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di Salvo Alibrio e Luigi Lombardo [*]
L’effetto del Covid sulle feste è stato devastante, ma fino a che punto? La ripresa dei riti post pandemia è stata impetuosa e il fiume carsico della cultura festiva ha straripato ovunque e in tutti i contesti festivi. Ma c’era da aspettarselo e nessuno di noi studiosi, credo, ne dubitava. La pandemia ha interrotto il placido fluire dell’alternanza di tempo festivo e tempo ordinario. Ha introdotto il tempo della sospensione, piatta e uguale a sé stessa, chiudendo le comunità nell’isolamento culturale, nella solitudine di pratiche un tempo agite nello spazio pubblico e condiviso.
La fine di questo stato di sospensione (speriamo definitivo) con il ripristino dei riti festivi mostra quanto essi siano parte preziosa della cultura umana, un bene indivisibile e collettivo. È stata un’esplosione, una liberazione, un’irruzione: boato corale di devozioni e azioni, che in certo senso ci ha ricondotti alle situazioni susseguenti a quelle grandi catastrofi (terremoti, eruzioni, peste ecc.) che hanno comportato simili stati di cesura e sospensione del tempo rituale e una faticosa riorganizzazione di quello ordinario.
L’argomento è di vasta portata antropologica: la ripresa del rito festivo è in corso e va certo analizzata alla fine del processo di riorganizzazione e stabilizzazione. Una cosa è certa: il ritorno dei riti, per quello che abbiamo potuto osservare sul campo, è stato imponente, ma soprattutto sentito e partecipato, perché lungamente atteso e desiderato. La ripartenza dopo la pandemia non prescinde dalle feste, anzi senza di esse le comunità sembrano aver smarrito le coordinate temporali, avendo visto sconvolto il calendario stesso che regolava e scandiva i giorni, quelli usuali e quelli rituali.
A Palazzolo, a conclusione del ciclo festivo annuale, le quattro feste principali hanno convogliato la partecipazione della comunità, che, come di solito, si è divisa tra quartieri e relativi santi, mentre la colletta delle offerte è stata superiore alle aspettative, così come la raccolta di pani devozionali per san Paolo ha richiesto un altro carro per il trasporto in chiesa. «Tutti bbuoni e bbiniritti», così i devoti hanno commentato la ripresa dei fuochi d’artificio e le enormi spese per commissionarli. Insomma, la ripresa è stata, come detto, sotto il segno della magnificenza e della spettacolarità, sia nei suoi aspetti religiosi sia nelle manifestazioni laiche, che caratterizzano e accompagnano ogni festività.
Raddoppiate le offerte in denaro, sono moltiplicati i bimbi spogliati e “offerti” al santo, gli abitini benedetti, la cera, nonché i pani a forma di grandi ciambelle (cudduri) con il serpente a rilievo (per la festa di S. Paolo) o la freccia (simbolo del martirio di San Sebastiano). Un mondo provvisoriamente sommerso è riapparso nelle forme più appariscenti: le luminarie più spettacolari, provenienti dalle fabbriche pugliesi, la gara per i cantanti più famosi, la competizione per i fuochi d’artificio più scenografici. Sotto la vara del santo in processione si sono accalcati a centinaia le “spalle nude” dei portatori, quasi incollate l’una all’altra, del tutto ignari i fedeli, anzi sprezzanti di ogni pericolo e col covid ancora minaccioso e in agguato.
Intervistati vari devoti, ho notato in loro unitamente alla voglia di vivere, normale, una sorta di “furore religioso”, termine con cui si può definire l’atteggiamento di chi si fa interprete dell’esigenza di un vitale ritorno alla normalità, quasi l’inizio di una nuova era, di un nuovo tempo, un nuovo ordine. Un capodanno simbolico che porti con sé una nuova vita. Molti di loro, oltre a sciogliere un voto, hanno avvertito il peso del compito che si assumevano: portare in processione il proprio santo per le strade consuete, quasi a riconsacrarle dopo che la pandemia le aveva svuotate e rese luoghi ostili, spazi anonimi e sotto certi aspetti pericolosi.
Quanto era prima previsto nelle norme consuetudinarie della festa si carica adesso di nuovi e più marcati significati, di più forte e vistosa evidenza. Un riappropriarsi del senso appannato del sacro, un processo di risistemazione semantica delle parole, dei gesti e dei valori della festa. Che è nella sua essenza antropologica espressione di energia collettiva, di forza vitale, di eros da intendersi come ostentazione della fisicità, trionfo dell’eccesso, espansione emozionale, irruzione del caos per rifondare un nuovo cosmos.
Michele Gallo, detto “Padreterno”, anni 60, è un devoto di S. Paolo da sempre. Egli è stato ed è il mio informatore privilegiato, detentore di una sua cultura tradizionale, fatta di racconti di mostri, fate, spiriti e magie, che si aggirano nel suo quartiere, come le famose ronni i casa, anime dei luoghi che egli onora allestendo a casa sua un tavolo con un piatto (vuoto) e una bottiglia di vino.
«Picchì san Paulu è san Paulu nun si po’ teniri rintra» (Perché San Paolo è San Paolo e non si può tenere chiuso dentro), e racconta di quando bambino era ossessionato dagli spiriti, che combatté con una “santa”, un’immaginetta sacra del patrono: «Di tannu semu amici (con gli spiriti). E continua (in dialetto qui in italiano): «Il santo manda i serpenti, come ho visto un giorno al tempo che si portava il frumento offerto al santo in chiesa, perché san Paolo voleva che si custodisse bene. Tutto è vero, i serpenti, i ciarauli, i miracoli. E ancora avvengono, come si racconta e tramanda: vuoi che un santo così potente restava chiuso in chiesa? Il santo non può stare lontano dai suoi devoti, come un padre lontano dai figli. Le offerte sono piovute come la pioggia, centinaia di devoti con la mano tesa verso il santo a offrire denaro, i bambini spogliati… non poteva finire così».
O come Paolo Lombardo, devoto di S. Sebastiano, che per il suo santo si farebbe ammazzare (così dice lui) e che nella pandemia ha sofferto per la privazione della vista del suo “santuzzo”. Le chiese vuote, i riti violentemente interrotti, il tempo immobile, il senso di fine e di collettiva paura sembra ormai alle spalle e ciascuno sa che può contare sul “suo” santo patrono, che sembrava essersi dileguato, al quale si rivolge nelle forme consuete, attraverso la sua immagine che è riapparsa nello spazio pubblico, recuperando e ricomponendo un universo che era prima vuoto, frammentato, assente e perfino minaccioso: tutto riprende.
La “fine” della pandemia è avvenuta, nel paese di Palazzolo come altrove, solo nel momento che la prima festa (quella di S. Paolo il 29 giugno) si è annunciata col rituale sparo di bombe: quelle ‘bombe’, che già di per sé segnano rumorosamente un tempo diverso, rinnovato, sono sembrate il segnale della felice irruzione di un nuovo mondo e di un nuovo tempo rigenerato e risignificato, come fossero esse stesse, nel fragore e nel clamore, la voce rassicurante e protettiva del santo.
«M’arrìzzunu li carni», mi confida Paolo, «Mi sintia persu», «ma ora s’aspiettunu i bummi ro patronu Sam-Mastianu» (Mi si rizzano le carni, mi sentivo perso. Ma ora si aspettano le bombe del patrono s. Sebastiano). Tutto dunque è tornato come prima: con le belle “guerre dei santi” la comunità si riappropria della sua storia, del presente e del passato. Neanche la crisi energetica e la guerra in Ucraina sembrano scalfire questa ritrovata stabilità, questo status di devoto, che ha visto il suo santo percorrere, come sempre ab antiquo, le vie della cittadina accompagnato dalla banda e da qualche gruppo di donne a piedi scalzi, col prete annoiato e stanco, e con i vuci (le grida) dei portatori: E chi siemu tutti muti? o E chiamamulu ca n’aiuta, prima Diu e Sammastianu! che è la gridata dei devoti di san Sebastiano, una risposta polemica alla pretesa degli avversari di possedere il vero patrono – Chistu è lu veru patronu! – che rivendicano i fedeli del quartiere rivale.
Tutto è tornato come prima, forse “peggio” di prima: Paolo non va più nel quartiere avversario, un luogo a lui indifferente, in attesa della nuova fanusìa, del “santuzzo” tutto nudo, che raccoglie su di sé i patimenti di tutti. Per lui il paese è diviso in due: sotto è il “borgo-villaggio” (S. Paolo), sopra la città (S. Sebastiano). Il Covid, dunque, non ce l’ha fatta! Tutto è tornato come prima: il tempo scandito secondo il calendario codificato dalla lunga tradizione, laddove la pandemia aveva rimarcato lo scorrere del tempo, la finis temporum, inesorabile e fatale!
Noi stessi, che ne scriviamo, risentiamo di tutto questo, avvertiamo un ritorno nel tempo strutturato, che ci dà materiali su cui riflettere e di cui scrivere: e ci sentiamo vivi … e n’arricriamu (ci divertiamo). Sono ripresi i viaggi dei viatores delle feste, che si spostano da un centro a un altro, come i caliari (venditori di calia nelle feste), i fotografi che incontri ovunque a documentare per l’ennesima volta un rito, una svelata, una processione. Anche nei loro occhi traspare quella sorta di frenesia, che abbiamo letto negli occhi dei devoti, quella voglia di immortalare una festa, vista chissà quante volte.
Rivedi Nino Privitera dietro i “suoi” nudi di Melilli, rivedi Peppino Leone ancora ventenne con la sua macchina analogica, Vincenzo Giompaolo, Salvatore Brancati, Leonardo Martignano e Salvo Alibrio, giovani e anziani, amici di sempre con tanti altri che di feste si nutrono, si esaltano, si inebriano innamorati e rapiti. Con loro studiosi sul campo, studenti in procinto di laurea, e …turrunara a infondere e spandere eccitanti profumi di miele e mandorle tostate, di sfinci madide di miele e confetture dolcissime, belle da vedere, da annusare, che ciascuno si porta e conserva nella memoria, perché, come recita il proverbio: fa festa ca t’arresta (fai festa che sempre qualcosa ti resta).
Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022
[*] Il testo è di Luigi Lombardo, le foto di Salvo Alibrio
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Salvo Alibrìo, di Palazzolo Acreide (Sr), inizia con la fotografia amatoriale, fino al 2013, quando apre il suo studio professionale. Nel 2012 ha vinto un concorso indetto dal National Geografic Italia nella categoria “Gente e popoli”, premio che gli ha offerto la possibilità di frequentare un master di reportage all’Accademia di fotografia John Kaverdash a Milano. Nel 2015 è stato finalista alla decima edizione del premio arte Laguna a Venezia; l’anno dopo ha ottenuto il premio “Miglior portfolio mediterraneum” del Med photo fest, sempre a Venezia. Nel 2019 viene notato da Dolce e Gabbana per i quali realizza un reportage per la campagna pubblicitaria del 2020. È autore di una monografia fotografica sulla festa di S. Paolo dal titolo emblematico di Patronus.
Luigi Lombardo, già direttore della Biblioteca comunale di Buccheri (SR), ha insegnato nella Facoltà di Scienze della Formazione presso l’Università di Catania. Nel 1971 ha collaborato alla nascita della Casa Museo, dove, dopo la morte di A. Uccello, ha organizzato diverse mostre etnografiche. Alterna la ricerca storico-archivistica a quella etno-antropologica con particolare riferimento alle tradizioni popolari dell’area iblea. È autore di diverse pubblicazioni. Le sue ultime ricerche sono orientate verso lo studio delle culture alimentari mediterranee. Per i tipi Le Fate di recente ha pubblicato L’impresa della neve in Sicilia. Tra lusso e consumo di massa (2019); Taula Matri. La cucina nelle terre di Verga (2020); Processo a Cassandra (2021).
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