La storia dei beni DEA nel Ministero della Cultura (MiC) è piuttosto nota, oggetto di numerosi contributi in cui sono riepilogate le carenze istituzionali e le azioni rivendicative di volta in volta attuate per una piena integrazione ed equiparazione di questo settore con gli altri settori disciplinari oggetto di tutela, ai sensi delle normative nazionali avvicendate nel tempo.
Ricordando che l’unitarietà del settore DEA a livello normativo è apparsa nella legislazione nazionale solo alla fine degli anni Novanta, con il Testo Unico del 1999, in parallelo con i SSD universitari, e che quindi in precedenza demologia (tradizioni popolari) ed etnologia erano tenute distinte, cercherò di riepilogare sinteticamente alcuni passaggi significativi che mettono in luce come le discrepanze, più o meno ampie, fra norma nazionale e organizzazione ministeriale abbiano nel tempo penalizzato il percorso del settore DEA, marginalizzandolo e problematizzandolo, nonostante non siano mancati importanti apporti e significativi risultati. Farò questo aggiungendo alcune considerazioni personali. Per brevità utilizzerò l’acronimo DEA in modo estensivo, indipendentemente dalle cronologie.
Prodromi
Un primo riconoscimento normativo, ripartito fra quelle che potremmo chiamare un’area demologica e un’area etnologica, era già contenuto, com’è noto, nella L. 1089/1939, Tutela delle cose d’interesse artistico e storico, dove era prevista la tutela delle cose «che presentano interesse […] etnografico» e delle cose «che interessano la paleontologia, la preistoria e le primitive civiltà» (art. 1): termini e concetti da leggere e decodificare in base al linguaggio dell’epoca (Lattanzi 1990, Tucci 2005). Ma come si collocavano queste «cose» nell’organizzazione della coeva Direzione generale Antichità e Belle Arti del Ministero dell’educazione nazionale, tripartita in antichità (archeologia), gallerie (storia dell’arte) e monumenti (architettura)?
La paleontologia, la preistoria e le primitive civiltà mettevano insieme l’archeologia preistorica e l’etnologia sulla scia della visione evoluzionistica ottocentesca che aveva indirizzato la costituzione, nel 1876, a opera di Luigi Pigorini, del Regio Museo Preistorico-Etnografico, su cui tornerò più avanti: dunque si collocavano, sia pure con un’evidente forzatura, nell’area archeologica. L’aggettivo «etnografico», invece, si riferiva all’etnografia italiana, già testimoniata dal Museo di Etnografia Italiana di Firenze, fondato da Lamberto Loria nel 1906, e dalla Mostra di Etnografia Italiana per l’Esposizione internazionale di Roma del 1911, diretta dallo stesso Loria: dal museo fiorentino e dalla Mostra era derivata l’istituzione, nel 1923, del Regio museo d’etnografia italiana, che fu però allestito e inaugurato solo nel 1956: ci tornerò più oltre.
A differenza dell’etnologia, dunque, l’etnografia italiana rappresentava un’area disciplinare del tutto assente nella strutturazione della Direzione generale Antichità e Belle Arti e per questo motivo la tutela delle «cose che presentano interesse etnografico» della L. 1089/1939 restò totalmente disattesa, non avendo tali «cose» alcun riscontro organizzativo e amministrativo in cui essere inserite, a meno di non creare un quarto polo nella tripartizione delle competenze disciplinari il che era evidentemente inconcepibile per molti motivi. E del resto chi avrebbe potuto proporlo se i dirigenti erano solo archeologi, storici dell’arte e architetti? Una contraddizione questa che è perdurata sino a oggi e che ha provocato non pochi equivoci.
Ricordo che durante i lavori della commissione incaricata di definire l’ordinamento scientifico del Museo di Etnografia, presieduta da Paolo Toschi (1954-55), il Ministero della pubblica istruzione impose di modificare la titolazione in Museo Nazionale delle Arti e delle Tradizioni Popolari (Mnatp), giustificando tale revisione con motivazioni pretestuose (D’Elia – De Santis 2004: 446). In realtà appariva evidente l’esigenza di inquadrare la disciplina entro un campo già esistente, mantenendola comunque sulla scia della vecchia folkloristica fascista ed escludendo in tal modo qualsiasi riferimento ad alterità culturali nel nostro Paese e, naturalmente, a qualsiasi autonomia statutaria. La nuova titolazione del museo rinviava alle arti popolari come arti “minori”, arti applicate, e alle tradizioni popolari in quanto rappresentazioni tipiche regionali. Questa distorsione ha determinato un abbinamento forzato con il settore storico-artistico condizionando in modo rilevante la consapevolezza dei beni DEA nel Ministero, che resta ondivaga e multiforme – e di conseguenza multiformi sono le azioni a essi applicate – a differenza dei beni archeologici, storico-artistici e architettonici il cui statuto definitorio appare chiaro e distinto, pur nell’inevitabile aggiornamento dei punti di vista e della dialettica interpretativa.
La stessa assimilazione si ritrovò nei lavori della Commissione Franceschini (Tucci 2021). Il patrimonio etnologico extra-europeo restò sostanzialmente lasciato all’abbinamento con l’archeologia preistorica del Museo “Pigorini”, anche se il Gruppo di studio Musei e collezioni riconobbe che tale connubio creava «gravi difficoltà in sede pratica e scientifica», avendo «i due campi di studio […] funzioni ed esigenze scientifiche ben diverse» (Per la salvezza dei beni culturali in Italia 1967, I: 525-526). Il patrimonio etnografico italiano, variamente denominato, fu invece fatto afferire al gruppo di studio ‘Opere d’arte e oggetti d’interesse storico-culturale’, che si limitò a richiamare l’argomento più volte senza però trattarlo davvero, segnalando l’esigenza di un suo futuro approfondimento; fra le raccomandazioni della Commissione ci fu l’auspicio che il futuro legislatore potesse «provvedere a pertinente tutela non solo dei Beni aventi riferimento all’arte, ma altresì di quelli, a titolo di esempio, aventi riferimento alla storia, all’etnografia» (Per la salvezza dei beni culturali in Italia 1967, I: 63). Soltanto la partecipazione di Tullio Tentori ai lavori della Commissione, in quanto direttore del Mnatp, consentì almeno di porre all’attenzione la specificità del settore etnografico, il suo stretto legame con la ricerca sul campo condotta in determinati contesti secondo determinate metodologie e la necessità che per esso fossero formate figure tecniche di specialisti da inserire nei ruoli della Direzione generale: un’istanza che però resterà disattesa. Lo stesso Tentori si è trovato a essere il primo direttore antropologo di quel Museo senza che la sua competenza potesse avere una collocazione e una visibilità e fu costretto a partecipare a un concorso per dirigente archeologo per poter avere un titolo di accesso alla direzione (Tucci 2021: 535-536).
La successiva Commissione di studio per la revisione e il coordinamento delle norme di tutela relative ai beni culturali (Commissione “Papaldo”), istituita nel 1968, forse cogliendo il richiamo della Commissione Franceschini, forse riprendendo la legge 1089, incluse esplicitamente le «cose che […] presentano interesse etnografico» nel suo disegno di legge per la tutela dei beni culturali (febbraio 1970, art. 1), al quale tuttavia non fu dato seguito. Quando nel 1975 fu istituito il Ministero per i beni culturali e ambientali non vi fu traccia dei beni di interesse etnografico nella sua organizzazione: un Ufficio centrale teneva insieme i beni ambientali (architettonici), archeologici e storico-artistici.
I due Musei nazionali
In questo quadro di incongruenze normative e organizzative e di mancanze, il Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari e il Museo nazionale preistorico etnografico “Luigi Pigorini” hanno rappresentato, precocemente e per lungo tempo, due “fari”, quasi gli unici luoghi di riferimento per i beni DEA, restando fra loro distinti, fino al 2016, e afferenti, come si è visto, ai settori storico-artistico il primo, archeologico il secondo.
Oltre a rappresentare specificità squisitamente DEA (il “Pigorini” per metà, il Mnatp in toto), fino all’attivazione del profilo di demoetnoantropologo nel 2001, di cui dirò più avanti, i due musei sono state le uniche strutture del Ministero ad avere un personale tecnico DEA, seppure “sotto mentite spoglie”, perché formalmente inquadrato con profili in prevalenza di archeologi e di storici dell’arte. Tale presenza, peraltro numericamente nutrita, fu possibile soprattutto in seguito all’applicazione della L. 285/1977, che consentì un percorso di assimilazione e di assunzione a molti laureati con piani di studi DEA dell’Università “Sapienza” di Roma: una situazione che permise loro di acquisire e sviluppare una specifica competenza museale.
Oltre a curare le proprie collezioni nel tempo, i due musei sono stati di fatto veri e propri istituti di ricerca, qualificati e riconosciuti a livello nazionale e internazionale, in stretto rapporto con i contesti DEA universitari italiani ed internazionali. Vi hanno operato, in pianta stabile o in qualità di collaboratori abituali, o di ispettori, figure che sono parte della storia della ricerca DEA italiana, come: Diego Carpitella, Luigi Maria Lombardi Satriani, Aurora Milillo, Annabella Rossi sul versante demologico; Renato Boccassino, Ernesta Cerulli, Vinigi Grottanelli, Tullio Tentori su quello etnologico.
Il Museo “Pigorini”, già Regio Museo Preistorico-Etnografico, ha anche esercitato funzioni di tutela a livello nazionale per i due settori disciplinari in esso rappresentati, in quanto Soprintendenza alle Antichità di Roma (dal 1940) e poi Soprintendenza speciale alla Preistoria e all’Etnografia (1968-2016). Nato con una precisa impostazione, analogamente a molti altri musei europei dell’epoca con i quali è sempre stato in contatto, si è avvalso di raccoglitori, studiosi e ricercatori di rilievo internazionale. L’attività nel settore etnologico è stata davvero intensa, su molti diversi fronti (Nobili 1990), con riscontri, riconoscimenti e collaborazioni. Nel 2001 il museo è entrato a far parte della Rete europea dei direttori dei musei etnografici (EEMDG–European Ethnology Museum Directors Group) costituita nel 1999, contribuendo ad arricchire le riflessioni che si andavano sviluppando intorno al ruolo dei musei etnologici contemporanei: ricordo i progetti europei READ-ME e RIME (2007-2009) e, in particolare, nel 2010, il progetto europeo [S]oggetti migranti (Lattanzi 2009).
Il Mnatp ha ricoperto di fatto un ruolo di soprintendenza speciale, pur non essendolo mai stato formalmente, svolgendo funzioni di indirizzo e di coordinamento per i musei e i beni demologici a livello nazionale ed essendo il punto di riferimento dei territori in questa materia. Mentre però al Museo “Pigorini” il settore etnografico ha avuto un suo spazio interno, più o meno grande ma comunque scientificamente autonomo grazie a un abbinamento mantenuto chiaro, il Mnatp, ha avuto una situazione più ambigua dovuta al forzato riferimento al settore storico-artistico. Con i primi tre direttori l’anima DEA ha avuto pieno spazio: di Tullio Tentori, che ha impostato il Museo come un istituto di ricerca, ho accennato altrove e rinvio a quanto ho già scritto (Tucci 2021); con Jacopo Recupero è stato avviato e portato avanti il lavoro delle schede FK, inscritto in una nutrita e prolungata attività di ricerca sul campo e sono stati incrementati gli archivi audiovisivi; Valeria Petrucci ha riallestito il museo e lo ha collegato con l’etnoantropologia accademica e museale, offrendo anche all’Associazione italiana per le scienze antropologiche (Aisea) una sede e un luogo per i suoi congressi; ha inoltre ospitato la rassegna Materiali di antropologia visiva e molto altro ancora.
Ambedue i Musei hanno costituto nel tempo ricchissime biblioteche specializzate e archivi documentali cartacei e multimediali indispensabili per le attività di studio e di ricerca. Fra le tante rivendicazioni e proposte che sono state avanzate da più parti per contrastare l’inerzia del Ministero nell’operare un pieno riconoscimento dei beni DEA, in termini di inserimento nelle strutture centrali e periferiche e di attivazione del relativo profilo funzionale e dirigenziale, una richiesta è stata quella di riunire il Mnatp e il “Pigorini”, per la parte etnologica, in un’unica struttura o comunque di creare una più stretta relazione fra i due musei, sino a quel momento impedita dalla loro afferenza a due diverse aree direzionali. Si trattava di una proposta già adombrata dalla Commissione diretta da Paolo Toschi nel 1954-55, la quale aveva evidenziato l’opportunità, disattesa, di riunire le collezioni dei due musei in un’unica sede (D’Elia – De Santis 2004: 437-438).
L’Istituto centrale per il catalogo e la documentazione (Iccd)
Com’è noto, l’Istituto centrale per il catalogo e la documentazione, sin dalla sua nascita (1975), grazie anche all’apertura culturale del suo primo direttore Oreste Ferrari, prese in carico i beni etnografici, ridenominati in folklorici, avviando, in collaborazione con il Mnatp e con l’Istituto delle tradizioni popolari dell’Università “Sapienza” di Roma, il processo di costruzione delle schede FK-Folklore: i relativi modelli schedografici e le norme di compilazione, accompagnati da contributi critici di importanti studiosi, furono pubblicati nel 1978. Non mi soffermo sull’argomento perché ne è stato scritto molto. Due anni dopo l’Iccd, in collaborazione e per iniziativa del Museo Pigorini, produsse un prototipo di scheda E-Etnologia, derivata dalla scheda FKO, con le debite integrazioni, che ebbe vari sviluppi senza mai arrivare a un definitivo rilascio. Le schede FK e la scheda E furono impiegate in misura consistente da parte dei due musei statali. Dunque fra il 1978 e il 1980, i beni culturali etnografici ed etnologici, ancorché formalmente assenti dall’organizzazione ministeriale, entravano a far parte del Catalogo generale dei beni culturali accanto ai beni archeologici, architettonici, storico-artistici. Negli anni successivi e fino a oggi l’Iccd ha continuato a prestare una particolare attenzione ai beni DEA, aggiornando sistematicamente le relative schede, ormai BDI e BDM di versione 4.00 (Tucci 2018), e attivando specifiche iniziative nel settore.
I beni DEA in chiaro
Con il Decreto Legislativo 112/1998, Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, i beni DEA rientrarono finalmente in chiaro in un testo di legge dello Stato, assumendo ormai la dizione complessiva di demoetnoantropologici: beni culturali sono quelli che «compongono il patrimonio storico, artistico, monumentale, demoetnoantropologico, archeologico, archivistico e librario [...]» (art. 148). I successivi testi legislativi in materia di beni culturali hanno mantenuto questa dizione, con le varianti dei trattini e/o l’eliminazione del suffisso “demo”: il DL 368/1998, Istituzione del Ministero per i Beni e le Attività culturali («beni demoetnoantropologici», art. 6); il DL 490/1999, Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali («le cose immobili e mobili che presentano interesse […] demo-etno-antropologico», art. 2); infine il DL 42/2004, Codice dei beni culturali e del paesaggio («le cose immobili e mobili che […] presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico […]», art. 2).
Nel 2000, in seguito alla grande mobilitazione dei funzionari dei due musei DEA e dell’Aisea e soprattutto grazie all’impegno dell’Associazione Bianchi Bandinelli e alla tenacia del suo presidente Giuseppe Chiarante, finalmente i beni DEA furono inseriti nominalmente nel Regolamento di organizzazione del Mibac (DPR 441/2000) a livello sia centrale che periferico: non da soli però, in piena autonomia, bensì abbinati ai beni storico-artistici, come esplicitato nella dizione «per il patrimonio storico, artistico e demoetnoantropologico» attribuita alla Direzione generale e alle Soprintendenze territoriali.
Più che “abbinati”, si dovrebbe dire “aggregati”, vista l’inesistenza delle figure DEA in quelle strutture con la conseguenza che – Museo “Pigorini” a parte per i soli beni extra-europei – la tutela dei beni DEA fu stabilmente affidata ai funzionari e ai dirigenti storici dell’arte e tale situazione si è protratta a lungo. Quando nel 2001 è stato finalmente attivato il profilo tecnico-scientifico di funzionario DEA, ne hanno potuto usufruire i soli funzionari con competenze DEA che erano già in servizio presso i due Musei nazionali, mentre tutta l’area della tutela sul territorio ha continuato a essere totalmente sguarnita, dal momento che non furono conseguentemente banditi specifici concorsi, né per funzionari e né per dirigenti DEA.
L’abbinamento forzato e perdurante dei beni DEA con i beni storico-artistici nelle strutture centrali e nelle Soprintendenze, ha generato un equivoco di fondo, a cui ho già fatto cenno, sulla natura stessa dei beni DEA. Inoltre, affidandone sistematicamente la gestione agli storici dell’arte si è ingenerata l’idea che tali figure, istituzionalmente e di fatto, preposte ai beni DEA, ne avessero anche le competenze scientifiche (le “arti minori”). Ne sono derivate attività non pertinenti in materia che hanno contribuito ad aumentare la confusione: lo testimoniano, ad esempio, le tante schede FKO e BDM nel Catalogo generale compilate da storici dell’arte, applicate a oggetti che appaiono privi dell’interesse culturale DEA, oppure in cui l’interesse culturale DEA è riconoscibile, ma non viene adeguatamente individuato e quindi restituito.
La soppressione del MNATP e la nascita dell’Istituto Centrale per il Patrimonio DEA
Fra le varie richieste avanzate al Ministero dall’Associazione Bianchi Bandinelli, a cavallo fra i due secoli, vi era stata anche quella di fondare un istituto speciale per i beni DEA che potesse rappresentare un luogo di indirizzo e di coordinamento per l’intero settore disciplinare. Il Ministero non raccolse l’invito, fatto salvo riprendere l’idea molto più tardi, in modo strumentale e orientandola in una diversa direzione.
Nel 2007, infatti, con DPR 233/2007, fu istituito l’Istituto centrale per la demoetnoantropologia (Icde), dotato di compiti ambiziosi, fra cui: «tutela, salvaguardia, valorizzazione e promozione, in Italia ed all’Estero, dei beni costituenti il patrimonio etnoantropologico italiano, nonché studio, ricerca, esposizione e divulgazione della conoscenza dello stesso […]». Purtroppo il successivo ordinamento dell’Icde (DM 7 ottobre 2008) conteneva due punti del tutto sfavorevoli al settore disciplinare che si pretendeva di promuovere: che l’Istituto subentrasse al Mnatp e che il Museo fosse «conseguentemente soppresso»; che l’Istituto fosse diretto da un «dirigente storico dell’arte». Il motivo di questa impostazione, mai messa in discussione entro il Ministero e mai modificata, resta sibillino e indicativo della scarsa attenzione per i beni DEA e anche dell’ostinazione ad abbinare gli stessi ai beni storico-artistici, negando loro un’autonomia disciplinare. Di fatto tutti i direttori dell’Icde sono stati storici dell’arte, a partire da Stefania Massari, già direttore del Mnatp e promotrice della nascita dell’Istituto.
Il Mnatp, con la sua storia e impostazione di istituto di ricerca, venne dunque soppresso e inglobato nell’Icde con il ruolo di mero polo espositivo; la sua biblioteca e i suoi archivi documentali cartacei e audiovisivi (storico, fotografico, sonoro, video-filmico) furono «trasferiti all’Icde che vi subentra in tutti i rapporti giuridici». Così l’Icde ha acquisito tutto ciò che aveva costituito l’attività di ricerca del Museo, e il Museo è stato declassato a luogo in cui «sono conservate le testimonianze culturali materiali ed immateriali delle tradizioni regionali italiane»: in tal modo le collezioni sono state separate dai documenti che ne costituivano il senso e le chiavi di lettura e si è originata una divisione che poi è diventata radicale con il costituirsi del MuCiv, di cui dirò più avanti. La nascita sghemba dell’Icde ha determinato, a mio parere, anche il suo ondivago sviluppo avvenuto con la riforma Franceschini 2016-2021.
La riforma Franceschini: la tutela dei beni DEA
La recente riforma Franceschini, avvenuta in più tappe, dal 2016 al 2021, ha investito in modo consistente il settore DEA del Ministero. Con la Riorganizzazione del Ministero per i beni e le attività culturali e per il turismo (Mibact) del 2016 (DM 44/2016), anticipata dal Regolamento di organizzazione del 2014 (DPCM 171/2014), la tutela dei beni DEA ha avuto finalmente una sua collocazione autonoma sia nella Direzione generale Archeologia, belle arti e paesaggio (DG Abap), con l’istituzione del nuovo Servizio VI «Tutela del patrimonio demoetnoantropologico e immateriale» – e anche Direzione dell’Icde –, sia nelle Soprintendenze territoriali Abap, in ciascuna delle quali è stata attivata un’Area funzionale «Patrimonio demo-etnoantropologico». Sembra quasi un miracolo. Va comunque notata l’opinabilità della scelta che ha guidato la titolazione del nuovo Servizio: perché aggiungere «e immateriale», come se si tratti di una doppia competenza della struttura? Se «immateriale» si riferisce ai beni DEA l’aggiunta appare inutile perché, come ben sappiamo, per essi l’interesse culturale risiede proprio negli aspetti immateriali. Se invece con «immateriale» si allarga il ventaglio disciplinare, anche con riferimento alla Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale dell’Unesco (2003), allora perché collocare questo tema proprio nel Servizio VI che concerne la tutela di beni materiali DEA? Perché abbinare il patrimonio immateriale, non tutelabile ai sensi del Codice, a una struttura deputata alla tutela? E di conseguenza perché allocare la Direzione dell’Icde nel Servizio VI? Sono domande che sembrano evidenziare una contraddizione destinata a restare irrisolta e a marcare tutto il percorso normativo a seguire.
Nello stesso anno è stato bandito un concorso per funzionari tecnici, della terza area, e questa volta finalmente è stata accesa una specifica graduatoria per i beni DEA da cui sono derivate le assunzioni di diciannove funzionari. Si è trattato di un avvio, per il momento con un numero estremamente esiguo, insufficiente visto che si partiva da zero: in realtà pochissime sono le Aree funzionali DEA delle Soprintendenze Abap affidate a figure DEA, mentre le restanti sono affidate a figure non DEA. Si perpetua quindi la vecchia cattiva pratica degli incarichi DEA affidati ad altri, aggravata ora dalla nominalità disciplinare delle nuove aree tecniche.
Con il Regolamento di organizzazione del 2019 (DPCM 169/2019) l’Icde viene convertito in Istituto Centrale per il patrimonio immateriale (Icpi), mantenendo tuttavia, di base, gli stessi compiti e le stesse funzioni che già erano dell’Icde, riferite sostanzialmente al settore DEA: «opera per la salvaguardia e la valorizzazione, in Italia e all’estero, dei beni culturali demoetnoantropologici, materiali e immateriali, e delle espressioni delle diversità culturali presenti sul territorio» (http://www.idea.mat.beniculturali.it/l-istituto).
La nuova denominazione dell’Istituto sembrerebbe ampliare l’oggetto di riferimento, passando da un settore disciplinare a una più generale categoria. Infatti non si può, a buon ragione, ritenere che il patrimonio immateriale italiano sia composto dai soli beni DEA, anche se il settore DEA è probabilmente quello che ha sviluppato competenze metodologiche maggiormente strutturate e consolidate in quella direzione. Ma altre discipline potrebbero egualmente rivendicare una competenza sul patrimonio immateriale: occorrerebbe dunque prevedere ulteriori riferimenti disciplinari e ulteriori figure tecniche. D’altra parte l’Icpi, in quanto filiazione dell’Icde, dipende ancora dal Servizio VI “Tutela del patrimonio demoetnoantropologico e immateriale” dalla Direzione generale Abap e resta dunque ancorato alla tutela DEA: una scelta che non mi sembra coerente.
Con il Regolamento del 2021 (DPCM 123/ 2021), che modifica il precedente del 2019 e rinomina il Mibact in Ministero della Cultura (MiC), il Servizio VI della DG Abap viene abolito e l’Icpi ne assume in qualche modo le competenze, fornendo «supporto al Direttore generale Archeologia, belle arti e paesaggio nell’esercizio delle funzioni riferite ai beni demoetnoantropologici» (DM 46/2022). Come leggere questo ulteriore passaggio, che, oltre ad ancorare ancora di più l’Icpi al settore DEA, modifica la percezione della tutela DEA, intendendo che la tutela dei beni DEA anziché esplicarsi nelle «cose», come avviene per gli altri beni culturali di cui all’art. 2 del Codice, si esplica nel patrimonio immateriale, non tutelabile ai sensi dello stesso Codice? E inoltre, in mancanza del Servizio VI nella DG Abap, quale specifico riferimento centrale, analogo a quelli degli altri settori disciplinari, potranno avere le Aree funzionali Patrimonio demoetnoantropologico delle Soprintendenze che operano sul territorio?
L’abolizione del Servizio VI, difficilmente comprensibile all’esterno, sembra marcare un passo indietro nel percorso di equiparazione del settore DEA nel MiC. Gli ultimi sviluppi della riforma Franceschini, con i decreti del 2019 e del 2021, confermano come l’applicazione della tutela al settore DEA sia ancora poco chiara e soprattutto difforme rispetto a quella applicata agli altri settori disciplinari “fratelli”: l’individuazione delle «cose» che presentano interesse culturale DEA, infatti, resta disancorata da una solida tradizione interpretativa e dunque appare controversa e persino soggettiva in mancanza di una chiara distinzione fra il concetto giuridico di bene culturale DEA e il concetto, di più ampio significato, di patrimonio DEA in cui l’interesse si focalizza sui processi di patrimonializzazione con tutto quello che ne consegue.
La crescente distanza che esiste fra le pratiche applicate ai beni archeologici, architettonici e storico-artistici, da un lato, e quelle applicate i beni DEA, dall’altro, è il segno di una mancata integrazione di questi ultimi nella cornice legislativa della materia e nella prassi operativa del Ministero.
La riforma Franceschini: la valorizzazione dei beni DEA, il MuCiv
Con la riforma Franceschini del 2016 (DM 44/2016), sul fronte della valorizzazione ormai separato da quello della tutela, i due storici Musei nazionali di riferimento DEA che si era auspicato si potessero unificare in un unico polo, sono stati accorpati ad altri due musei nazionali, il Museo dell’Alto Medioevo e il Museo d’Arte orientale, a costituire nel loro insieme il Museo delle Civiltà (MuCiv), sulla base della loro comune allocazione o riallocazione geografica nel quartiere dell’Eur di Roma. L’accorpamento, che nel 2017 si è allargato all’ex Museo Coloniale, ha provocato l’abolizione degli originari Musei nazionali (il Mnatp, come si è visto, era stato formalmente già abolito) che sono diventate altrettante sezioni tematiche della nuova struttura autonoma. Una scelta difficile da comprendere per via della forte eterogeneità dei contenuti museali e dei riferimenti alle singole tradizioni di studi, in un Ministero la cui impostazione si è finora basata su distinti settori disciplinari, pur non mancando dialoghi, scambi e collaborazioni fra di essi. Nel MuCiv comunque la presenza DEA appare rilevante per via dell’apporto dei due ex musei e del ruolo di riferimento e di indirizzo che gli stessi hanno ricoperto a livello nazionale.
Nel 2022, com’è storia recente e nota, la Direzione del Muciv viene assegnata ad Andrea Viliani, uno dei sei vincitori della selezione pubblica internazionale per il conferimento di incarico di direttore di altrettanti musei e parchi archeologici. Il nuovo direttore possiede competenze ed esperienze interamente collocate sul versante dell’arte contemporanea: si tratta di un settore estraneo al MuCiv per cui la scelta desta stupore, tanto più se confrontata con gli altri cinque direttori designati: 3 direttori archeologi in parchi archeologici; 2 direttori storici dell’arte in musei di arte.
Il nuovo programma del MuCiv, presentato dal direttore nel luglio 2022 (https://www.youtube.com/watch?v=iwnat4ABrY8&t=478s), si concentra sull’ex Museo “Pigorini” e sull’ex Museo Coloniale; prevede «un processo di progressiva e radicale revisione» che include «il ripensamento e riallestimento delle collezioni e degli archivi museali e la ridefinizione dei criteri di studio» (https://drive.google.com/drive/folders/1Cd8vscwdYPhDQHlOt3lptYCAxJqct0g), da realizzare con l’apporto di artisti contemporanei a cui viene affidato, mediante borse di studio di ricerca, il compito di interpretare le collezioni attraverso le proprie opere. Su tale base il MuCiv ha ricevuto il PAC2021 – Piano per l’Arte Contemporanea dalla Direzione generale Creatività contemporanea del MiC «per l’acquisizione del primo nucleo di opere della sua collezione di arte contemporanea». Nel comunicato del Museo si legge:
«La proposta del Museo delle Civiltà di Roma mira all’avvio di una nuova sezione delle proprie collezioni dedicata all’arte e alla creatività contemporanea, che si inserisca trasversalmente a quelle antropologiche, etnografiche e paleontologiche.
L’arte contemporanea entra quindi nel lavoro quotidiano di ricerca e nella funzione pedagogica del museo come una metodologia che collabora a indirizzare il lavoro di ripensamento critico e autocritico e di riposizionamento complessivo del Museo delle Civiltà, sulla scena contemporanea nazionale e internazionale.
Queste acquisizioni rispecchiano e integrano una delle nuove linee programmatiche del Museo delle Civiltà, che consiste in inviti di lungo termine agli artisti contemporanei per sostenere la loro ricerca in corso, attraverso risorse dedicate e un libero e articolato accesso alle collezioni, agli archivi e ai depositi del museo. Una pratica che riconfigura il museo come strumento di un dialogo interdisciplinare e come un organismo che supporta la ricerca artistica, lasciando che questa ne influenzi la programmazione, e quindi il ruolo e la funzione pubblici» (https://museocivilta.cultura.gov.it/il-museo-delle-civilta-riceve-il-pac2021-piano-per-larte-contemporanea-per-lacquisizione-del-primo-nucleo-di-opere-della-sua-collezione-di-arte-contemporanea/).
L’impostazione del “nuovo corso” sembra scardinare – solo per il settore DEA? – il sistema sin qui operante nel Ministero basato sulla distinzione delle diverse tipologie di beni culturali e sulle relative competenze in capo ai rispettivi funzionari tecnico-scientifici. Se l’interpretazione degli oggetti di interesse DEA del MuCiv viene affidata agli artisti contemporanei (con quali strumenti?), anziché ai funzionari tecnico-scientifici DEA, il profilo DEA si svuota delle sue prerogative, fra le quali vi è proprio l’interpretazione degli oggetti di interesse DEA, presenti sul territorio o conservati nei musei, condotta mediante gli strumenti scientifici e metodologici di una disciplina che ha una sua consistenza e una sua storia in Italia. In una prospettiva come quella oggi disegnata dalla Direzione del MuCiv i beni culturali DEA perdono la loro riconoscibile specificità. Viene da domandarsi se una revisione di una tale portata sarebbe possibile nei musei di archeologia o di storia dell’arte. Probabilmente no.
Tanto eteree sono le basi del settore DEA nel MiC che quando la riforma Franceschini, nel 2016, ha separato la tutela dalla valorizzazione, quindi le Soprintendenze dai Musei, la questione, vissuta come problematica negli altri settori, non è stata neanche avvertita nei contesti DEA del Ministero, dove, a fronte di una consolidata tradizione di gestione museale, restava totalmente assente la pratica di tutela nelle Soprintendenze – non potendosi certo considerare tale quella condotta in precedenza dagli storici dell’arte.
Come abbiamo visto, i nuovi, pochi, funzionari DEA nelle strutture di tutela sono stati assunti solo nel 2017: un attardamento che impedisce di avere radici. Inoltre, come ho già accennato, i mancati concorsi per dirigenti DEA, che avrebbero dovuto anch’essi venire attivati dopo il Regolamento del 2000 e dopo l’avvio del profilo DEA del 2001, hanno determinato una debolezza mai risolta: senza dirigenti nessuno ha spinto per una piena autonomia del settore, per i concorsi dei funzionari, per l’inserimento di figure DEA negli organici delle Soprintendenze, per una corretta conduzione della tutela DEA sul territorio, per una generale vigilanza del campo disciplinare.
Ovviamente il contesto specifico interno al MiC, con la sua storia, i suoi sviluppi e le sue mancanze (Simeoni 2015), non è l’unico responsabile della condizione di marginalità dei beni DEA. Altri motivi si aggiungono che hanno a che vedere con la nostra storia nazionale e sui quali rinvio alle pertinenti osservazioni già espresse da Francesco Faeta (2018). Fra i diversi motivi aggiungerei anche una certa confusione che perdura, in modo acritico, fra beni culturali DEA e patrimonio culturale DEA inteso in senso processuale: due sfere di saperi e di pratiche distinte e diversamente collocate, con funzioni e scopi differenziati che non possono venire utilmente fraintese o sovrapposte. La sfera dei beni culturali DEA nel MiC è un settore applicativo delle discipline demoetnoantropologiche che, in quanto tale, deve avere un suo specifico statuto coerente con le funzioni esercitate dal Ministero in base alla norma nazionale e alla sua stessa organizzazione. Ed è proprio da questa condizione che può derivare, alle figure tecniche DEA, la necessaria autorevolezza basata sul riconoscimento della competenza.
Credo sia utile, in tal senso, un confronto, con i settori disciplinari di più consolidato impianto: quelli archeologico, architettonico e storico-artistico. Per fare un esempio, in una lettera inviata al Ministero da una pluralità di associazioni di archeologi, il 23 aprile 2021, veniva fatto notare che:
«Sono a più riprese giunte a queste Associazioni notizie di incarichi di stretta competenza archeologica […] assegnati ad altre professionalità, sia nell’ambito dirigenziale che nell’area terza; tali incarichi vengono spesso motivati con scarsità di personale o con un non ben definito “compendio di competenze”, con palese disattenzione alla prassi della caratteristica prevalente […], con palese rischio di compromettere l’azione amministrativa e soprattutto di tutela per palese difetto di competenza degli incaricati, con risvolti peraltro negativi anche in relazione a conoscenza e ricerca». (https://apimibact.wordpress.com/2021/04/23/attribuzione-di-incarichi-e-profili-professionali/).
Il linguaggio burocratico della missiva non nasconde una fermezza non negoziabile. I firmatari concludono la lettera richiamando le Soprintendenze Abap e le Direzioni regionali Musei al rispetto delle norme e dei regolamenti applicativi nell’attribuzione degli incarichi. Mai successo nulla di simile sul versante DEA, dove, come abbiamo visto, gli incarichi sono spesso disinvoltamente assegnati ad altre figure: si tratta di un problema sentito e condiviso da una larga maggioranza della comunità scientifica del settore, che da lungo tempo chiede con fermezza il medesimo quadro di rispetto delle competenze disciplinari e le medesime garanzie.
Ora sembra si sia aperto un canale per l’inserimento delle figure DEA nella dirigenza, con il concorso per dirigenti tecnici di seconda fascia bandito nel novembre 2021, a cui può partecipare anche chi possiede una laurea magistrale nella classe LM-1, ma se si va a ben guardare, si nota che questo concorso non recluta una dirigenza specialistica dei diversi settori disciplinari, come è stato in passato (dirigenti archeologi, dirigenti architetti ecc.), bensì una dirigenza tecnica destinata a tre specifiche aree: archivi e biblioteche; soprintendenze archeologia, belle arti e paesaggio; musei. La “vecchia” tipologia del dirigente specialista di uno specifico settore disciplinare sembra ormai tramontata e si va verso un concetto di dirigenza unica, manageriale. Sarà dunque difficile per il settore DEA, anche con l’eventuale reclutamento di dirigenti con formazione DEA vincitori di questo concorso o di altri analoghi futuri, recuperare l’attenzione che il mancato ruolo ha sinora impedito di ottenere.
Nell’attuale quadro, complesso e problematico, credo sia più che mai necessario definire con chiarezza e in modo univoco un perimetro e un metodo per la collocazione organica dei beni culturali DEA nel MiC, così da rafforzare l’autorevolezza e l’autonomia tecnico-scientifica del settore senza le quali l’auspicabile equiparazione e la corretta integrazione restano obiettivi difficilmente raggiungibili.
Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022
Riferimenti bibliografici
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D’Elia A. – De Santis S., (a cura di) 2004, Documenti d’Archivio 1908-1964, in S. Massari, Arti e Tradizioni. Il Museo Nazionale dell’Eur, Roma, De Luca: 194-499.
Faeta F., 2018, Prefazione, in Tucci 2018: 11-19.
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Lattanzi V., 2009, “Musei etnografici, patrimoni e (s)oggetti migranti”, Lares, 3: 649-654.
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Simeoni P.E., 2015, Quale patrimonio demoetnoantropologico?, in U. D’Angelo – R. Scognamillo (a cura di), L’Italia dei Beni culturali: i nodi del cambiamento, Associazione Bianchi-Bandinelli, Roma, Iacobelli: 71-84.
Tucci R., 2005, “Codice dei beni culturali e del paesaggio e i beni etnoantropologici: qualche riflessione”, Lares, LXXI, 1: 57-70.
Tucci R., 2018, Le voci, le opere e le cose. La catalogazione dei beni culturali demoetnoantropologici, Roma, Istituto centrale per il catalogo e la documentazione. http://www.iccd.beniculturali.it/getFile.php?id=6457
Tucci R., 2021, “I beni culturali etnografici nella Commissione Franceschini: una presenza marginale”, Il capitale culturale, 23:529-552. https://riviste.unimc.it/index.php/cap-cult/article/view/2610.
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Roberta Tucci, docente della Scuola di Specializzazione in Beni demoetnoantropologici di “Sapienza” Università di Roma, ha effettuato ricerche sul campo di interesse etnomusicologico ed etno-oganologico in Calabria e in altre regioni centro-meridionali. Si è occupata di catalogazione dei beni culturali demoetnoantropologici presso il Centro Regionale di Documentazione della Regione Lazio e dal 2012 presso l’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione (ICCD) del MiC come funzionaria demoetnoantropologa, curando la normativa della scheda BDI (2002, 2006) e l’aggiornamento della scheda BDM (2014, 2016). Tra le sue pubblicazioni: Il Codice dei beni culturali e del paesaggio e i beni etnoantropologici: qualche riflessione, in “Lares”, 1, 2005; Le voci, le opere e le cose. La catalogazione dei beni culturali demoetnoantropologici, ICCD, Roma, ICCD, 2018; “Ricerca e catalogazione della cultura popolare”: una sperimentazione consapevole, in L’eredità rivisitata, a cura di A. Ricci, Roma, CISU, 2019; Rievocazioni storiche, feste tradizionali, beni demoetnoantropologici: qualche considerazione, in Feste tradizionali e rievocazioni storiche, a cura di F. Trovò, Saonara, Il Prato, 2020; I beni culturali etnografici nella Commissione Franceschini: una presenza marginale, in “Il capitale culturale”, 23, 2021.
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