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Catastrofi in-naturali e crisi ambientali nelle Marche del 2022

 

Monocoltura cerealicola nel territorio di Osimo, anni 90

Monocoltura cerealicola nel territorio di Osimo, anni 90

il centro in periferia

di Marco Moroni 

L’alluvione che nel settembre 2022 ha devastato il territorio anconitano e in particolare la valle del Misa fino a Senigallia è l’ennesima prova del cambiamento climatico. Agli occhi di uno storico marchigiano come me, quella che abbiamo di fronte non è la prima crisi ambientale del territorio regionale. E non mi riferisco all’alluvione che nel 2014 devastò la stessa valle del Misa e Senigallia provocando anche tre morti. Prima di questa, nel passato più lontano ve ne sono state almeno altre due: negli ultimi decenni del Cinquecento e nella seconda metà del Settecento. Quella attuale, però, è sicuramente una realtà diversa. Oggi gli eventi climatici estremi, che si moltiplicano con effetti sempre più devastanti, sono causati da fenomeni naturali, ma che sarebbe più corretto definire in-naturali dal momento che a provocarli sono le modificazioni che l’uomo ha apportato all’ambiente. Negare che le catastrofi di oggi derivino dal cambiamento climatico e dal saccheggio della natura operato dagli uomini non è più lecito. Vorrei dire qualcosa di più sulle vicende del passato, dopo aver aggiunto però un’altra breve premessa.

Le Marche sono una regione fragile: e non solo per i molti terremoti (a sei anni dall’ultimo dei quali ancora siamo in attesa che parta la ricostruzione), ma anche per il gran numero di catastrofi provocate dal dissesto idro-geologico. La fragilità non caratterizza solo le Marche, ma l’intero territorio della Penisola italiana. Di fronte a questa fragilità, gli abitanti del Paese non agiscono in modo razionale (come dovrebbero fare gli esseri dotati di raziocinio), cioè organizzandosi per affrontare le catastrofi e per prevenirle, ma pensano di poterle esorcizzare e annullare, rimuovendole. Il problema è che questo atteggiamento caratterizza non solo la massa degli abitanti, ma anche i governanti: nazionali, regionali e comunali. A rendere fragile il territorio marchigiano sono sia il carattere torrentizio dei fiumi che si gettano in Adriatico, sia la composizione argillosa delle colline che dominano nel paesaggio regionale.

Questa fragilità nel corso del tempo è cresciuta per effetto di alcuni interventi dell’uomo: ad esempio, a partire dal 1570, l’abbassamento delle temperature medie e l’aumento della piovosità connessi al manifestarsi di quella che gli storici del clima chiamano la “piccola età glaciale”, provocarono un gran numero di alluvioni devastanti. Per effetto dell’eccessivo diboscamento e della forte riduzione della copertura vegetale, già a fine Cinquecento nelle colline argillose del Fermano la maggiore piovosità determinò un intenso processo erosivo, con piene sempre più rovinose e un crescente numero di frane e smottamenti; erano i primi segnali di un incipiente collasso idrogeologico. Gli effetti più macroscopici della crisi allora in atto si notarono sulla costa: tra Grottammare e San Benedetto del Tronto le acque torbide di fiumi e torrenti determinarono la formazione di una piana alluvionale, la cui lenta crescita si accentuò nei primi decenni del Seicento, quando giunse al culmine il processo di sfaldamento dei suoli collinari a prevalente tessitura argillosa, denudati nel corso del secolo precedente. Il fenomeno è così rilevante che, in seguito, enti locali e privati arriveranno a contendersi quei suoli; i cosiddetti “relitti di mare”, cioè le terre lasciate dal mare (in realtà stava avanzando la costa), una volta bonificati, saranno valorizzati a fini agricoli e poi diventeranno la zona di espansione dell’attività marittima del nuovo centro urbano di San Benedetto del Tronto.

Col tempo si comprese che frane e smottamenti erano favoriti dall’eccessivo diboscamento, realizzato nel cinquantennio precedente per alimentare una popolazione in forte crescita, e dalla monocoltura cerealicola praticata sulle colline argillose; correggendo i loro errori, gli uomini del passato decisero perciò di rivestire le colline che avevano denudato e di coltivarle non con l’arativo nudo, ma con l’arativo vitato e arborato; gli olivi sparsi nei campi, i filari di viti sostenuti da aceri e alberi da frutta e la rete dei fossi scolmatori permisero di raggiungere i risultati sperati: la tenuta delle colline e l’aumento della produttività agricola.

Case e poderi nella collina senigallese, anni 60

Case e poderi nella collina senigallese, anni 60

Un fenomeno analogo si manifestò nella seconda metà del Settecento. Anche questa seconda fase critica venne provocata da una forte crescita della popolazione (e quindi dei coltivi, a spese dei boschi) e da un nuovo peggioramento climatico; ancora una volta non mancarono smottamenti lungo la fascia costiera, ma gli effetti peggiori si manifestarono nell’entroterra. Nello sforzo di dare una maggiore stabilità alle fragili colline picene, nell’area più meridionale della regione si comprese che occorreva rispondere alle numerose vicende franose rendendo più compatta la rete poderale e intensificando il presidio delle famiglie mezzadrili sul territorio. Altrettanto avvenne nel Montefeltro. Dopo l’acuta fase di freddo intenso e forte umidità che agli inizi del Settecento aveva provocato frane a Pennabilli, San Leo, Maiolo e Perticara, l’instabilità dei suoli continuò a permanere in modo endemico in tutto il territorio feretrano-romagnolo: è emblematico che nel 1772 un geografo esperto come Giuseppe Boscovich manifesti tutta la sua meraviglia per essere giunto in una regione in cui «gli alberi vanno camminando al par degli uomini». A partire dagli anni Ottanta del Settecento, con nuove frane, si hanno chiari segnali di una incipiente crisi ambientale, che poi esploderà in modo devastante nel primo quindicennio dell’Ottocento, con movimenti franosi di particolare gravità a Sant’Agata Feltria, a Talamello e a Montegrimano.

In tutta la regione, se la crisi ambientale del Settecento rientra, malgrado il forte incremento demografico, lo si deve in gran parte al lavoro contadino. L’agricoltura mezzadrile riesce a conservare un ancora equilibrato assetto dei suoli, anche di quelli acclivati e geologicamente più fragili. Ci riesce non solo rivestendo le colline con un altissimo numero di arbusti ed alberi allineati in filari di viti paralleli o disposti a quinconce, come nel caso delle “folignate”, ma anche garantendo un costante controllo delle acque tramite una capillare rete di scoline e acquadocci e la periodica pulizia dei fossi.

Su questi territori fragili, negli ultimi cinquanta anni si sono abbattuti processi di grandi dimensioni: l’esodo montano, la riduzione delle terre coltivate, la rinuncia al controllo delle acque e alla pulizia dei fossi; una agricoltura praticata sempre più con tecniche da rapina e l’affermarsi, fra gli affittuari, del contoterzismo hanno provocato il progressivo ritorno alla monocoltura e all’arativo nudo con l’eliminazione dei filari e di ogni pianta che potesse ostacolare il lavoro delle macchine. Con l’abbandono della policoltura si torna a quelle “steppe di cereali” che erano state all’origine dei problemi idrogeologici emersi in età moderna; ciò significa che in quest’area le mutate pratiche agricole, spesso guidate soltanto da una logica meramente produttivistica, e l’estensione delle monocolture, oltre a determinare una forte semplificazione del paesaggio, hanno posto le premesse per una nuova crisi ambientale.

Negli stessi decenni si è avuta una forte crescita del consumo di suolo, ben al di sopra della crescita demografica. Questo è avvenuto soprattutto per effetto di una urbanizzazione disordinata e non governata, cioè non pianificata come invece si è fatto in altri Paesi europei: l’urbanizzazione ha investito terreni agricoli e paesaggi di pregio, zone a forte pendenza e anche aree esposte a rischio idrogeologico (nel caso delle Marche, ad esempio, gli edifici costruiti nelle aree esondabili). Sono stati ristretti e cementificati i letti dei fiumi (il Tronto è l’esempio più clamoroso), costruendo nelle aree di pertinenza degli alvei fluviali. Tutto questo, oltre a inquinare le falde acquifere, ha aumentato a dismisura il dissesto del territorio regionale, con conseguenze che vanno ben al di là dei fatti di cronaca: il dissesto idrogeologico, che a livello nazionale interessa poco più del 10 per cento della superficie complessiva, nel caso delle Marche tocca il 18 per cento della superficie regionale.

Il dato ancor più sorprendente è che tutto questo è avvenuto nonostante la produzione legislativa a partire dagli anni Ottanta sia stata molto più attenta alla protezione del territorio e alla tutela degli equilibri ambientali. Le leggi approvate negli anni Ottanta-Novanta non hanno avuto gli esiti sperati per le resistenze sia dei cittadini, sia delle istituzioni, che hanno permesso deroghe e introdotto molti condoni. Sta di fatto che dagli anni Novanta il consumo di suolo provocato dai processi di urbanizzazione incontrollati invece di diminuire è aumentato; per non parlare di quello che è avvenuto nei litorali (anche nelle Marche), in barba alla legge Galasso. L’urbanizzazione caotica ha poi prodotto altri effetti: carenze nei trasporti pubblici e in altri servizi pubblici e fortissima crescita del trasporto privato, con conseguente aumento dei problemi dovuti al traffico e all’inquinamento.

Una collina nel territorio di Osimo, anni 90

Una collina nel territorio di Osimo, anni 90

Malgrado quanto scritto finora, forse è possibile chiudere con una valutazione in chiaroscuro. Da un lato (quello scuro), finora le istituzioni comunali, regionali e nazionali si sono rivelate incapaci di frenare il consumo di suolo e l’abusivismo edilizio, contenere il dissesto idrogeologico, affrontare in modo efficace lo smaltimento dei rifiuti urbani e industriali, contrastare la criminalità ambientale, promuovere un efficiente servizio di trasporto pubblico. Dall’altro lato (quello chiaro) alcuni segnali positivi non mancano: la recente riduzione delle emissioni di anidride carbonica, l’incremento delle energie rinnovabili, la crescita dell’industria del riciclo, lo sviluppo della green economy a basso impatto ambientale, la diffusione della sensibilità ecologica fra i giovani, infine la l’espansione dell’agricoltura biologica, che è divenuta una risorsa economica importante.

Servono politiche di incentivo a tutta l’economia ecosostenibile. Così come servono politiche che riducano il consumo di suolo e sostengano invece la riqualificazione urbana. Ovviamente servono politiche di freno all’abusivismo e di prevenzione del dissesto. Insomma: servono politiche adeguate e una classe dirigente altrettanto adeguata (e qui è difficile essere ottimisti): serve non solo una classe politica adeguata, ma un’intera classe dirigente, così come serve una società civile più sensibile e più attiva.

Tutti i dati disponibili dimostrano che è in atto una terza crisi ambientale, dopo quelle di fine Cinquecento e di fine Settecento. Il processo di riforestazione, pur ponendo altri problemi, sta attenuando gli effetti dell’attuale crisi ambientale nelle aree appenniniche, ma nella fascia collinare la fragilità dei suoli, sottoposti a pressioni ormai insostenibili, è tale che fenomeni eccezionali potrebbero avere effetti dirompenti. Quanto accaduto in provincia di Ancona nel settembre di quest’anno lo conferma. Con un insegnamento di fondo: gli eventi climatici estremi, che con il cambiamento climatico non saranno più fenomeni eccezionali, possono portare al collasso ampie zone del territorio regionale, ma quegli eventi diventano catastrofici soprattutto per causa nostra: per l’incuria delle amministrazioni locali, per la mancata manutenzione del territorio, per l’assenza di interventi di prevenzione (ad esempio le casse di espansione nel caso dei fiumi), per gli investimenti volti alla realizzazione immediata di grossi profitti con progetti di turismo “mordi e fuggi”, per la mancanza di progettualità sostenibili nel lungo periodo. L’emergenza climatica interpella non solo i governi (nazionali e locali) e le imprese, ma anche i cittadini. Senza una decisa pressione dei cittadini, sarà difficile evitare la catastrofe ecologica. 

Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022

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Marco Moroni, ha insegnato Storia economica presso la Facoltà di Economia dell’Università Politecnica delle Marche (Ancona) ed è stato membro della direzione della rivista “Proposte e ricerche”. Attualmente coordina la direzione della rivista “Marca/Marche”. Dopo essersi occupato di storia dell’agricoltura mezzadrile, ha studiato i processi di industrializzazione della “Terza Italia” e, più di recente, la storia dell’Adriatico e dell’area balcanica in età moderna. Dopo il terremoto del 2016 ha dedicato vari saggi alla storia dell’Appennino. Tra i suoi lavori degli ultimi anni si segnalano: L’impero di San Biagio. Ragusa e i commerci balcanici dopo la conquista turca (1521- 1620), Bologna, Il Mulino, 2011; Le radici dello sviluppo. Economia e società nella storia delle Marche contemporanee, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2013; Recanati in età medievale, moderna e contemporanea, Fermo, Andrea Livi Editore, 2018-2021.

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