il centro in periferia
di Leonardo Animali, Marco Giovagnoli
Leonardo Animali
Questo nostro dialogo avviene all’indomani di un nuovo episodio grave accaduto nel pomeriggio di lunedì 10 ottobre a Matelica, dove un nubifragio molto intenso in pochi minuti ha allagato una zona della città; fortunatamente senza conseguenze per la popolazione. Ciò ci conferma, al di là dell’intensità e dell’imprevedibilità dei fenomeni meteorici, che c’è oramai strutturato un problema generale di fragilità del territorio marchigiano, sia nelle aree adiacenti alle aste fluviali, sia in centri urbani non necessariamente a ridosso di corsi d’acqua.
Siamo anche a quasi un mese dalla tragedia alluvionale che ha riguardato le valli del Misa, del Cesano e del Nevola. Relativamente a questo passaggio temporale, mi vengono in mente due riflessioni che ti propongo. La prima, è che oramai il nostro territorio si presenta del tutto impreparato a essere oggetto di fenomeni meteorici intensi; c’è da una parte un ritardo di manutenzione e cura non fatte, o fatte male, talmente stratificato che qualsiasi allertamento del sistema di protezione civile non riesce a limitare alcunché, se non il sensibilizzare la popolazione a tenere comportamenti volti alla precauzione e alla prudenza. Se posso usare una metafora sportiva, è come se il nubifragio, o altro evento estremo, calciasse un rigore a porta vuota.
La seconda riflessione è che, oramai ad un mese dal 15 settembre, come in ogni catastrofe naturale che si possa rievocare, l’attenzione dell’opinione pubblica, e dei riflettori mediatici, si è già molto attenuata, se non quasi spenta. Le conseguenze dell’alluvione oramai sono già “di competenza esclusiva” di quanti hanno subìto danni, che sanno, come in circostanze storiche analoghe, che dovranno rimboccarsi le maniche più o meno da soli. In questo, emerge un altro tema ricorrente dei disastri in Italia: la coscienza collettiva e comunitaria di quanto accaduto. Questo porta ad un altro aspetto: non vedo, ad oggi, nessun embrione di ripensamento, non dico di pentimento, per quanto accaduto; cioè l’emersione, in forma di verità condivisa da tutti, del fatto che il 15 settembre 2022, così come il 3 maggio del 2014, siano la conseguenza di almeno 25 anni di scelte urbanistiche, edilizie e paesaggistiche sbagliate. Se non c’è questo passaggio pubblico di ammissione di questa verità, difficilmente si potranno fare passi in avanti, ma semplicemente, attendere la prossima sciagura.
Marco Giovagnoli
Colgo alcune tue suggestioni: la prima riflessione riguarda la nostra regione, le Marche, la quale storicamente, in un orizzonte almeno risalente al secondo Novecento, è una regione molto delicata dal punto di vista idrogeologico, con una chiara connessione alla sua conformazione geomorfologica – è una regione abbastanza stretta, con un passaggio costa/collina/montagna relativamente rapido, molti fiumi a regime torrentizio, etc. Su questo dato naturale si è rovesciato un non-governo del territorio, come tu hai tratteggiato, e faccio ad esempio riferimento alla stagione storica delle rettificazioni dei corsi dei fiumi che in molte zone sono diventati quasi canali di scolo sino alla foce, tombamenti, espansioni insediative incontrollate, ed altro. I dati Ispra ci dicono che nella nostra regione è particolarmente critica la fascia dei 300 m. dalla costa verso l’entroterra, con una urbanizzazione e un consumo di suolo particolarmente rilevanti rispetto alla media nazionale.
Un’altra riflessione che hai fatto e che secondo me è molto corretta fa riferimento al fatto che, in analogia con molti altri temi che hanno a che fare con la questione degli equilibri ambientali, su questa delicatezza geomorfologica della regione si è rovesciato un progetto sviluppista di tipo estrattivo che nei termini utilizzati da Andrea Zanzotto appare come un progresso scorsoio, determinando le strozzature e la vulnerabilità che vediamo oggi. Un’altra riflessione che hai fatto e che condivido fa riferimento al calo della soglia collettiva di attenzione, nel senso che il tema della vulnerabilità idrogeologica, come altri temi che hanno a che fare con i disequilibri ambientali avvertiti solo nel momento puntuale, viene declinato nei termini di una percezione di causa-effetto: la perturbazione ambientale viene percepita solo quando avviene (in altri termini c’è una incapacità di capire la dinamica sul lungo periodo del mutamento ambientale, che viene colto invece solo nel momento in cui si manifesta) e da lì in poi c’è solo il problema di riassestare le cose e di proseguire lungo il medesimo sentiero di sviluppo. Non si comprenderebbe altrimenti la numerosità delle opere infrastrutturali pesanti, ad esempio, generate nel contesto del PNRR e altri programmi strutturali che riguardano tra le altre l’intensificazione del consumo di suolo soprattutto per quanto concerne lo sviluppo a traino turistico (te la porrò come questione più avanti) del nostro entroterra.
Tu hai parlato di eccezionalità e questa è un’ultima considerazione che ti porgo con riferimento agli eventi atmosferici soprattutto della fine dello scorso settembre: quella accaduta è stata ovviamente una eccezionalità dal punto di vista meteorologico e non c’è dubbio che quello che è successo nell’area del Misa/Cesano/Nevola sia stato un qualcosa fuori dall’ordinario, un evento di portata anomala. Ma per quanto riguarda altri fenomeni di intensità rilevante ma non paragonabile a quelli di settembre c’è ovviamente da riflettere come non siano fenomeni fuori da una normale prevedibilità e ricorrenza, per cui ho l’impressione che questa fragilità, questa debolezza che noi scopriamo fondamentalmente ad ogni perturbazione atmosferica sia certo determinata dall’evento eccezionale quando c’è, ma non addosserei ad una pioggia di pur notevole intensità (non mostruosa come quella di settembre) la responsabilità dei disastri, dei dissesti che vediamo conseguentemente; in altri termini ho l’impressione che questa colpevole fragilizzazione del territorio ‘scarichi’ su un evento meteorico anche importante ma non drammatico la responsabilità delle conseguenze – quelle sì drammatiche – che genera.
Leonardo Animali
Rispetto alle tue considerazioni credo vadano messi due punti fermi, che sostengono quanto da te evidenziato. Il primo: stiamo attenti a non fare del tema della “straordinarietà” del fenomeno meteorico un elemento autoassolutorio. L’imprevedibilità e la mancata storicizzazione di un fenomeno di tal genere risolvono qualsiasi processo di analisi su quanto è accaduto. Sarebbe questa la via d’uscita più semplice. Questo sta insieme con un altro aspetto: ovvero se il territorio dove insiste il cambiamento climatico, con fenomeni non storicamente classificati, rappresenti o meno il prodotto dell’inconsapevolezza dell’azione nel tempo delle scelte operate dalle diverse classi dirigenti. Riguardo a ciò, io credo che, relativamente all’azione dell’uomo nel tempo (urbanistica, edilizia, infrastrutturale), il territorio sia espressione rigorosamente e razionalmente consapevole delle scelte operate dal sistema dei “decisori” a vario livello.
Il territorio è stato modificato, “piegato”, in maniera lucida per rispondere alla realizzazione di un determinato modello di sviluppo economico. Senigallia in questo fotografa, purtroppo, questo concetto; lì da almeno vent’anni, le scelte urbanistiche, tese a rafforzare l’industria del turismo, hanno modificato profondamente il già poco paesaggio naturale o agricolo rimasto disponibile, ed è chiaro che ciò ha significato un’alterazione profonda dell’assetto idrogeomorfologico della zona. Lo stesso, seppur diversamente nei modi, è avvenuto lungo le valli fluviali, dove si sono attuati piani di sviluppo urbanistico espansivo per il sistema delle piccole a medie imprese; questo ha portato alla edificazione di aree industriali ed artigianali a ridosso dell’alveo dei fiumi. E questo è la conseguenza di una volontà e visione ben precisa, in cui al massimo ci può essere superficialità ed ignoranza, o persino una spregiudicatezza dei decisori politici, ma queste comunque sono state scelte sempre sostanziate da pareri tecnici e competenze amministrative e giuridiche. Sapevano, tutti, benissimo, quello che stavano facendo. E ciò deve essere chiaro, altrimenti perché sembra che la sciagura ed i morti siano colpa del destino cinico e baro.
Anche qui provo a dare un’ulteriore lettura a partire dalle cose che hai detto: il modello consapevole di sviluppo che è stato attuato nella nostra regione a partire dal secondo dopoguerra può essere sussunto entro il quadro concettuale ben noto della “Terza Italia”, un modello fondato sulla diffusione della piccola e media impresa e sulla occupazione lavorativa attuata in buona parte attraverso il drenaggio di chi abitava nell’alta collina o nella montagna verso le aree artigianali ed industriali vallive e della pianura; quel modello, che è stato senza dubbio un modello vincente, si è fondato anche sulla messa a disposizione da parte delle classi dirigenti politico-amministrative regionali (sia a livello centrale che locale) di quelli che noi oggi fondamentalmente chiameremmo i beni comuni: cito solo a titolo di esempio certamente la disponibilità della risorsa idrica (e non a caso molti di questi insediamenti si situano nei pressi dei corsi d’acqua o dove ve ne è ampia accessibilità, spesso degradandola); certamente anche il bene comune paesaggio, perché molti di questi insediamenti oggi li ritroviamo in quelle che consideriamo aree pregiate, ad alta qualità paesaggistica ed ambientale – con l’esito tuttavia che l’incistamento di molte di queste strutture e insediamenti artigianali-industriali (ma anche ad esempio l’attività estrattiva da cava) è stato fatto a scapito del paesaggio. Quindi paesaggio, acqua e risorse idriche, consumo di suolo (anche per le infrastrutture a servizio di queste aree): questo modello si è sviluppato a partire da una sistematica espropriazione dei beni comuni a favore dell’interesse privato, certo anche con un ampio consenso delle comunità. Ovviamente la ricaduta positiva e sociale è stata l’occupazione generata e una certa diffusione del benessere, ma noi sappiamo oggi che quel modello di sviluppo, che ha avuto un respiro molto forte per un considerevole lasso di tempo, sta andando ad esaurimento, lasciando dietro di sé quelle che non esito a definire le sue macerie – a volte anche in senso materiale, fisico, visibile in termini di ‘rovine industriali’.
Tu hai scritto un volume di grande efficacia che hai intitolato La strategia dell’abbandono e abbiamo avuto modo anche recentemente di sottolineare, in discussioni pubbliche, come l’abbandono non sia fatto solamente di ‘ritirate’, di vuoti e mancanze ma anche di eccessivo ‘dinamismo’ da parte dei ceti decisionali e dirigenti – come dire, opere e omissioni – che accelerano l’abbandono simbolico e reale dei territori. Sembra che questo modello di sottrazione dei beni comuni, questo ‘modello Marche’ fondato sul manifatturiero novecentesco (non ancora tramontato) possa essere replicato nel gigantismo delle opere pensate per lo sviluppo e la rinascita delle aree interne: faccio riferimento ad esempio agli impianti sciistici di nuova realizzazione, ai parchi-divertimento montani, alla creazione di strutture (resort, strade) ad alto impatto sempre in zone montane o ad alta qualità ambientale, o anche faccio riferimento al tentativo dell’agroindustria di espropriare le economie montane peculiari dell’Appennino sostituendole con produzioni di tipo estensivo-industriale o ancora alle opere viarie ad alto impatto. La mia impressione è che in qualche modo questo modello di sviluppo fondato sulla espropriazione dei beni comuni si stia ancora una volta replicando sotto le mentite spoglie, questa volta, dello sviluppo sostenibile a traino turistico e culturale.
Leonardo Animali
Certo. Il tema dello sviluppo “sostenibile”, torna ricorrente quando si vogliono trovare quasi “nobili” giustificazioni, o appiccicare un senso etico, a scelte che invece rappresentano nuove ferite ai territori, e modificazioni irreversibili del paesaggio naturale. Io sono da sempre convinto che questo mantra dello sviluppo sostenibile sia una sciocchezza. O meglio, lo sviluppo sostenibile non esiste. È, concettualmente, una contraddizione in termini. Lo sviluppo non è mai sostenibile, semplicemente perché qualsiasi azione di antropizzazione del paesaggio ai fini del profitto economico apporta delle modificazioni non “rinaturalizzabili” al paesaggio. Prendiamo l’esempio che hai fatto tu: gli impianti di risalita per lo sci, ad esempio sul Monte Acuto. Fino a che punto è sostenibile quell’infrastruttura: fino alla sola messa in opera dei tralicci e dei seggiolini per la risalita, oppure anche alla prevista realizzazione di un bacino artificiale d’alta quota per la generazione di neve artificiale? Nessuno di questi passaggi lascia inalterato il paesaggio, per cui non c’è alcuna sostenibilità. Persino, paradossalmente, se io mi porto in modo solitario sulla cima di un monte, la mia presenza, estranea a quell’ecosistema, altera l’equilibrio del paesaggio; e pertanto non è sostenibile. Di conseguenza, rispetto a ciò che tu hai messo a fuoco sulla politica del turismo, è dimostrabile che l’industria del turismo è semplicemente un’attività economica fine a se stessa, meglio finalizzata ad un profitto di impresa, ma non risolve, stimola o favorisce niente rispetto al tema della riabitabilità dei territori interni. Chi è occupato nell’industria del turismo nelle zone montane o di margine può benissimo lavorare come pendolare quotidiano dalla costa, che si sia imprenditore oppure dipendente. La politica per le aree interne si fa solo se si perseguono scelte che riportano abitanti, se i processi che si attivano hanno riflessi demografici stabili ed evidenti.
Marco Giovagnoli
Ancora una volta a partire da quello che dici mi vengono in mente alcune riflessioni preoccupate, premettendo che poi vorrei chiudere con una indicazione di speranza o quantomeno operativa. Il primo pensiero è che la classe dirigente che governa o ha governato da tempo questa regione – che oramai sta assumendo caratteristiche paradigmatiche anche per il resto del territorio nazionale – si è ammantata di una visione di lungo periodo che invece si è dimostrata di breve periodo (considerato che tutti gli indicatori socioeconomici volgono verso il basso, verso quella che è stata chiamata la meridionalizzazione delle Marche), con una incapacità strutturale di considerare il futuro di questo territorio in un orizzonte temporale ampio. Questo credo sia il problema centrale, cioè la necessità assoluta di una classe dirigente – parlo di classe dirigente non solo dal punto di vista politico-amministrativo ma in tutti i settori, da quello economico a quello della coesione sociale, della cultura, dell’associazionismo etc. – che sia in grado di avere una prospettiva di lungo periodo sulle condizioni che determinano strutturalmente la durabilità della persistenza delle persone, degli abitanti e delle attività economiche su questo territorio – su tutto il territorio.
Quello che sta succedendo col PNRR rischia di non essere di grande aiuto, perché l’attuazione del piano è una strategia a breve scadenza realizzativa – fatte salve ovviamente alcune misure che avranno un impatto sul lungo periodo – e appare chiaro che molta della progettualità (in particolare quella ‘materiale’) non sia nuova, non di visione, ma di recupero di idee vecchie magari fermate a suo tempo dalla scarsità di risorse economiche e che vengono tirate fuori dai cassetti e messe in opera con l’imperativo di fare presto e spendere le risorse economiche. C’è poca progettualità nuova ma anche drammaticamente poca generazione di nuovi saperi e competenze. Se esiste una via d’uscita per evitare le repliche di disastri come quello di settembre – ma più in generale io direi il declino ulteriore di questa regione – questa risiede nella necessità assoluta della creazione di una nuova classe dirigente, con una visione di lungo periodo; perché al di là dell’analisi che noi qui facciamo appare evidente che il passaggio successivo è quello di capire effettivamente come questi squilibri e disequilibri territoriali possono essere affrontati e risolti e come la persistenza degli abitanti sul territorio possa essere funzionale alla tensione e alla tenuta del territorio stesso, come anche uscire da quell’atteggiamento predatorio che ha caratterizzato lo sviluppo di questa regione e che poi ha avuto le sue ricadute e conseguenze nei disastri che si manifestano quando le condizioni critiche diventano particolarmente rilevanti (come nel caso della tempesta settembrina). Aggiungo un’ultimissima battuta: chi progetta lo sviluppo (tra le molte virgolette che giustamente tu hai messo) di questa regione sembra non rendersi conto che ogni azione ha la sua conseguenza: lo scempio ambientale permanente (visivo, acustico, territoriale) del progetto viario ‘Quadrilatero’ nelle province di Ancona e Macerata, sul quale tu hai lungamente riflettuto, ne è puntuale dimostrazione.
Leonardo Animali
Relativamente al tuo ragionamento sulla classe dirigente, in particolare quella marchigiana, io non vedo nel breve e medio periodo il muoversi, o l’affacciarsi, di una classe dirigente consapevole. Dico di più, non mi interessa individuare una classe dirigente colpevole di quanto negli anni è stato fatto, anche perché ciò è sotto gli occhi di tutti; quello che preoccupa, addirittura spaventa, è che non c’è una consapevolezza di ciò che va fatto, di come va fatto, e che va fatto subito. Gli attuali decisori, politici, economici, non hanno la minima percezione che va subito segnato un punto di svolta radicale nei processi che riguardano i territori; di conseguenza, ci si limita giusto, ma neanche sempre, al riparo dell’ultimo danno, e al sostegno economico risarcitorio al danneggiato (anche qui, quasi sempre mai esaustivo). Ma questa è una politica legata al contingente, dove non c’è alcuna visione e prospettiva.
Senigallia 2014, che si ripropone addirittura in drammatici termini esponenziali un mese fa, è la dimostrazione che la politica non ha alcuna consapevolezza. Problema questo molto serio, perché non vedo sedi e strumenti in cui questa consapevolezza possa essere acquisita e maturata. In passato c’erano i partiti, i centri studi, che pur con tutti i limiti erano luoghi di studio, analisi, approfondimento, perfino di programmazione. Oggi ci sono solo i comitati elettorali, spesso personalistici, e lì si pensa solo a vincere le elezioni del momento, e spesso ad ogni costo, non si fa certo studio e programmazione.
Marco Giovagnoli
Su quest’ultimo tema ti rispondo tra un attimo, ma prima permettimi una considerazione amara sulla quale secondo me vale la pena riflettere: nella nostra regione, soprattutto per la specificità geomorfologica di cui parlavo prima, si è sempre parlato della necessità di ricucire il dualismo costa-entroterra (dove il primo è il polo forte). Lo si è declinato in tutte le misure possibili, delle volte anche con aspetti paradossali, come ad esempio portare i turisti balneari della costa verso l’entroterra per fargli vedere cose estemporanee di ogni fatta ma ‘tipiche’, oppure portare i prodotti (e i produttori) dell’entroterra verso la costa facendosi largo tra i turisti che vengono a fare il bagno in agosto. Il dramma che ha coinvolto Senigallia e il suo entroterra ha indicato molto bene purtroppo quale potrebbe essere in futuro il legame tra la costa e l’entroterra, ed è un legame disastroso; l’evento naturale ha prefigurato chiaramente una criticità comune in cui la debolezza di un territorio si riversa in un altro e la debolezza dell’altro fa da amplificatore alle criticità del primo.
Circa la questione della classe dirigente, che secondo me è un tema centrale che può emergere da questo dialogo, chiaramente concordo con te sul fatto che sul breve (forse anche medio) periodo una nuova classe dirigente intesa, lo ripeto, in senso molto ampio non solo in termini politico amministrativi ma anche di carattere economico, di impresa, di associazionismo, culturale etc. non appare all’orizzonte; rimango però convinto che sia la questione fondamentale di questa regione ‘paradigmatica’ e credo fortemente che i luoghi della formazione di questa nuova classe dirigente non possano più essere le forme partito che abbiamo conosciuto nel ‘900 e sino ad oggi, ma si situano in altri contesti aggregativi sociali, più diffusi e puntuali, che insistono sul territorio: per quanto mi riguarda io candido a questa missione l’Università. Credo che l’Università debba (di nuovo?) essere protagonista nella creazione di una nuova classe dirigente, da quella urbanistica a quella politica, da quella economica a quella scientifica e culturale – con la consapevolezza della sua autonomia di pensiero, della sua missione – anche ponendo sotto lo sguardo critico alcuni propri coinvolgimenti con la classe dirigente attuale a sostegno del progetto di sviluppo mainstream, riflettendo sulla supposta inevitabilità di rincorrere il presente, le contingenze e le sirene dell’economico per rafforzare invece (in molti casi riprendere) uno sguardo indipendente e visionario verso il futuro.
Leonardo Animali
Sul ruolo dell’Università concordo pienamente con te. Rispetto invece ad una idea di classe dirigente in divenire, ti faccio un esempio di un’esperienza che conosciamo e frequentiamo entrambi: la Scuola di Paesaggio “Emilio Sereni” a Casa Cervi. Stando lì tra quei ragazzi ho avuto la sensazione, e la speranza, che quella sarebbe stata la nuova classe dirigente del Paese: urbanisti, ingegneri, agronomi, esperti di beni culturali, naturalisti. Che forti di una impronta non solo formativa ed accademica, ma anche etica, riusciranno non solo a non perpetuare gli errori, ma anche a riparare un po’ di danni delle generazioni che li hanno preceduti.
Marco Giovagnoli
Hai ragione e mi piace particolarmente il riferimento all’Istituto Cervi a Gattatico. Aggiungo che lì si trova, oltre le forze giovani dell’Accademia e alle professioni, anche molta ‘società civile’, come ad esempio (lo hai ricordato) i ragazzi che si occupano di Beni culturali, formati dentro le Università e i Corsi di Beni culturali e che si trovano in molti ‘a spasso’ (per colpa della assenza delle politiche pubbliche a riguardo) ma che si costituiscono come un soggetto politico a tutti gli effetti. Hai fatto bene quindi a ricordare l’esperienza del Cervi: penso i nuovi centri cui facevo riferimento più sopra sono di questa natura, spostati rispetto ai vecchi mausolei che hanno determinato la politica economica culturale e territoriale, nella nostra regione ma non solo, negli ultimi decenni.
Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022
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Leonardo Animali, ha svolto incarichi politici elettivi fino al 2012. Dal 2009 fa parte del Popolo delle Partite IVA. Dopo aver lavorato per Uffici di diretta collaborazione del Parlamento, da libero professionista si occupa di progetti formativi. Da anni si interessa di tematiche del settre ambientale e delle Aree Interne. Collabora con i settimanali diocesani “L’Azione” di Fabriano” e “Voce della Vallesina”, e con i portali di informazione “Lo Stato delle Cose” e “Terre di Frontiera”. Nel 2020 è uscito il suo primo libro La Strategia dell’Abbandono. Cronache di una modernità senza visione per Ventura Edizioni.
Marco Giovagnoli, sociologo, è docente di Sociologia dei processi economici e del lavoro e Storia e cultura dell’alimentazione presso l’Università degli Studi di Camerino ed insegna Sociologia del territorio presso l’Università degli Studi del Molise. Presidente del Corso di laurea in Scienze Giuridiche per l’Innovazione organizzativa e la Coesione sociale, Scuola di Giurisprudenza, Unicam, ha organizzato e condotto numerosi progetti di studio e analisi per conto di diversi enti pubblici, Università o istituti, sulle tematiche del lavoro, dello sviluppo locale, dell’ambiente e del territorio. È socio dalla fondazione della Società dei Territorialisti/e.
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