Circa trent’anni fa, durante una ricerca nell’area dello Zingaro, oggi rinomata riserva naturale all’estremità occidentale della costa tirrenica siciliana, ho raccolto le testimonianze degli ultimi abitanti del borgo Acci, un piccolo agglomerato di case rurali arrampicato a più di 500 metri di altitudine, ai piedi del monte Passo del Lupo. Qui vivevano fino agli anni sessanta del secolo scorso quindici famiglie, che imparentate tra di loro formavano una singolare comunità di pastori e contadini. Nel ricordo di Pietro Cusenza, allora ultraottantenne, che ha condotto tutta la sua vita «mpintu all’Acci», quel grappolo di povere case era il mondo, il migliore dei mondi possibili. Una trazzera regia era l’unica via di comunicazione che lambiva il solitario borgo, l’unico esile filo che collegava gli Accialori al paese più vicino, San Vito lo Capo, dove si andava per nascere e per morire.
Quanto più ridotto era il raggio delle loro relazioni sociali, tanto più forte e coesa era la trama delle loro reciproche dipendenze, la rete delle obbligazioni e delle mutualità che si sviluppavano all’interno del piccolo villaggio. Non è senza significato che attraverso equilibrate strategie matrimoniali si siano nel tempo stabilite tra gli abitanti di questa contrada dello Zingaro Alto significative alleanze parentali che hanno finito col fare identificare l’intero borgo con il nome di una sola grande famiglia, quella dei Cusenza. A fronte delle dure asperità della realtà ambientale, i legami di parentela hanno agito da supporto fondamentale dei rapporti di lavoro, costituendo essi stessi la base sociale ed economica di questa particolare comunità, che sui vincoli di sangue dei suoi membri ha saputo organizzare un compatto sistema produttivo pressoché autosufficiente.
A spingere i gruppi a forme strutturate di unità di produzione e di consumo era il bisogno di salvaguardare le risorse accumulate, di amministrarle con saggezza e distribuirle con equilibrio. Numerose pratiche di vita quotidiana, richiamate alla memoria dei vecchi abitanti, attestavano questa sostanziale convergenza d’interessi che favoriva gli scambi dei beni materiali e dei servizi e rinsaldava il grado di coesione delle famiglie agglomerate sotto l’autorità di un anziano. Così, per esempio, la panificazione era momento rituale e comunitario. Con regolare periodicità settimanale, in giorni fissati e concordati, ogni famiglia preparava in casa il proprio pane ma lo cuoceva in forma collettiva nei soli tre forni di cui disponeva il villaggio. Il passaggio di mano in mano del frutto più concretamente rappresentativo della vita e del lavoro contadino valeva a ribadire pubblicamente le ragioni del patto, a ritessere di volta in volta la trama delle alleanze.
Se è vero che nel consumo dei cibi, oltre che nella loro preparazione, è possibile individuare, forse più che in ogni altra vicenda umana, i valori fondanti di una comunità, si intuisce allora perché la commensalità e la convivialità fossero elementi centrali e peculiari presso il Borgo Acci. Nei giochi che avevano grande spazio nelle sere d’inverno e in occasione delle feste religiose la comunità metteva in scena se stessa. In casa di Gabriele Cusenza, la più grande del borgo dove era un torchio per la spremitura dell’uva – l’unica allora ad avere la terrazza su cui mettevano ad asciugare al sole i pomodori, la manna e il sommacco – si riunivano d’inverno, quasi ogni sera, i contadini e i pastori di Acci. Raccontavano storie, giocavano a carte, mangiavano insieme gelsi o carciofini selvatici. Per la ricorrenza di san Giuseppe accendevano le tradizionali vampe appena fuori dell’abitato e l’8 settembre di ogni anno, nel giorno dedicato ai festeggiamenti della Madonna, quando a San Vito lo Capo si celebrava la solenne processione, anche al Borgo si organizzava un’eguale cerimonia. Gabriele Cusenza, il più anziano della famiglia, era ancora una volta protagonista, al centro di un singolare rituale. In quell’occasione, infatti, allestiva un piccolo altare e lo addobbava con fiori e foglie di edera, raccolte nelle rocche di Portella di San Giovanni, a circa tre chilometri dal villaggio, con serietà e gravità d’animo s’improvvisava prete e con una veste nera femminile addosso apriva il corteo che portava in giro per le stradine del borgo l’immagine della Madonna. Lo seguivano le donne con i veli sul capo e recitanti il rosario. La cerimonia si chiudeva sempre con una vera e propria predica che lo stesso Gabriele s’incaricava di pronunciare con parole adeguate nel generale silenzio.
Non si comprende il persistente e tenace rapporto di questi uomini con il loro territorio se non si riflette su questa “catena di alleanze” che ha rappresentato il tessuto connettivo dell’ecologia contadina, se non si tiene conto dei dispositivi culturali per mezzo dei quali la comunità ha percepito e ordinato il proprio ambiente, interagendo con i diversi elementi, vitali e inerti, che lo costituivano. Laddove l’alto grado di dipendenza dalle costrizioni ambientali investiva ogni aspetto della vita, condizionando i problemi tecnici più elementari e sollecitando le più ingegnose forme di appropriazione delle risorse, modalità di relazione e modelli di rappresentazione simbolica non potevano non ispirarsi al mondo della natura, a quell’universo di animali e piante dentro il quale gli uomini restavano comunque immersi, sospesi, come impigliati, mpinti appunto.
I processi di identificazione antropomorfica che nei gesti e nel linguaggio dei pastori e dei contadini di Acci conferivano statuto umano a vegetali e animali, addomesticati e adottati come “creature” di un’unica grande famiglia, sono prove della circolarità e mutualità dei legami istituiti tra i livelli diversi della natura, e implicitamente attestano la coerente strategia di vigilanza e di protezione verso beni tradizionalmente ritenuti “doni” o “grazie del cielo”, preziosi compagni delle vicende dell’uomo, “animati” da un eguale soffio vitale e perciò bisognosi di cure affettuose e di continue premure. Il “garbo” e il “verso” dovevano guidare la mano di chi impugnava la lama per incidere i frassini o per capitozzare i rametti di sommacco. Altrimenti si sarebbe rischiato di “fare male alla creatura” e di compromettere la rigenerazione del ciclo vegetativo. Non diversamente, agnelli e vitelli ricevevano dai pastori i nomi di battesimo e un’assistenza quasi paterna, a conferma delle relazioni simbiotiche che presiedono a ogni forma di domesticamento.
Se è vero che in questo tipo di rapporti il fine ultimo dell’uomo restava pur sempre il controllo della produzione e della riproduzione delle fonti del suo sostentamento, è anche vero tuttavia che al fondo di questo disegno è possibile individuare un valore oggi indebolito che era centrale nella civiltà contadina: la lungimiranza ovvero l’attenzione e la preoccupazione costante per il futuro, a salvaguardia e a tutela di quell’ecosistema naturale che garantiva la vita. Gli stessi apparati rituali e cerimoniali, messi in atto nelle società agropastorali tradizionali per porre ogni sequenza dei cicli lavorativi entro un adeguato orizzonte protettivo, si risolvevano di fatto in un articolato sistema di difesa dell’equilibrio ambientale, nel mantenimento funzionale di quelle condizioni che favorivano il rigenerarsi periodico delle energie creative e produttive.
Il senso complessivo di queste vicende configura l’immagine del Borgo Acci quale originale microcosmo entro il quale ciascuno dei suoi abitanti ha contribuito alla costruzione di un regime di vita umile e appartata e, nella nostalgia della memoria, poeticamente armoniosa e felice, come il regno idillico del falansterio sognato alle soglie dell’Ottocento dal filosofo Charles Fourier, il mitico villaggio di uomini uguali e solidali. A questo mondo e a queste pratiche, forse impareggiabili e definitivamente consegnati alla storia, ho ripensato leggendo il libro di Mario Cecchi, Ritorno alle origini. L’esperienza degli elfi (9cento edizioni Pistoia 2021), il racconto di una vita, la testimonianza di un impegno, la denuncia di una catastrofe, il manifesto di una profezia antropologica, di un progetto politico, etico e civile. Un po’ pamphlet e un po’ appello, un po’ documento autobiografico e un po’ riflessione filosofica. Un mosaico di testi e un puzzle di materiali allegati di atti, articoli, volantini, disegni, fotografie, comunicati e discorsi pubblici che aprono uno squarcio su un mondo poco conosciuto, su un’umanità separata, remota e contemporanea, sul popolo della Madre Terra, su una tribù del nostro tempo che abita da oltre quarant’anni nel territorio di Sambuca Pistoiese e più recentemente nei pressi di Montevettoli. Una comunità operosa e rispettosa dell’ambiente, pacifista e conviviale, ma per la sua alterità nei costumi e negli stili spesso oggetto di pregiudizi, di ostilità e diffidenze.
Un libro, quello di Cecchi, la cui originalità è speculare ad una vita originale, a scelte radicali e coerenti, a schietti sentimenti e forti convincimenti. L’autore è protagonista di un racconto ispirato ad affezione per il creato e indignazione per «l’antropocentrismo egocentrico dell’essere umano moderno». Dalle sue passioni e dalla sua adesione alla vita e allo spirito della Terra muove la denuncia della bulimia consumistica, dell’inutile e affannosa competizione alla ricerca del surplus, dei modelli predatori destinati a privatizzare e mercificare i beni comuni, degli sprechi e delle speculazioni che sono causa degli squilibri territoriali e dei rovinosi mutamenti climatici. Mario Cecchi e gli elfi praticano il baratto, rifiutano la moneta, condividono i mezzi di produzione e gli stessi prodotti della terra, costituiscono famiglie allargate, fanno nascere, crescere e istruire i bambini a casa, autocostruiscono le loro abitazioni più spesso restaurando e riabitando quelle abbandonate, sono privi di elettricità (tv e pc compresi) e si avvalgono del sole e del fuoco per riscaldarsi, si vestono con abiti da loro stessi tessuti e colorati, si affidano alla farmacopea delle piante selvatiche per guarire dalle malattie, gestiscono ruoli e funzioni nella autosufficienza economica, nella parità dei rapporti tra i sessi e nell’eguaglianza tra gli uomini e tra gli uomini e la natura. Ma non sono gli ultimi primitivi né sono custodi della memoria di un passato rurale inimitabile e irripetibile, sono piuttosto pionieri di un futuro non immaginario, di un’alternativa possibile, di un’utopia necessaria.
A tenere insieme questa microsocietà e a sostenere questo progetto di vita sono una filosofia e un’etica che hanno i tratti di una religione, di una sorta di panteismo con al centro la Madre Terra e l’universo inteso come energia, in forma di flussi che ci attraversano in continuo divenire, per cui «siamo tutt’uno con la realtà animica della Terra e ci connettiamo con essa diventando co-creatori della realtà». Concetti e pensieri ben riassunti nelle conclusioni del libro:
«La realtà – scrive Mario Cecchi – si percepisce, non la si vede. Ciò che appare è solo un’illusione, ci confonde e ci distoglie dalla realtà vibrazionale delle onde, delle informazioni che ci provengono dai raggi del sole, dall’intelligenza cosmica, che è la sua manifestazione. Queste frequenze sono più che mai concrete, occorre affinare la nostra sensibilità emotiva per sintonizzarci. Questo è il messaggio che voglio dare dicendo che occorre tornare alle origini, poiché noi proveniamo da lì, dalla forza dell’Amore che da sempre è il propellente magico dell’universo».
Non sono oscure né ininfluenti le origini di filosofie orientali di queste affermazioni, vi sentiamo l’eco di culture e ideologie che hanno attraversato i movimenti giovanili degli anni settanta, dal new age ai gruppi dei beat generation, degli hippy e dei Figli dei fiori, fino ai culti mistici ed esoterici. Più espliciti sono i richiami alle rappresentazioni dei nativi americani, dei popoli alternativi Arcobaleno, delle comuni d’ispirazione politica e delle associazioni ambientaliste come Amici della Terra o Legambiente.
Dalla consapevolezza maturata da quelle esperienze o sperimentazioni di vita collettiva mediate dalle letture di Latouche sulle decrescite più o meno felici, gli elfi non si sentono più «gli utopici hippy avventurieri fuori dal mondo e dalla storia, ma un baluardo di resistenza culturale, umana e naturalistica che incarna il bisogno della terra e del genere umano per una riconciliazione», sono promotori di antagonismi politici e protagonisti di sistemi di rete che nella dimensione olistica della Natura si ritrovano a cercare, insieme alle altre comunità intenzionali sparse in Italia e associate nella Rete degli ecovillaggi, le strategie per sviluppare la protezione delle biodiversità e un rapporto equilibrato e sacro con la Terra, bene comune da salvaguardare nell’ottica di un’agricoltura davvero biologica ed ecologica. Da qui i conflitti con i cacciatori, le criticità negli approcci con le burocrazie delle istituzioni, le incomprensioni con altre realtà locali, le rivendicazioni del diritto agli usi civici agro-silvo-pastorali. Le battaglie intraprese per l’affermazione di questa terza forma di proprietà, non più privata né pubblica ma collettiva e pienamente legittima nell’ordinamento legislativo del nostro Paese, sono senz’altro valse a scrivere la pagina più originale della storia degli elfi, interpretando le istanze di quanti progettano modelli di democrazia sulla base della costituzione di nuove demanialità civiche e della reintroduzione di antiche comunanze, ovvero della riappropriazione dei beni comuni, come l’acqua, l’aria, la casa, la terra. Temi questi di grande attualità nel dibattito sulle questioni connesse ai modi possibili di riabitare l’Italia delle aree interne spopolate e degradate.
L’opera d’insediamento degli elfi in luoghi raggiungibili dal fondovalle soltanto da strade sterrate e sentieri di montagna e più recentemente nella propaggine di Avalon in collina nel Comune di Montevettolini, ha infatti il merito di rivitalizzare contrade abbandonate, di ridare valore e futuro a patrimoni architettonici in rovina, a siti naturali negletti, a mestieri, attività e tecniche di lavoro dismessi. Il recupero di oggetti riciclati e reinventati per un nuovo destino, la riscoperta di materie povere e ancora utili, la tendenza a salvare e riparare le cose dall’immensa risacca del loro consumo, non meno che l’impiego di energie rinnovabili e sostenibili, sembrano anticipare pratiche, abitudini e saperi di una ecologia della vita che dialoga con le emergenze del nostro presente. Le medesime istanze sono, tra l’altro, rappresentate in un piccolo e prezioso libro pubblicato di recente, sotto il titolo di Frugalità (Il Poligrafo 2022), a cura di Antonietta Iolanda Lima, ove sono tracciate dai diversi autori le ragioni profonde di un’etica della sottrazione e di una riconversione frugale del nostro modo di pensare, di produrre e di abitare. Ipercrescita e desertificazione sono paradossalmente gli effetti congiunti di un processo che nel distruggere paesaggi, paesi e territori rischia di compromettere la natura e la cultura della stessa democrazia, delle forme associate di convivenza.
Singolari e cerimoniali sono le forme di gestione della democrazia interna alla comunità degli elfi descritte nel libro da Mario Cecchi, una organizzazione degli incontri collettivi e delle facoltà decisionali informata alla dimensione spirituale delle relazioni sociali e della visione del mondo. A guidare e regolare la partecipazione alle assemblee sono materialmente e simbolicamente il cerchio e il bastone: il primo indica la disposizione circolare e orizzontale dei partecipanti, «equidistanti dal centro, dove risiede il potere, l’invisibile, il Grande Spirito, il Grande Mistero». Il bastone che gira di mano in mano, così che «la verità si tinge di mille sfumature», conferisce il diritto di parola e di voto a chi lo impugna secondo un regolamento non privo di norme formali che prevedono le figure del facilitatore, dell’addetto al verbale, dei “guardiani del tempo”, “della porta”, e perfino “dell’umore”. Una nomenclatura meticolosa fissata per statuto che in qualche modo stride con l’architettura del sacro in cui si celebra la concezione politica degli elfi, rivelando non solo la necessità di strutturare e disciplinare le tensioni spontaneistiche e le dinamiche interne alla comunità, ma anche le oggettive difficoltà ad attuare quella ideale sociocrazia basata sulla piena condivisione delle decisioni e sulla democratica acquisizione del consenso.
Le pagine più interessanti e più convincenti sono quelle in cui l’autore racconta delle sue personali vicende, del suo percorso di fondazione della comunità, dei suoi ricordi familiari. Alle origini delle sue scelte c’è il rapporto con il nonno contadino, la sua infanzia in campagna negli anni cinquanta, le giornate cadenzate dal ritmo eguale del sorgere e del tramontare del sole, le sere con l’illuminazione a candela lo sfoglio del granoturco o il rosario per qualche morto in un casolare distante qualche ora di cammino a piedi. Nella fatica del lavoro il nonno, che aveva ereditato dal padre un podere di sei ettari in collina, gli ha insegnato ad attingere l’acqua dal pozzo con un elementare sistema di ingegneria meccanica che sfruttava il principio della leva di Archimede. Lo ha iniziato a riconoscere le erbe selvatiche, ad apprezzare la bellezza dei frutti di stagione e dei cibi naturali. Lo ha educato all’arte del vivere avendo quanto basta: «una mucca, una capra, un maiale, delle galline e un orto». Ispirandosi alla lezione del nonno, non molto diversa da quella incarnata dagli abitanti del borgo Acci, Mario Cecchi, dopo le esperienze politiche del 68 tra gruppetti extraparlamentari «che si facevano la guerra tra di loro», è tornato alla terra, ha sentito il bisogno di esercitare la disobbedienza civile combattendo l’orgia consumistica e le logiche del mercato responsabili del degrado socio-ambientale delle campagne, dove «finito il tempo delle lotte, oggi è il tempo delle quote». In questo impegno si è fatto guida spirituale e carismatica del popolo degli elfi senza essere capo di nessuna struttura gerarchica.
Nel lessico il libro tradisce un amalgama di culture impastate di spiritualismo e neoromanticismo, di utopie rivoluzionarie e antropologie neorurali, di residuali magismi e sguardi profetici, di nostalgie anarchiche e ideologie animiste. Si leggono in controluce accenti francofortesi, echi delle tesi di Ivan Illic sulla descolarizzazione e sulla convivialità della società, citazioni involontarie delle pagine di un classico del pensiero libertario, Walden di Henry D. Thoreau e di altre tratte da esperimenti “illuminati” dell’Ottocento e dai disegni universalistici di emancipazione umana. Costituiscono valori di riferimento le parole d’ordine di una visione ecologica olistica che ibrida l’agricoltura tradizionale quale baluardo di vera biodiversità con quella biodinamica secondo la quale la posizione e il movimento degli astri influirebbero sulla “energia vitale” della materia e quindi di terreni, piante e frutti. Il mondo irenico e felice vagheggiato dagli elfi e, a volte, invocato come estremo e sicuro riparo dalle minacce dell’altro mondo “corrotto” e infelice, sembra per alcuni aspetti palesare i caratteri di una “purezza” elitaria, di un rigorismo settario che rischia di assimilare l’identità all’identicità. Nelle reiterate invettive contro “il sistema” traspare qualche sgradevole cedimento alle teorie del complottismo, del negazionismo e del pregiudiziale sospetto nei confronti del «tecnofascismo scientista sanitario», una definizione estremistica che stigmatizza la medicina allopatica o convenzionale e soprattutto l’uso dei vaccini contro la pandemia. Una posizione antiscientifica da cui, nella prefazione, Luca Bertinotti da clinico non può non prendere le distanze.
Ci sono ridondanze e ingenuità, affermazioni semplicistiche e passaggi retorici nel racconto di Cecchi sul mondo degli elfi. E tuttavia al di là e al di sopra della scrittura c’è l’esempio di una vita, la testimonianza di una passione, il valore di un’esperienza davvero straordinaria, che in quanto fuori dell’ordinario ha qualcosa da insegnarci, come provocazione progettuale, esortazione emozionale, sollecitazione culturale. Dice bene Pietro Clemente nella postfazione del libro che va letto – scrive –«sia come la storia di una vita che è diventata storia di una comunità innovativa e controcorrente, sia come racconto di una comunità che, ispirata al rifiuto della società consumista, ne pratica un momento alternativo, costruendo una forma attuale di nuova comunità “nativa” con una propria fisionomia antropologica». La sperimentazione vissuta in prima persona di una ricerca interiore di sé nel particolare rapporto con gli altri e con la natura si traduce nel racconto in una creativa proposta culturale che nel ritorno alla terra indica la via d’uscita dalla tirannia del capitalismo e dell’antropocentrismo, rispondendo probabilmente anche alla “voglia di comunità” di cui ha scritto Zygmunt Bauman.
A Mario Cecchi sembrano essere indirizzate le parole che lo scrittore e poeta Henry D. Thoreau ha scritto nel noto libello La disobbedienza civile: «Sole opere valide sono quelle che si compiono a spese di tutta la vita». La sua opera che si identifica nella sua stessa nuda esistenza in una concezione totalizzante non è marginale né irrilevante ma è potente modello di soggettività e agentività che si iscrive nel contesto delle enormi sfide del mondo contemporaneo, nel cambio di paradigma che l’attuale drammatica crisi ambientale ci impone. Il suo lavoro a difesa dei diritti della Terra nel nome di una sorta di neoumanesimo ecologista è prezioso patrimonio di progettualità e di speranze in un ordine sociale più solidale e più giusto. Investire di una potenza sacra le connessioni degli uomini con la natura come l’esperienza degli elfi suggerisce può essere una via da percorrere, nella consapevolezza che in una dimensione laica del sacro una qualche fede è sempre e comunque precondizione di ogni conoscenza, sta alle radici di ciò che percepiamo, diciamo e facciamo, e accoglierla senza ottusità e senza pregiudizi significa in fondo assumerne tutte le responsabilità verso noi stessi e verso gli altri.
A pensarci bene, poi, di questo intimo credere – in qualcosa di inviolabile e intangibile nelle azioni come nelle relazioni – era fatto il sentire collettivo dei contadini e dei pastori del borgo di Acci, l’orizzonte di senso del loro modo di stare nel mondo: nei loro saperi si innervavano per eredità generazionali le strategie ecologiche tradizionali, le sperimentate pratiche di adattamento e di adeguamento ai cicli biologici degli animali e delle piante che abitavano il medesimo microcosmo esistenziale. Gesti, simboli e valori di una cultura di cui oggi abbiamo disperato bisogno e che facciamo fatica a riconoscere, recuperare e insegnare.
Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022
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Antonino Cusumano, ha insegnato nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo. La sua pubblicazione, Il ritorno infelice, edita da Sellerio nel 1976, rappresenta la prima indagine condotta in Sicilia sull’immigrazione straniera. Sullo stesso argomento ha scritto un rapporto edito dal Cresm nel 2000, Cittadini senza cittadinanza, nonché numerosi altri saggi e articoli su riviste specializzate e volumi collettanei. Ha dedicato particolare attenzione anche ai temi dell’arte popolare, della cultura materiale e della museografia. È autore di diversi studi. Nel 2015 ha curato un libro-intervista ad Antonino Buttitta, Orizzonti della memoria (De Lorenzo editore). La sua ultima pubblicazione, Per fili e per segni. Un percorso di ricerca, è stata edita dal Museo Pasqualino di Palermo (2020).
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