Niente è più difficile che conciliare gli inconciliabili. E quando ci si prova, come col bianco e il rosso d’uovo, la maionese che ne risulta non è più né l’uno né l’altro. Eppure accade regolarmente, come per l’asciutto e il bagnato, che dà l’umido. Per la salute e la malattia, da cui spesso risulta l’umana fragilità. Non stiamo facendo esempi banali, come vedremo più in là. Ma alcuni elementi non consentono soluzioni onorevoli: quando l’acqua e il fuoco si combattono, o prevale l’una o vince l’altro. Non si danno vie di mezzo.
La politica, viceversa, è l’arte del compromesso. Un’alleanza fra antagonisti in vista di un obiettivo accettabile per entrambi ne placa la lotta e offre spunti per il futuro. Gaetano Azzariti, insigne costituzionalista, ha testé scritto su “Il Manifesto” del 7 ottobre che «non si è mai conclusa una guerra senza un’equilibrata intesa tra le parti». Non ne siamo molto convinti. Forse ha inteso dire che nessuna guerra, che non abbia annientato l’avversario, si è mai conclusa così. La Seconda guerra mondiale ha disintegrato la Germania nazista e il Giappone imperialista. La guerra di Troia docet. Le guerre civili (Spagna, Russia, Libia ad esempio) raramente hanno lasciato sopravvissuti di spicco fra gli sconfitti.
Poi ci sono le guerre che si concludono apparentemente con un accordo: spesso sono tregue camuffate da pace, che dura fino alla puntata successiva. Così fu per la Prima guerra mondiale. Così è per la maggior parte delle guerre degli ultimi due secoli: i contendenti alla fine, dopo tremendi bagni di sangue, si sono seduti a un tavolo e hanno trattato la fine delle ostilità stipulando un accordo condizionato. Talvolta anche tra vincitori e sconfitti. Mutevoli ragioni ne hanno condizionato la durata. E poi ci sono le guerre che non possono essere vinte.
Ma torniamo per un momento alla politica, che ritualizza i conflitti attraverso regole condivise, che sono le Costituzioni democratiche. Eppure gli antagonismi sociali sono e sono sempre stati fortissimi, e hanno lasciato sul terreno morti e feriti. Talvolta in senso letterale (le rivolte, le manifestazioni accese, la repressione poliziesca), più spesso sul piano delle relazioni umane, con la disintegrazione di amicizie, parentele, tessuti economici, incrinando e ledendo presente, speranze e futuro di alcuni che sono transitati dalla povertà alla miseria, o da un moderato benessere alla povertà, mentre ad altri sono giunti maggior successo, benessere e potere.
Le Costituzioni democratiche hanno nelle loro radici ideali di compromesso, normati in regole doverose con la finalità di evitare drammi ingestibili e affrontare le ingiustizie e le disuguaglianze attraverso riforme più o meno coraggiose. Ed è su questo aspetto che vorremmo fermare l’attenzione: cosa significano “le riforme più o meno coraggiose”. Le riforme, sono, lessicalmente, azioni che ambiscono a modificare l’esistente senza distruggerlo. Ma la modifica dell’esistente ha sempre un costo, soprattutto per chi, dall’esistente, ricava benessere e potere, ma anche per chi, dall’esistente, ricava una modesta ragione di vita.
Allora il coraggio è di chi le propone, o il coraggio è di chi le subisce? Perché proporre le riforme significa mettersi in contrasto con chi ha il potere che gli viene dall’esistente o per chi, non avendolo, teme di peggiorare la propria situazione. Così, talvolta, le riforme aumentano il potere di chi lo ha già e lo vede in pericolo, e serve a rinsaldarlo. Ma in questi casi il costo ricade su chi quel potere non ha, e deve avere il coraggio di accettarle senza protestare in modo distruttivo. Nei sistemi democratici operano le regole condivise che impediscono la dissoluzione del sistema.
Negli ultimi cinquanta anni i sistemi democratici si sono confrontati con una congerie di drammi collettivi che hanno attinto all’integrità di molti gruppi sociali. Le forze politiche li hanno affrontati non sempre con successo, modificando l’esistente. Modificando anche le regole condivise, cioè le Costituzioni. La cosiddetta rivoluzione thatcheriana e reaganiana ha intimamente modificato l’esistente con effetti ciclopici: la ricchezza del mondo è cresciuta vertiginosamente e si è concentrata sempre di più nelle mani di pochissimi, e lo ha fatto attraverso il consenso delle maggioranze nei Paesi dominanti, curandosi degli sconfitti solo quel tanto necessario a evitarne la ribellione contro nuove condizioni di vita intollerabili fino a pochi anni prima. Non ne siamo ancora fuori; anzi, quella rivoluzione ha nella sua radice una tale forza da continuare a dar frutti così appetitosi da venir gustati con cecità da grandissime parti della società. Eppure già molti, ad altissimo livello, ne hanno denunciato la fatuità e il pericolo (Krugman, Stigliz, ad esempio).
Eccoci di fronte a un conflitto che alla parte sconfitta sembra impossibile vincere senza tragedie collettive. Che fare? Il compromesso onorevole per entrambi è difficilissimo da raggiungere quando la parte più forte non intende rimetterci, è ovvio. Il punto centrale sta nello scoprire cosa sia attrattivo per la parte in posizione di vantaggio, tanto da farle preferire la rinuncia a un premio maggiore proseguendo la lotta piuttosto che al perseguimento del suo primo obiettivo. Al contempo la parte più debole che sta lottando accanitamente per i suoi diritti dovrebbe accettarne una riduzione per evitare una perdita ulteriore continuando a combattere.
A prima vista le due posizioni sembrano inconciliabili, ma al di là dei guadagni immediati, le parti sono consapevoli che i prezzi da pagarsi possono essere diversi da quelli apparenti, cioè occulti, (come l’affiorare di nuove responsabilità, o l’intervento in causa di parti nuove e fortissime) o si pongono su altri piani. Nella tenzone giudiziaria il tempo, ad esempio, o i rischi che alla fine della gran fatica non ci sia più nulla da rosicchiare (da una parte e dall’altra, sia chiaro, o perché una potrebbe scegliere di morire come Sansone coi filistei, il che lascerebbe l’altra con un pugno di mosche in mano, o perché i costi alla fine sarebbero maggiori dei guadagni), possono indurre alla conciliazione anche un soggetto agguerritissimo e determinato.
Nel contrasto tra gruppi sociali, a cui abbiamo accennato pocanzi, saranno i fallimenti e le difficoltà di perseguire i propri obiettivi che apriranno la strada a inversioni di tendenza che, nel tempo, svuoteranno di energia la cosiddetta Rivoluzione neoliberista; ma questo avverrà solo se gli interessi apparentemente antagonisti sapranno muovere le coscienze e l’intelletto di tutte le persone coinvolte nel processo, da una parte e dall’altra dei due fronti. Ci saranno le sconfitte, e ci saranno delle vittorie, ci saranno avanzate e ritirate (si pensi alla messa in discussione del Jobs act, ad esempio, al salario minimo, al reddito di cittadinanza, alla separazione tra regioni in campo sanitario, alle risorse lasciate o ridotte agli enti locali, alla progressività delle imposte, alla tassazione degli extra profitti, alla patrimoniale, all’integrazione degli immigrati, alle politiche sulla famiglia e la sessualità, gli oggetti di intervento a cui mirano le riforme sono moltissimi), ma alla fine la situazione troverà un punto di incontro, almeno per un tempo ragionevole, proprio perché l’apparente vittoria totale di una parte aprirebbe la strada a una conflitto permanente dagli esiti incerti e deleteri per la tenuta stessa del sistema democratico.
E così torniamo a parlare di guerra, cioè della guerra che le due parti affrontano con obiettivi assai diversi e del tutto incompatibili. La Russia vuole ricostruire la dimensione territoriale che era propria del suo impero perduto (forse anche progettando di aumentarla). E l’Ucraina vuole recuperare la sua integrità territoriale e la sua indipendenza. L’Occidente la sostiene attivamente, e la guerra oscilla tra la controffensiva e la crisi momentanea del sistema militare russo mal sostenuto dal suo potenziale socioeconomico. L’Ucraina sembra determinata alla riconquista di ciò che ha perduto. La Russia sembra non potersi permettere alcuna retromarcia, pena la dissoluzione del suo sistema politico. E la guerra nucleare si profila come esito catastrofico per l’umanità.
Ora noi qui non intendiamo assolutamente fare distinzioni sul piano morale fra i contendenti, ma solo affrontare quello che Gaetano Azzariti ha proposto come Conferenza Internazionale per la pace. Cioè un luogo e alcuni protagonisti capaci di mostrare alle due parti le potenzialità attrattive della fine del conflitto. Ammesso che esistano. Ma noi crediamo di sì e siamo altrettanto persuasi che queste potenzialità si pongano al di fuori degli interessi in gioco attualmente sotto i riflettori, ingigantiti dalle retoriche e dalle propagande, che sono sì strumenti al servizio delle parti in lotta, e di quelle che stanno dietro alle quinte, ma che non sono mai del tutto fasulle o mendaci. Sono viceversa fasulle e mendaci le conseguenze delle retoriche e delle propagande, quando aleggia sulle parti in causa lo spettro della distruzione di massa.
Tuttavia non sarà la paura a spingere le parti a sedersi al tavolo della Conferenza Internazionale, bensì l’interesse, e crediamo che questo interesse sia prevalentemente socioeconomico per l’Ucraina, e prevalentemente socioculturale per la Russia. La Conferenza Internazionale dovrebbe mettere l’accento, in primis, su questi due aspetti, privilegiando quelli sui quali ciascuna parte è più sensibile, e affrontando le questioni territoriali come conseguenza secondaria e non primaria. Vogliamo dunque chiarire come siano tre le poste sul tappeto verde dove si disputa il gioco tra la pace e la guerra fra due Paesi che hanno comunque molto in comune: ci riferiamo al multilinguismo, alla molteplicità delle credenze religiose, all’uscita da epoche e da regimi dov’era sconosciuta la dinamica democratica, all’impatto subìto da entrambi con la globalizzazione neoliberale, e a una problematica circa la definizione dei propri confini, che l’uno, la Russia, ha messo in discussione decidendo di ampliarli, e l’altra ha affrontato lottando caparbiamente per difenderli.
I tre oggetti del contendere sono interconnessi, ma vanno disaggregati per renderli idonei a diventare le fiches da gettare sul tavolo. È cioè necessario che l’interesse socioeconomico dell’Ucraina, così attratta dal mondo occidentale da aver affrontato nel 2014 il rischio della guerra civile al tempo dello scontro fra la presidenza Janukovyč e il parlamento sulle scelte di campo, l’uno proiettato verso la comunità eurasiatica guidata dalla Federazione russa di Putin, l’altro deciso ad abbracciare il partenariato con la UE, venga analizzato nelle sue componenti, affinché vengano evidenziati i costi e i guadagni che la società ucraina dovrà affrontare non solo rinunciando definitivamente all’attrazione orientale, ma pure, nel breve e medio periodo, rinunciando ai vantaggi derivanti dall’acquisto dell’energia dal suo potente vicino. I gruppi di potere, le élite economiche ucraine che hanno dominato il Paese e la sua politica nelle ultime decadi, devono rendersi conto che la scelta necessaria per mettere fine all’immane tragedia bellica in atto ed evitare che si trasformi in olocausto, passa attraverso una rimodulazione del potere asservito agli interessi di una minoranza, e, secondo la nostra opinione, questa scelta comporterebbe una riforma del tessuto neoliberale della società ucraina in senso socialdemocratico.
Ma è altrettanto plausibile che questo movimento verso un modello di civiltà occidentale dev’essere inclusivo anche delle parti di società civile lontani da quel modello (si pensi ai russofoni e agli ortodossi più vicini al credo moscovita che a quello di Kiev). Sosteniamo questo persuasi che solo una società avviata verso una pacificazione interna inclusiva possa mostrare non solo la capacità di sentirsi estranea e determinata a non farsi inglobare nell’attrazione propagandistica della forza avversa, ma soprattutto disponibile a sospendere le dinamiche psicologiche imbarbarite dall’odio. E solo così riteniamo che si possa affrontare in modo costruttivo il dibattito sulla rimodulazione dei confini, che significa comprendere come una simile guerra possa concludersi soltanto con la rinuncia al desiderio di tornare allo status quo ante (e non perché questo desiderio non sia legittimo, ma perché è irrealizzabile senza la sconfitta dell’avversario che viceversa non può essere sconfitto).
Dall’altro lato del tavolo le difficoltà sono, per un verso, meno cogenti sul piano socioeconomico, poiché il sistema della Federazione russa, un misto di neoliberismo e di assistenzialismo, che consente la distribuzione di grandi risorse economiche per garantire il consenso delle masse al potere dominante, non sarebbe messo in discussione, ma – trattandosi di un Paese nel quale lo scheletro dell’identità nazionale è basato sull’orgoglio della primazia nascente da una miscellanea di ideologia slavofila ed eurasiatica proiettate sulla figura di un capo supremo, risolutore di tutti i guai e di tutti i pericoli, nemico dello Stato di diritto e dei diritti universali, ma per questo nutrito da una fortissima fede religiosa ortodossa fondamentalista e proiettato verso un futuro imperiale che accrescerebbe, qualora raggiunto, la felicità collettiva, sia in terra sia in cielo, saldando così il passato col presente e l’avvenire – riteniamo indispensabile garantire il rispetto di quel mondo, purché sia disposto a non pretendere di allargare il suo dominio, comunque e a qualunque prezzo intenda radicarsi sul proprio territorio. Dovrebbero cioè essere fornite rassicurazioni e garanzie circa la rinuncia a ogni tentativo di modificarlo, lasciandolo al suo destino di gloria e di sopraffazione interna, e concordando le modalità e i limiti della propaganda accettabile nei termini delle relazioni internazionali che rifiutano la guerra.
Dopo tutto la riduzione degli arsenali nucleari al tempo della guerra fredda passava ben attraverso questo terreno concordato, nella consapevolezza dell’irriducibilità ideologica tra due opposte visioni del mondo. D’altronde, il principio occidentale fondato su un ideale di tolleranza e di rispetto verso la diversità non può non riconoscere la propria impossibilità di comprendere, nel senso etimologico della parola (cum – prehendere), come nelle persone e nei popoli che credono in valori anche antitetici, siano presenti immagini mentali idonee a costituire, di per sé, un tessuto morale così lontano ed estraneo da consentire non solo l’erezione di una società politica inconcepibile per chi vive e cresce in quella opposta, ma il mantenimento di un consenso totalizzante attorno al suo alfiere. Che queste immagini della mente siano strutturate su uno scheletro mitico, fatto di credenze, desideri, simboli, specchi ideologici fra popolo e capo, illuminati dalla luce divina, tali da essersi trasformati in fedi incrollabili, coi loro tremendi corollari sulle conseguenze dell’apostasia, del peccato e del tradimento, o siano mere emanazioni dell’interesse di una nazione coesa attorno al potere che la domina, alla fin fine non deve fornire alcun alibi per proseguire alcuna forma di lotta contro di esso. Anzi, il progetto della pace passa proprio attraverso l’accettazione di quel mondo che sta al di là di confini chiari e definiti dai trattati. La pace di Westfalia col suo assioma “cuius regio eius religio” deve continuare a riflettersi anche nel presente secolo.
Detto questo, resterebbe da affrontarsi la spina più dolorosa: quale amputazione territoriale sarebbe accettabile dall’Ucraina in cambio della fine della guerra, e quali rinunce all’espansione sarebbero accettabili dal Paese invasore? Sul punto noi non siamo né dotti in geopolitica né in politica internazionale, ma certamente consapevoli di come e quanto non solo la dimensione territoriale di un Paese, ma la dislocazione delle popolazioni che lo compongono e le loro connessioni reciproche fatte di movimenti e osmosi, la presenza delle risorse, gli accessi al mare e le vie di comunicazione all’interno e verso l’esterno, siano requisiti essenziali per la sua esistenza dentro la rete delle relazioni internazionali economiche, commerciali e politiche, e come un rapporto strutturato e funzionante delle garanzie difensive sia essenziale per la serenità della vita quotidiana e la praticabilità di progetti e prospettive esistenziali e statuali.
Ma poiché la guerra, dapprima quella di stallo del Dombass, preceduta dall’annessione della Crimea alla Federazione russa, e poi quella totale odierna ha sconvolto lo status quo, la Conferenza Internazionale dovrebbe analizzare, con precisione certosina, la geografia economica, quella strategica, quella sociale dei luoghi destinati a venir scambiati con la pace, e i Paesi contendenti dovrebbero essere messi in grado di valutare i pro e i contro alla luce dei parametri che abbiamo esposto pocanzi, mentre le armi tacciono, le morti violente si interrompono, e si ripropongono aperture parziali dei movimenti dei civili, dell’agricoltura, dell’economia, dell’energia e dei commerci.
La scelta che si offre alla comunità internazionale non è tra pace e guerra, intendendosi la definizione di Von Clausewitz della guerra come prosecuzione della politica con altri mezzi, il cui fine è la sconfitta di uno con la vittoria dell’altro, che così imporrà al primo le sue condizioni. Viceversa l’attuale alternativa è tra una guerra che non può essere vinta senza perdere la sua natura pragmatica – dato lo spettro della mutua distruzione o della devastazione nucleare del territorio conteso, che equivarrebbe all’incenerimento dell’oggetto del contendere – e una pace impossibile da concordarsi stante l’inanità del perseguimento di alcuna vittoria attraverso la prosecuzione all’infinito del conflitto, il cui termine starebbe nell’esaurimento di tutte le risorse materiali e umane spese nella lotta. Sostanzialmente un ossimoro sia della vittoria sia della guerra (Ricordiamoci dell’“inutile strage”). Ne consegue che non si può porre l’alternativa sui due concetti antitetici e inconciliabili, ma entrambi irraggiungibili, bensì tra pace O guerra, entrambe ibride: questa per le ragioni su esposte, e quella sarebbe un risultato di un ibrido fra le pretese del contendente e le esigenze dell’altro.
Ed è dolorosamente ovvio che, in un certo senso, sembrerebbe essere l’Ucraina a pagare un prezzo più alto di quello che pagherebbe la Federazione russa. Infatti, anche rendendo all’Ucraina una buona percentuale del territorio occupato, che sarebbe un’irrisoria percentuale di perdita per l’immensa estensione territoriale della Russia che ha annesso i territori invasi, ciò comporterebbe comunque una riduzione percentuale gigantesca per l’Ucraina amputata di una parte significativa del suo territorio. Ma per la Russia, se è vero come è vero che questa guerra, pianificata negli anni passati, è la trasformazione nei fatti della teoria ideologica di restaurazione dei passati fasti imperiali, interrompere questo trend espansionistico significherebbe modificare il progetto, ricollocandolo all’interno dei propri confini.
Certamente questa rimodulazione dei rapporti est/ovest avrebbe bisogno non solo della garanzia formale di rispetto degli accordi da parte della Russia, che ha dimostrato in passato di essere capace di stracciare ogni patto sottoscritto coi suoi vicini (si pensi al Memorandum di Budapest o alla pace del febbraio 1997 con la Cecenia) ma di condizioni internazionali che impediscano alla Federazione russa di fare la stessa cosa impunemente con l’Ucraina. Ne consegue che l’Occidente, che ha aiutato l’Ucraina a sopravvivere, dovrebbe essere pronto a sostenerla ancora sia con mezzi pacifici, sia affrontando il nodo della mutua difesa atlantica, affinché l’ombra orrifica che si sta profilando sull’Europa e sul mondo svanisca, e l’Ucraina sia libera di proseguire nel suo percorso che l’avvicina alle democrazie occidentali, se è questo che davvero vorrà.
Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022
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Roberto Settembre, entrato in magistratura nel 1979, ne ha percorso tutta la carriera fino al collocamento a riposo nel 2012, dopo essere stato il giudice della Corte di Appello di Genova estensore della sentenza di secondo grado sui fatti della Caserma di Bolzaneto in occasione del G8 2001. Ha scritto per Einaudi Gridavano e piangevano, edito nel 2014. Si è sempre occupato di letteratura, pubblicando racconti, poesie, recensioni sulle riviste “Indizi”, “Resine”, “Nuova Prosa”, “La Rivista abruzzese” e il “Grande Vetro”. Con lo pseudonimo di Bruno Stebe ha pubblicato nel 1992 il romanzo Eufolo per Marietti di Genova e nel 1995 I racconti del doppio e dell’inganno per la Biblioteca del Vascello nonché la quadrilogia Pulizia etica per Robin edizioni e nel 2020 Virus e Cherie con la Rivista Abruzzese. Attualmente è collaboratore di “Altreconomia”.
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