Nel novembre 2020, con l’elezione di Joe Biden a Presidente degli Stati Uniti, una frazione della città di Messina è balzata agli onori della cronaca. Si è infatti venuto a sapere che la first lady a stelle e strisce è originaria del piccolo Villaggio Gesso, sito a una quindicina di chilometri a nord-ovest dal capoluogo peloritano [1]. Nella seconda metà del XIX secolo, un nucleo piuttosto consistente di gessoti partirono infatti alla volta del New Jersey andando a costituire, nella cittadina di Hammonton, una comunità coesa e aggregata: un interessante case study che attirò le attenzioni di Emily Fogg Mead, madre della celebre antropologa Margaret, la quale dedicò alla comunità ibbisota l’interessante saggio The Italian on the Land: A Study in Immigration, ospitato nel maggio 1907 dal «Bulletion of the United States Bureau of Labor»[2]. Tra i numerosi emigranti si annoverava anche la famiglia Giacoppo, alla quale appartennero i bisnonni di Jill Tracy Jacobs (americanizzazione del cognome originario), moglie per l’appunto del Presidente americano.
Prima che venissero scoperte le radici di Lady Biden, la stragrande maggioranza della stessa popolazione siciliana disconosceva l’esistenza della frazione Gesso. Eppure, un motivo valido per fare una visita in questo luogo ci sarebbe… ed esiste ormai da oltre venticinque anni. Al di là delle prelibatezze enogastronomiche e del clima reso ideale dall’essere contemporaneamente in altura ma a due passi dal mare; oltre al panorama incantevole che offre allo sguardo la meraviglia delle isole Eolie, dal dicembre 1996 Gesso ospita un museo che è, al tempo stesso, anima e materia della cultura del territorio peloritano e della relativa identità dei luoghi.
Il Museo Cultura e Musica Popolare dei Peloritani, realizzato e diretto dall’etnomusicologo Mario Sarica, allievo di Roberto Leydi e ancora oggi principale animatore delle relative attività, si innesta all’interno di una ricca e prestigiosa tradizione museografica che, nell’Isola – come è noto – va fatta risalire all’instancabile opera messa in atto da Giuseppe Pitrè nei decenni a cavallo tra Otto e Novecento; successivamente ripresa e attualizzata negli anni trenta da Giuseppe Cocchiara, il quale recuperò le collezioni pitreiane, dando loro nuova forma e consistenza presso il Museo Etnografico Siciliano sito all’interno del Parco della Favorita di Palermo. Ma la Sicilia è anche la regione della Casa-Museo Antonino Uccello di Palazzolo Acreide, così come del Museo Internazionale delle Marionette, fondato da Antonio Pasqualino e Janne Vibaek, ma anche dell’Ecomuseo intercomunale dei luoghi del lavoro contadino e dell’artigianato di Buscemi, ideato da Rosario Acquaviva, e del Museo Regionale delle Tradizioni Silvo-Pastorali ‘G. Cocchiara’ di Mistretta, inaugurato nel 2007 sotto la direzione di Sergio Todesco.
Lo sforzo di Sarica – e dell’Associazione Culturale Kiklos, che negli anni ne ha supportato le iniziative – ha pertanto rinvigorito una già corposa e valida tradizione, attraverso quello che si configura a tutti gli effetti come un “racconto etnografico” elaborato, sul finire dello scorso secolo, mettendo insieme testimonianze materiali e immateriali che, nel loro substrato esperienziale e di conoscenze, custodiscono al loro interno tutta la fabrilità di uomini e donne, per secoli portatori di un patrimonio di saperi e di capacità oggi rappresentati all’interno del museo. Sarica, dunque, ci dona questo scrigno di testimonianze, in cui materialità e immaterialità si fondono nelle collezioni museali, comprendenti una polifonia di voci e di suoni, di memorie e di ricordi, di suggestioni estetiche e poetiche, di rassegne identitarie e di politiche della salvaguardia.
La tradizione agro-silvo-pastorale del territorio messinese – dal litorale costiero all’entroterra dei Peloritani, sino a ricomprendere l’areale montano dei Nebrodi – è così magistralmente rappresentata dalla presenza di manufatti della cultura contadina, marinara e agropastorale. Dagli oggetti di lavoro alle maschere rituali, dagli abiti della tradizione contadina locale agli immancabili pupi siciliani, dai numerosissimi strumenti musicali alle fotografie, dai documenti didattici di supporto ai dispostivi multimediali e ipertestuali, fino alla biblioteca: tutto appare curato nei minimi dettagli per dar voce e continuità a una tradizione di pastori-suonatori, zampognari, cantori e incisori che, proprio nell’area dei Peloritani, ha garantito e continua a garantire una forma incessante di trasmissione intergenerazionale. E proprio in tal senso si inserisce il ruolo assunto dal laboratorio, annesso al museo, dedicato all’insegnamento delle tecniche di costruzione della zampogna e del flauto di canna.
A celebrare i venticinque anni di attività del Museo Cultura e Musica Popolare dei Peloritani, da qualche mese è disponibile un volume, dal titolo Un racconto lungo 25 anni [3], contenente ben 78 testi elaborati da altrettanti autori appartenenti a eterogenei ambiti disciplinari o istituzionali. Tra questi, annoveriamo anche la presenza di alcuni etnoantropologi come Mario Bolognari, Antonino Cusumano, Luigi Lombardo, Domenico Staiti, Giuliana Fugazzotto, Mauro Geraci, Rosario Perricone, Orietta Sorgi e Sergio Todesco. Inoltre, si registra anche l’apporto di architetti, ingegneri, bibliotecari, giornalisti, musicisti, medici, storici, museografi, cultori di tradizioni popolari (tra i quali il compianto Franz Riccobono), oltre alla scrittrice messinese Nadia Terranova. Il volume, la cui lettura è resa agile dalla brevità dei singoli contributi, offre pertanto la possibilità di una prima ricognizione virtuale nei luoghi del Museo ed evidenzia il ruolo esercitato dalla collezione di strumenti musicali, capace di passare in rassegna una varietà molto estesa di tipologie: zampogne e flauti di canna, tamburelli, fisarmoniche, organetti, conchiglie [4], scacciapensieri, mandolini, violini, chitarre ecc.
La musica popolare, dunque, anche grazie al ricchissimo patrimonio di documenti audio e al succitato ruolo esercitato dal laboratorio di costruzione di strumenti aerofoni, costituisce il vero nucleo centrale del Museo di Villaggio Gesso che, pertanto, ospita al proprio interno la più importante ed eterogenea raccolta etno-organologica di tutta la regione. In tal senso non si può non concordare con il giornalista Vincenzo Bonaventura, quando afferma che Sarica, attraverso la propria attività di ricerca, raccolta e salvaguardia è stato in grado di «salvare dall’oblio tradizioni musicali, che altrimenti sarebbero andate perdute, conservandole in registrazioni musicali (…), alla base poi di tante delle sue pubblicazioni scientifiche». L’ultradecennale opera compiuta da Sarica, così, si colloca – pur nella propria autonomia di pensiero e di azione – a metà strada tra quelle svolte da Antonino Uccello e da Ettore Guatelli. Come Uccello, infatti, la base di tutto pare condensata nell’attenzione rivolta alle musiche e ai canti della tradizione: è noto come l’insegnante originario di Canicattini Bagni, iniziò la sua opera sin dal 1959 concentrandosi sulle musiche popolari della Brianza, dove si era trasferito per insegnare nelle locali scuole elementari [5]. Successivamente, mise a frutto l’esperienza accumulata in Lombardia, per perfezionare la propria attività di raccolta nell’area della Sicilia sudorientale – coadiuvato, tra gli altri, da giovani ma validissimi collaboratori, tra i quali il cantautore e studioso di canti e musiche tradizionali Carlo Muratori. Fu nell’area degli Iblei, infatti, che diede compimento alla propria attività etnomusicologica, divenendo, nell’Isola, un vero e proprio pioniere della disciplina [6]. Tutto questo, senza mai disdegnare una certa attenzione per le testimonianze della cultura materiale, attorno alle quali creerà quella straordinaria opera di museografia etnoantropologica rappresentata dalla Casa-Museo di Palazzolo Acreide (SR) [7].
D’altra parte, alla stregua di Ettore Guatelli, autore dell’inimitabile Museo della civiltà contadina di Ozzano Taro (PR)[8], Mario Sarica ha dato vita a un museo della vita quotidiana, in cui è il racconto che si cela dietro la vita di ciascun oggetto a costituire il reale elemento di interesse delle collezioni esposte. Un museo in cui l’accoglienza del visitatore si traduce nella possibilità – per lo stesso – di effettuare un’esperienza immersiva nel mondo agro-pastorale, contadino e marinaro delle popolazioni dell’area peloritana. In tal senso, e facendo riferimento alle sole collezioni etnomusicologiche, il Museo Cultura e Musica Popolare dei Peloritani «si propone – scrive Domenico Staiti – come luogo di esposizione dialogica, al quale gli attuali interpreti delle tradizioni musicali locali contribuiscono con apporto di conoscenza e con strumenti musicali e oggetti sonori da loro costruiti, e continuano ad animarlo con incontri, seminari, concerti nel corso dei quali le loro competenze vengono condivise con la comunità locale e con gli utenti».
Il processo di patrimonializzazione insito nel Museo peloritano costituisce pertanto la rappresentazione fisica delle istanze comunitarie espresse non solo dalle culture agro-pastorali e contadine delle aree interne, ma anche da quelle marinare della fascia costiera: «il Museo Cultura e Musica Popolare dei Peloritani – osserva Antonino Cusumano – non solo ha una comunità che lo cura come casa e come riparo domestico ma è comunità, di fatto tende a farsi comunità, nella costruzione di un orizzonte di senso intorno ai simboli custoditi dentro le cose che conserva». Benché sorto nel 1996, il Museo risponde dunque a istanze successivamente istituzionalizzate dalla Convenzione sulla Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale, approvata dall’Unesco nel 2003, all’interno della quale viene posto l’accento non tanto sulla singola manifestazione culturale in sé quanto piuttosto sul patrimonio di saperi e di conoscenze trasmesso di generazione in generazione e ricreato dai gruppi umani nell’interazione con l’ambiente e la propria storia: «per “patrimonio culturale immateriale” s’intendono le prassi, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, il know-how – come pure gli strumenti, gli oggetti, i manufatti e gli spazi culturali associati agli stessi – che le comunità, i gruppi e in alcuni casi gli individui riconoscono in quanto parte del loro patrimonio culturale. Questo patrimonio culturale immateriale, trasmesso di generazione in generazione, è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi in risposta al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia e dà loro un senso d’identità e di continuità, promuovendo in tal modo il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana» [9].
Per certi versi, pertanto, il ruolo del Museo di Mario Sarica si configura come una sorta di presidio posto a tutela e salvaguardia di un patrimonio materiale e immateriale che altrimenti correrebbe il rischio di essere risucchiato nell’oblio della contemporaneità [10]. Grazie al ruolo assunto dall’associazionismo e dalla presenza della comunità locale, alle spalle del Museo Cultura e Musica Popolare dei Peloritani si consolidano e perpetuano narrazioni e racconti, in una rara e meritoria opera di trasmissione intergenerazionale della cultura dei luoghi, così come posto in evidenza sia da Mario Bolognari che da Mauro Geraci, all’interno dei rispettivi contributi: «gli strumenti musicali catturano la curiosità dei giovani, propensi sempre a dare ascolto alla musica nel mondo d’oggi, scoprendo che essa non è un’arte contemporanea, ma un’arte con una storia millenaria fatta anche di percorsi popolari intensi, ritualmente e simbolicamente decisivi nel comprendere la musica d’oggi» (Bolognari); «nel corso di questi venticinque intensissimi anni, (…), il Museo s’è via via trasformato da museo degli strumenti musicali a museo teso a rappresentare l’intera cultura peloritana» (Geraci).
Nel corso degli anni, il Museo peloritano ha mostrato un volto proattivo, grazie al quale è stato in grado di anticipare tendenze e precorrere quelli che oggi sono divenuti gli spazi vitali della stessa museografia demoetnoantropologica: «pensato fin dal suo sorgere non come asettico luogo di raccolta di oggetti morti, strappati al loro passato e riproposti quali muti lacerti di un’Arcadia perduta, bensì come attivo laboratorio in perenne e dinamico divenire sonoro, musicale, performativo, in cui le culture agro e silvo-pastorali siciliane tornano a rivendicare la loro persistente vitalità, la loro capacità di fornire (…) orizzonte di senso», così scrive Sergio Todesco nel suo contributo al volume. Osservazioni confermate e ribadite da Orietta Sorgi: «il Museo ha intrapreso negli ultimi anni un rapporto di scambio e collaborazione con tutti gli artigiani suonatori che volentieri si prestano a realizzare strumenti musicali della tradizione e a eseguire nuovi repertori. Iniziative come quelle delle mostre-concerto hanno avuto il grande merito di far conoscere e richiamare il pubblico su repertori e musiche che da un lato si ispirano al passato, ma dall’altro sperimentano nuove forme musicali».
Per tutte le ragioni che si è tentato di sintetizzare, oggi il Museo Cultura e Musica Popolare dei Peloritani pare rispecchiare le indicazioni poste dalla rinnovata definizione di museo proposta, accolta e ratificata dall’ICOM – International Council of Museums – durante la riunione tenutasi nello scorso agosto a Praga: «il museo è un’istituzione permanente senza scopo di lucro e al servizio della società, che effettua ricerche, colleziona, conserva, interpreta ed espone il patrimonio materiale e immateriale. Aperti al pubblico, accessibili e inclusivi, i musei promuovono la diversità e la sostenibilità. Operano e comunicano eticamente e professionalmente e con la partecipazione delle comunità, offrendo esperienze diversificate per l’educazione, il piacere, la riflessione e la condivisione di conoscenze».
Luogo esperienziale per antonomasia, il museo si configura, in definitiva, come espressione e sintesi di istanze comunitarie che – laddove risolte – consentono una vera e propria opera di engagement in favore di una rivitalizzazione territoriale che passi anche attraverso attività di tutela, salvaguardia e valorizzazione di patrimoni culturali altrimenti costretti al silenzio e alla polvere. Mario Sarica, con la sua passione, la sua caparbietà, ha provato – e, a mio avviso, è pienamente riuscito – a dar voce a una comunità numericamente esigua ma desiderosa di esprimere il proprio spirito identitario secondo modalità e forme che, finalmente, anche le più generazioni più giovani stanno mostrando di comprendere e apprezzare. Sono queste le ragioni per cui il senso dei musei etnografici contemporanei viene continuamente riplasmato e rinnovato, le ragioni per cui le tante piccole strutture museali presenti sul territorio meritano quella giusta attenzione che, nonostante risorse spesso risicatissime, il pubblico mostra di apprezzare.
Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022
Note
[1] La toponomastica del luogo si lega, evidentemente, «al ricordo della produzione dei leganti da presa a base gessosa estratti dai terreni intorno al paese. Gesso è esso stesso un piccolo Museo diffuso, se si riescono a ritrovare ancora i vecchi resti delle “calcare” di combustione che trasformavano i gessi affioranti – previa cottura – nei derivati semi-idrati da utilizzare nell’industria edilizia» (Maurizio Triscari, “La ‘vertigine’ della lista di oggetti che ti avvolgono, stimolando sensazioni e ricordi”, in Mario Sarica, a cura di, Un racconto lungo 25 anni, Pungitopo, Gioiosa Marea 2022: 172-175.
[2] Lo studio di Emily Fogg Mead è stato di recente presentato da Marcello Sajia: “Rileggendo Emily Fogg Meade e il caso dei siciliani di Hammonton”, in «Dialoghi Mediterranei», 44, luglio 2020.
[3] Mario Sarica, a cura di, Un racconto lungo 25 anni, Pungitopo, Gioiosa Marea 2022.
[4] Nell’area dello Stretto di Messina si registra il secolare utilizzo della cosiddetta ‘brogna’, tromba di conchiglia spiraliforme, dalle ipertrofiche dimensioni, che veniva utilizzata in ambito marittimo come segnalatore di posizione, specie durante le giornate contraddistinte da quel particolare fenomeno atmosferico noto come lupa, anomala forma di conformazione nebbiosa sul mare. Ancora oggi, la brogna è oggetto di attenzione e di uso comune in ambito etnomusicologico.
[5] Roberto Valota, a cura di, Musiche tradizionali in Brianza. Le registrazioni di Antonino Uccello (1959, 1961), con CD audio, Squilibri, Roma 2016.
[6] Gaetano Pennino, a cura di, Antonino Uccello etnomusicologo. Documenti sonori degli Archivi di etnomusicologia dell’Accademia di Santa Cecilia, con introduzione di Giorgio Adamo e un saggio di Sergio Bonanzinga, Regione Siciliana – Assessorato dei Beni culturali e ambientali e della Pubblica istruzione, Palermo 2004.
[7] Antonino Uccello, La casa di Icaro, Pellicanolibri, Catania 1980; Sergio Todesco, La museografia militante di Antonino Uccello. Riflessioni a vent’anni dalla morte, in «Archivio Storico Messinese», 78, 1999: 101-126.
[8] Pietro Clemente – Mario Turci, Ritorno al museo “Ettore Guatelli”, in «AM – Antropologia Museale», III, 6, inverno 2003-2004: 40-53; Pietro Clemente, Ettore Guatelli: un profilo, in «Lares», LXXI, 2, maggio-agosto 2005: 339-342.
[9] Unesco, Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, 17 ottobre 2003, art. 2.
[10] Cfr. Alessandra Broccolini – Pietro Clemente – Lia Giancristofaro, a cura di, Patrimonio in ComunicAzione. Nuove sfide per i Musei DemoEtnoAntropologici, Edizioni Museo Pasqualino, Palermo 2021.
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Alessandro D’Amato, dottore di ricerca in Scienze Antropologiche e Analisi dei Mutamenti Culturali, vanta collaborazioni con le Università di Roma e Catania. Oggi è funzionario demoetnoantropologo presso il Ministero della Cultura. Esperto di storia degli studi demoetnoantropologici italiani, ha al suo attivo numerose pubblicazioni sia monografiche che di saggistica. Insieme al biologo Giovanni Amato ha dato alle stampe il volume Bestiario ibleo. Miti, credenze popolari e verità scientifiche sugli animali del sud-est della Sicilia (Editore Le Fate 2015). Ha curato il volume Cocchiara e l’Inghilterra. Saggi di giornalismo etnografico (Dipagina edizioni, 2015). L’ultima sua pubblicazione è un contributo al volume collettaneo Il carrubo è l’uomo (edizioni Abulafia, 2022).
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