finalmente il pensare globalmente e l’agire localmente. Peraltro, ne accenno soltanto, il rifiuto della gerarchia è presente, in Rosa Luxemburg, anche nella sua idea di educazione e istruzione: nella sua esperienza di docente nella scuola del Partito, diede vita piuttosto ad una pratica di co-educazione, ricca di domande aperte, di cui sono testimoni diretti coloro che frequentarono le sue lezioni.
Infine, riforme-rivoluzione. Va già da sé che l’importanza assegnata alla democrazia dei Consigli non è molto compatibile con un’esaltazione della rivoluzione nella sua forma classica. Rosa Luxemburg, come mostrano diverse citazioni di Di Benedetto, la concepiva, piuttosto, come «qualcosa d’altro e qualche cosa di più che effusione di sangue»; secondo lei, quelle che credono nel fatto che basta «rovesciare al centro il potere ufficiale e sostituirlo con un paio o un paio di dozzine di uomini nuovi» sono le rivoluzioni borghesi, che in questa loro pratica lei definisce «comode», mentre bisogna «lavorare dal basso e questo corrisponde precisamente al carattere di massa della nostra rivoluzione quanto agli scopi che vanno al fondo della costituzione sociale; risponde al carattere della odierna rivoluzione proletaria che noi dobbiamo conquistare il potere politico non dall’alto ma dal basso». E su questo troviamo un’altra convergenza con il pensiero della nonviolenza, specialmente quando, ancora più esplicitamente, Rosa Luxemburg scrive il seguente passo che non può non richiamare la distinzione gandhiana tra azione ingiusta, da combattere, e persona che la compie, sempre e in ogni caso da rispettare:
«Nelle rivoluzioni borghesi spargimento di sangue, terrore, assassinio politico sono state le armi a cui hanno fatto immancabilmente ricorso le classi in ascesa. La rivoluzione proletaria per i propri fini non ha bisogno del terrore, detesta e aborre l’uccisione di esseri umani. Non ha bisogno di questi mezzi di lotta perché non combatte gli individui ma le istituzioni (…)» (ivi:180).
E altrove, con una frase in cui forse la prima espressione può suonare in contraddizione con la seconda:
«L’attività rivoluzionaria più spietata e l’umanità più generosa – questo solo è il vero respiro del socialismo. Bisogna abbattere un mondo, ma ogni lacrima versata, anche se è stata asciugata, è un’accusa; ed una persona che perseguendo uno scopo troppo importante calpesta un verme per brutale mancanza di attenzione, commette un delitto» (ivi: 199).
A questa attenzione, in cui l’azione trasformatrice si coniuga con il rispetto dell’altro e di sé in un amalgama che non separa impegno e vita, Rosa Luxemburg invita sempre, esplicitamente o implicitamente, come quando, in una lettera a Mathilde Wurm, del 28 dicembre 1916, scrive (con parole che a noi facilmente rievocano quelle del nostro Vittorio Arrigoni, ucciso nel 2011 per il suo instancabile impegno contro le ingiustizie e a favore della pace):
«Procura allora di rimanere un essere umano. Rimanere un essere umano è la cosa principale. E questo vuol dire rimanere saldi e chiari e sereni, sì sereno malgrado tutto, perché lagnarsi è segno di debolezza. (…) Con tutto il suo orrore il mondo è così bello e sarebbe ancora più bello se non ci fossero più deboli e vigliacchi» (ivi: 201).
Così, la sua è rivoluzione gioiosa che non si fa solo nell’azione politica propriamente detta ma ogni giorno, anche in prigione, in quella che Di Benedetto (spinozianamente) chiama «letizia rivoluzionaria», quella che alla Nostra fa dire, in prigione appunto: «nel buio sorrido alla vita, come se conoscessi un qualche segreto magico che smentisce ogni male e ogni tristezza e li trasforma in trasparente chiarezza e felicità»; quella anche che – non troppo diversamente da come don Milani, in una delle sue ultime annotazioni, rivolgendosi ai ragazzi di cui si era sempre curato, scrisse «Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto» – a lei, in armoniosa empatia con gli ultimi più ultimi, cioè gli esseri animati non umani, fa dire: «il mio io più intimo appartiene più alle mie cinciallegre che ai “compagni”. E non tanto perché io, come tanti politici intimamente falliti, trovi un rifugio, un riposo nella natura. Al contrario, anche nella natura trovo ad ogni passo, tanta crudeltà da soffrirne molto»: parole di una rivoluzionaria, che il libro ha il merito di renderci vicina e che chiedeva che sulla sua lapide venissero iscritte solo due parole, «zwi, zwi» – appunto il verso delle sue amate cinciallegre.
Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022
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Andrea Cozzo, docente di Lingua e letteratura greca, presso l’Università di Palermo, dove, dall’a.a. 2001-02 al 2008-2009, ha tenuto anche il “Laboratorio di teoria e pratica della nonviolenza”. Ha tenuto seminari e corsi sulla nonviolenza in scuole, associazioni e centri sociali, nonché per le Forze dell’ordine. Si occupa di storia, teoria e pratica della mediazione e gestione dei conflitti. Sulla storia della mediazione e della nonviolenza nella Grecia antica (che costituisce il suo specifico ambito di lavoro accademico) ha pubblicato i volumi: «Nel mezzo». Microfisica della mediazione nel mondo greco antico (Pisa University Press, 2014); Riso e sorriso e altri saggi sulla nonviolenza nella Grecia antica, (Edizioni Mimesis, 2018). Sulla teoria e la pratica della nonviolenza e della mediazione in ambito odierno ha pubblicato i volumi: Conflittualità nonviolenta. Filosofia e pratiche di lotta comunicativa (Edizioni Mimesis 2004); Gestione creativa e nonviolenta delle situazioni di tensione. Manuale di formazione per le Forze dell’ordine (Gandhi Edizioni 2007).
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