di Roberto Cipriani
Premessa
Il rapporto fra religione e società, e fra istituzioni religiose e civili, è oggetto di dibattito sociale e politico, ma anche di indagine scientifica da parte di numerose discipline, fra cui la sociologia della religione. Nell’ultimo ventennio, a fronte dei costanti e repentini mutamenti tuttora in essere nella società contemporanea, la sociologia della religione sembra aver trovato nuova linfa e vigore. L’idea di una società umana tendenzialmente e maggioritariamente secolarizzata è quasi tramontata, a vantaggio di nuovi paradigmi che ribadiscono al contrario la centralità del fenomeno religioso nel mondo contemporaneo.
La supposta crisi del sacro definita come secolarizzazione è una categoria fondante della sociologia classica del XIX secolo e solo molto più tardi è stata messa in discussione. In particolare è venuta meno l’ipotesi secondo la quale nella società moderna la religione fosse destinata ad un lento e inesorabile declino. Tale convinzione aveva acquisito una credibilità ancora maggiore una volta preso atto della crisi che, in concomitanza con i processi di industrializzazione e urbanizzazione, stava investendo le strutture religiose tradizionali. La modernizzazione della società, tuttavia, non ha comportato necessariamente un processo di totale secolarizzazione e un contemporaneo ridimensionamento completo dell’elemento religioso.
La teoria dell’“eclissi del sacro” (Acquaviva 1959, 1961), nonostante sia stata fatta oggetto di numerose critiche, non è stata affatto abbandonata, ma ha subìto un ripensamento radicale, alla luce dei risultati emersi dalle ricerche sul campo, compiute a partire dagli anni ottanta e sino ai giorni nostri. Orientamenti e tendenze recenti hanno suggerito una re-interpretazione del concetto, che designa un fenomeno poliedrico e multidimensionale.
La secolarizzazione è dunque un processo socialmente, storicamente e culturalmente orientato, né è possibile sfuggire e sottrarsi a tali condizionamenti. La ricostruzione e l’analisi comparata dei dati sull’appartenenza e sulla pratica religiosa nel XIX e nel XX secolo, in alcune tra le principali società europee, consentono infatti non solo di cogliere le grandi differenze tra i diversi Paesi, ma di mostrare i rapporti complessi e non deterministici che si sono instaurati tra industrializzazione e urbanizzazione da un lato e religione dall’altro.
Le credenze e le pratiche religiose continuano ad essere una parte importante del nostro mondo. Non ha senso, dunque, ignorare la religione quando si analizzano le dinamiche relazionali e identitarie nella società di oggi. Tali sono la sfida e il compito che deve affrontare la sociologia della religione all’inizio del nuovo millennio, date la crescente importanza del fattore religione nel mondo globalizzato e la sua forte influenza sulla vita di una buona parte dei cittadini nella tarda modernità. La religione continua a permeare vari aspetti della vita umana, siano essi economici o politici, sociali o culturali. Ciò che conta davvero è riscoprire il ruolo del sacro e della religione in un contesto sociale profondamente mutato rispetto al recente passato.
Ma definire il sacro non è impresa agevole, come non lo è definire la religione. Fior di classici si sono cimentati nella duplice impresa senza riuscirvi o riuscendovi solo in parte, salvo poi veder superati i loro tentativi iniziali da osservazioni critiche e da nuove proposte, più o meno alternative alle loro.
È opinione corrente ed abbastanza condivisa che il sacro preceda storicamente la religione. Si arriva pure a dire che la crisi del sacro, già conclamata oltre mezzo secolo fa, riguardi piuttosto la religione e non il sacro. Anzi lo stesso Acquaviva ha poi corretto il tiro originario, parlando a posteriori di una fine dell’uso magico del sacro (operante soprattutto a livello di religiosità popolare e paganeggiante) e dunque di una demagizzazione del sacro (Acquaviva, Stella 1989). Intanto Guizzardi aveva preferito, in precedenza, parlare di crisi della religione o meglio di religione della crisi, con un ribaltamento volutamente critico dei due termini in questione (Guizzardi 1979a), oppure spingendosi oltre, sino a prospettare una “organizzazione dell’eterno” predisposta dalla Chiesa ed applicata al sacro (Guizzardi 1979b).
Ma la problematica del sacro è ben più ampia e non si limita alla diatriba tutta patavina che vede protagonisti Acquaviva, Guizzardi e Stella. Occorre dunque risalire alle origini della questione per poi prendere l’abbrivo che ci possa condurre sino ad un dibattito meno datato (Wuthnow 1994) od ancora attuale (Carrier 2005).
Il sacro e la religione pubblica
Secondo Wuthnow (1994) il sacro si produce e si manifesta attraverso la religione pubblica e in particolare grazie alle diverse organizzazioni che vi presiedono, a livello di congregazioni, di gerarchie, di interessi, di accademie, di rituali, tutti potenziali vettori di messaggi religiosi. Tali forme organizzative traggono risorse dal loro contesto e servono altresì a comunicare il senso del sacro in modo non sempre intenzionale e non sempre esplicito. Dunque le diverse aggregazioni religiose si adattano al quadro circostante e riescono pure ad operare in forma dinamica, creativa, innovativa.
Non si può quindi parlare di un solo modo attraverso cui la religione pubblica riesce a trasmettere il sacro, ma ci sono altrettanti percorsi quante sono le singole aree di intervento. Tuttavia l’assunto di fondo è che il sacro stesso è un valore intrinseco (Wuthnow 1994: 17): non sarebbe dunque casuale che «un forte senso del sacro sia stato alla base della stessa autonomia della sfera pubblica, e che questo senso del sacro abbia svolto anche una funzione profetica». In effetti «lo spazio pubblico si è sviluppato nelle società occidentali principalmente perché organizzazioni religiose libere hanno chiesto che venissero posti limiti allo Stato per garantire la libertà di coscienza». In pari tempo «la funzione profetica è stata esercitata ripetutamente» in quanto i leaders religiosi hanno sposato varie cause assai diverse fra loro come la criminalizzazione del duello o la difesa della parità di genere, mirando sempre a leggi migliori e ad una concezione sempre più trascendente della giustizia, in sostituzione di quella vigente.
La religione resta comunque un ambito privilegiato per discutere liberamente di politiche governative e per contrastare la burocrazia politica ed economica. Essa è pure un’area protetta per rifugiati di ogni sorta e per soggetti svantaggiati. Inoltre promuove valori umani non facilmente coltivabili in altri circoli e luoghi governativi e/o finanziari. In definitiva Wuthnow si rifà alla sociologia della cultura per evidenziare che, come le organizzazioni, i professionisti ed altri soggetti sociali producono fatti culturali quali la musica, l’editoria e l’arte, allo stesso modo le organizzazioni religiose sono in grado di produrre la religione pubblica.
Va però tenuto presente – avverte Wuthnow (1994: 6) – che il sacro non è un prodotto qualsiasi e nondimeno esso ha il carattere di qualcosa che viene di fatto prodotto. Per questo il sociologo statunitense imposta una sua teoria della religione pubblica che vede il sacro interagire con la vita pubblica, particolarmente attraverso il ruolo sociale manifesto della religione: predicatori televisivi, lobbisti che operano presso il governo ed il parlamento per difendere le loro religioni di appartenenza, organizzazioni religiose che predispongono dibattiti pubblici su temi di comune interesse, scrittori e giornalisti che intervengono pubblicamente con documenti, editoriali, saggi, inchieste. Tutto ciò fa sì che in vari modi il sacro entri in dialogo con i temi di maggior rilievo per l’opinione pubblica. Né si può pensare che dietro i singoli locutori non vi siano intere organizzazioni, che si esprimono attraverso i loro portavoce più o meno ufficiali.
Anche nelle occasioni elettorali il sacro fa capolino in chiave di punti di vista, schieramenti, giudizi di merito, preferenze di candidati. L’orientamento dell’elettorato di base non differisce poi molto da quanto espresso dai ministri di culto. Insomma la religione è fortemente coinvolta nell’arena pubblica e vi gioca un ruolo decisivo.
Se poi si considera che il senso del sacro è abbastanza radicato e diffuso e connota gran parte dell’esperienza individuale, offrendo punti di riferimento, idee-guida, significati esistenziali, contenuti intellettuali, emozioni forti e scopi di vita, allora si comprende – argomenta Wuthnow (1994: 3) con una certa enfasi – che il sacro torna utile per il bene della società: «una nazione non può vivere a lungo senza concezioni del trascendente per guidare il suo destino e sancire i suoi valori più alti. Nemmeno può una comunità di nazioni cercare pace e giustizia, o vivere in armonia con il pianeta, senza una concezione simile di ciò che è giusto e meritevole del nostro rispetto più profondo. Ecco perché, in aggiunta a qualsivoglia merito possa avere per la qualità delle nostre vite private, il sacro deve essere considerato anche nelle sue manifestazioni pubbliche».
Sono poi singolarmente d’accordo Emanuel Levinas e René Girard nel sostenere che la stessa “rivelazione biblica” avrebbe contribuito alla desacralizzazione. Per Levinas (1976) in effetti l’asse portante della Bibbia è la santità e non la sacralità, che apparterrebbe invece al paganesimo e si avvarrebbe di magia e superstizione, rifiutando pertanto il portato della ragione, la quale invece non avrebbe alcun motivo di contrasto con la santità. Egli rimprovera alla religione cristiana di avere strumentalizzato il sacro (Levinas 1995: 150) sino a far credere ai fedeli che basterebbe la pratica cultuale per potersi salvare, ragion per cui parole e gesti avrebbero un potere straordinario, di fatto magico. Per Girard (1970) sostenitore del legame fra sacro e violenza, d’altra parte, ogni religione tradizionale ha un carattere sacrificale e rituale (come nel cannibalismo), che serve a rinsaldare la comunità attorno ad un capro espiatorio (Girard 1984), centrale in ogni rito e supportato per di più dal mito. La rivelazione del Cristo sarebbe allora finalizzata a liberare l’umanità appunto dal mito e dalla logica magica del rito sacrificale fondato appunto sul capro espiatorio. Gesù sarebbe da considerare l’ultimo bouc émissaire, che va a completare l’intento biblico di spezzare il rapporto con il sacro, il mito, il rito e il sacrificio. In fondo lo stesso Illuminismo dovrebbe essere debitore e grato perché il processo di razionalizzazione della società sarebbe stato iniziato dalle Sacre Scritture e portato a compimento dal sacrificio finale sulla croce.
L’autosacralizzazione della società
Ben più ardita ed innovativa è la soluzione di definizione del sacro tentata da Michel Carrier (2005) che vorrebbe prescindere da categorie analitiche e da schemi epistemologici per giungere a definire il sacro attraverso una formula del tutto nuova, scollegata da una teoria sociale, da una prospettiva politica e da un’opzione filosofica. Per dirlo con una nota metafora, Carrier non si appoggia sulle spalle dei giganti, non fa leva sulle più note definizioni di sacro e va avanti per conto suo, come se non vi fossero precedenti storici quali la mistica (medievale o successiva), il dubbio cartesiano, il razionalismo illuminista, l’ateismo marxista, lo gnosticismo di tutti i tempi, le costruzioni metafisiche del passato o contemporanee.
L’autore canadese tuttavia fa delle scelte in favore di alcune chiavi di lettura strategiche per l’articolazione del suo punto di vista sul sacro. Le trova dapprima nella secolarizzazione, poi nel pensiero conservatore del sacro ed infine nella teoria post-moderna. All’interno della secolarizzazione l’idea di sacro riuscirebbe, per Carrier, a sopravvivere proprio perché capace di restare al di sopra dei movimenti in atto, delle tendenze dissolutrici, dei declini di partecipazione rituale. In fondo la secolarizzazione è insita nello stesso cristianesimo perché Dio è fuori del mondo, che dunque si priva del sacro e lascia spazio all’uomo come protagonista della storia. Se Dio è morto, come si è sostenuto all’epoca dei “teologi della morte di Dio” (Mondin 1968), il sacro però si riaffaccerebbe nell’uomo stesso.
Nell’ambito del pensiero conservatore del sacro, Carrier richiama i contributi di Otto (1917) e van der Leeuw (1933), ma soprattutto assegna la dimensione della trascendenza all’uomo. Nasce così il “soggetto cristico” nel quale il sacro assume il carattere di fondamento della soggettività umana. Questo non crea soluzione di continuità con la tradizione giudaico-cristiana, specie se si considera che il sacro resta al centro del vivere insieme, per cui Dio e l’uomo, o meglio la società, sono una cosa sola. La società dunque si autosacralizza e il sacro diviene un suo epifenomeno, come un sintomo collaterale che si aggiunge ad essa. Il sacro garantisce altresì l’ordine sociale, altrimenti minacciato dall’assenza di un sistema normativo e dunque dai danni dell’anomia. Esso produce ordine prescindendo dalle narrazioni del passato: in questo è il carattere peculiare del pensiero conservatore applicato al sacro, che diventa una sorta di nume tutelare della società intercettando e riunendo in sé tutte le dinamiche e i conflitti che si producono a livello sociale.
Il pensiero post-moderno, a sua volta, depura il sacro del suo connotato misticheggiante e recupera il rapporto fra credere e sapere. Contro il potere della ragione e della scienza si ridà importanza al credere. Ed ecco che credere e sapere reincantano il mondo ed aiutano a superare il conflitto tra finito ed infinito. Intanto però la risacralizzazione del vivere insieme si scontra con la cruda realtà del presente. E comunque il sacro riesce a sopravvivere nonostante il declino delle istituzioni religiose. Ma il sacro può anche essere anomico: la società si apre, si perde, si riprende. Esso riesce nondimeno ad andare al di là di ogni pensiero, perché è irriducibile. Il sacro non si limita ad essere solo il garante del sociale, l’espulsore della violenza, il creatore di nuove forme religiose. Esso si scardina dalla logica conoscitiva, dalla relazione soggetto-oggetto. Il sacro in fondo è esperienza dell’assenza e in qualche modo recupera un certo afflato mistico. Esso peraltro non ha storia perché è fuori della storia e di qualsiasi durata. Ma nel contempo il sacro fa sì che si realizzi un vivere insieme, invece di una situazione caotica. Il che è possibile anche a seguito della rottura dei miti fondatori, aprendo così la strada alle mediazioni offerte dal sacro stesso proprio perché demitizzato.
Sacro e/o religione
Il rapporto fra sacro e religione è uno dei temi più affascinanti di tutta la sociologia della religione ma è anche l’oggetto più disputato, quasi senza possibilità di conclusioni condivise, neppure parzialmente. Già la definizione stessa di religione ha visto impegnati sociologi di varia matrice (Cipriani 2006: 31-43) in una diatriba mai esaurita, cui si è cercato fra l’altro di dare una risposta attraverso quattro criteri di massima:
«in primo luogo la religione è fatta di relazioni interpersonali con altri soggetti umani e/o con una o più divinità. […] In secondo luogo la religione si estrinseca come legame con la divinità che tiene uniti gli uomini fra loro in chiave universale anche attraverso il sentimento di devozione verso un dio. […] In terzo luogo la religione è manifestazione di un credere profondo e convinto, è professione di fede anche accentuata e non del tutto riflessiva, non necessariamente critica, in rapporto a concezioni della vita che hanno il carattere di cogenza, di valore paradigmatico, con un’accettazione quasi incondizionata. […] In quarto luogo la religione è fervore, impegno, dedizione, pratica quotidiana, comportamento devoto, pietà, in fondo religiosità manifestata esteriormente nel raccoglimento, nella compunzione, nella meditazione, nella riflessione, nel silenzio» (Cipriani 2006: 43-44).
In definitiva la religione avrebbe un carattere intersoggettivo (in riferimento a persone umane e divine), universalistico-comunitario, “fideistico”, devozionale.
Il sacro presenterebbe, invece, una connotazione fondata piuttosto sulla sua rispettabilità, sulla sua separazione (qedushà in ebraico, da qadosh ovvero sacro). Per questo il compiere un sacrificio è appunto un sacrum facere, un rendere sacro ciò che non lo è di per sé. Ad esempio, l’uccisione di un animale è in fondo una forma di sacralizzazione della stessa vittima non umana. In tal modo il sacrificio risulta essere una forma di iniziazione, di nuova via, di cambiamento di stato, che consente in effetti l’introduzione del sacro, dell’area sacrale, attraverso la transizione-legittimazione sacrificale. Si assiste così ad una trasformazione totius substantiae: il giovane “muore” ed acquista una nuova realtà, quella di adulto; Cristo è crocifisso ed assume poi una forma nuova attraverso la sua resurrezione, che trasforma anche gli altri esseri umani, redimendoli.
Il sacro in effetti ha anche una funzione protettiva, salvifica. Il che è possibile grazie alla sua singolarità, alla sua presa di distanza, al suo isolamento, alla sua differenza intrinseca. Si spiega in tal maniera pure la ricorrente interdizione del contatto fra sacro e profano. Il primo è preservato dalla contaminazione, però in realtà fra i due elementi c’è una forte contiguità: Cristo è Dio ma anche uomo; il profano può divenire sacro; il sacro a sua volta può essere profanato; fra sacro e profano c’è perciò un sostanziale continuum spazio-temporale (la piazza antistante una chiesa è finitima del sagrato; una festa sacra si sovrappone ad una festa profana, in una medesima giornata). Com’è ben noto, secondo Durkheim (1912) il sacro è una rappresentazione collettiva che serve ad ordinare il reale, insomma a dargli un significato. L’opposizione fra sacro e profano corrisponde a quella esistente fra società ed individuo. Però il sacro riesce ad essere un elemento culturale e sociale insieme. La sua manifestazione negativa è data dal tabù.
Epigoni dell’impostazione durkheimiana si riscontrano successivamente tra i membri del celebre Collège de Sociologie nel periodo 1937-1939. Così per Caillois (1939; 1950) il sacro è rinvenibile nell’individuo che trascende se stesso e si identifica in una collettività più ampia, per cui il sacro fonda il vincolo sociale in quanto dato immediato della coscienza, che attraverso la religione favorisce l’insieme dei rapporti fra esseri umani e sacro. Per Otto (1917) invero il sacro, esperienza emozionale, rimane sempre e comunque una categoria a parte, colta soltanto da chi ha sensibilità e commozione religiosa. In assenza di tali prerequisiti il teologo, filosofo e storico tedesco dissuade l’eventuale lettore del suo testo sul sacro: «è pregato di non leggere più innanzi». Se per Otto il sacro è in pari tempo dicibile ed indicibile, per Wittgenstein (1966) al contrario il sacro non è razionale ed è indicibile (Brugiatelli 2002). Produce invece senso di dipendenza, secondo Schleiermacher (1799), in anticipo ma non diversamente rispetto ad Otto.
Il sacro resta comunque il fulcro della religione, che deriva dal numen, dallo spirito (Otto 1917). Si tratta di un mysterium tremendum, che induce raccoglimento, abbandono, spasimo, estasi, ma pure timore perché si ha a che fare con la potenza, anzi la sovrappotenza, il dominio, come si deduce dalla stessa espressione riferita alla divinità giudicante: Rex tremendae majestatis. Nondimeno il sacro è altresì orghé, ira, vitalità, passione, emozione, volontà, forza, movimento, eccitamento, attività, impeto. Il tutto appare poi mirabile, totalmente altro (ganz andere), fascinans, portentoso e dunque numinoso. Dal che risulta che il sacro è definibile come una categoria piuttosto composita: ha del razionale ed insieme dell’irrazionale.
Bastide (1975) dal canto suo sottolinea che il sacro “selvaggio” è una grande riserva di pulsioni. La stessa presunta crisi della Chiesa non significherebbe affatto una crisi della religione (in contrasto dunque con la già citata ipotesi di Acquaviva). Pure la trasgressività del sacro che si attua nel corso di una festa manifesta in pieno il vasto underground delle pulsioni. Più legata a distinzioni di principio è la visione di Parsons, che considera morale il sacro e profano, invece, quanto apporta un vantaggio personale. Tuttavia egli segnala che il sacro non è tale di per sé ma per il suo specifico valore simbolico: anzi il sacro costituisce un vero e proprio sistema simbolico (Parsons 1979).
Isambert (1982) insiste piuttosto sull’ambivalenza del sacro, che ha una sua dimensione originaria ed originale, che non va confusa con il ricorso al soprannaturale, la personificazione della natura, la sacralizzazione di un partito o di una causa ideale. In particolare, poi, il sacro non è sempre apparentabile alla religione, anche se in realtà si registra un continuo annodarsi fra religione (soprattutto popolare, in termini festivi) e sacro. Non è dello stesso avviso Ferrarotti (1983) che ritiene il sacro né razionale né irrazionale, ma semplicemente arazionale. Egli tuttavia rileva una cospicua produzione sociale di sacro che pervade la società contemporanea. Il sacro si contrappone al profano ma non necessita del riferimento al divino. Inoltre più si diffonde la religione meno si fa presente il sacro. Insomma il paradosso sarebbe che la religione risulta dissacrante. Nondimeno il sacro sarebbe altresì il metaumano che più serve agli esseri umani. Ma sacro e religioso non vanno confusi. Per di più il sacro viene prima ancora di Dio ed ha il carattere di un legame comunitario (qui è evidente un’eco durkheimiana). In definitiva la religione altro non sarebbe che il braccio amministrativo del sacro.
Si deve essere grati a Giovanni Rocci (1996) per aver riproposto in forma brillante e convincente l’approccio di Carl Gustav Jung (1969) al sacro. La “psicologia analitica” junghiana fa leva su tre componenti: l’inconscio collettivo (una sorta di contraltare alla “coscienza collettiva” di origine durkheimiana), il simbolo e l’archetipo. Quest’ultimo in particolare ha a che fare con la numinosità, ovvero con l’ineffabilità (di eco wittgensteiniana). Per quanto concerne il sacro in particolare è indicato da Jung il fenomeno dell’ergreifen, che in tedesco significa letteralmente afferrare, ma anche commuovere ovvero “toccare”. Il sacro dunque sarebbe in grado di far presa, di catturare, per cui mentre il soggetto umano mostra in superficie coscienza e razionalità, in realtà lascia irrompere dal profondo dell’abisso qualcosa che è appunto senza fondo, è indefinibile (in greco árretos), il cui senso è sempre al di là, risultando inafferrabile, posto oltre, insomma ad un livello pre-categoriale.
In realtà il sacro si sperimenta a livello categoriale ma di fatto resta al di là. Come nel passaggio dal raggio infrarosso al raggio ultravioletto, c’è tutta una sorta di “tettonica psichica”: retrocedendo si torna all’istintuale e alla fusione con la natura, mediante il simbolo e l’immagine archetipica, dove il prima temporale (vor) ed il prima fondamentale (ur) coincidono. Il sacro appare come una potenza nonché come un’esperienza-limite. Mentre il profano si spiega, il sacro non si piega, non è assoggettabile ad alcuna spiegazione, dunque sfugge, non è circoscrivibile entro un ambito definito. Diventa impronunciabile, indicibile, e richiama la sua patria di origine, l’Heimat.
Il sacro per Jung è verticale e permette l’irruzione del senso, ma è pure orizzontale e consente il richiamo di senso totale, che però retrocede continuamente rispetto ad ogni tentativo di definizione. Non per nulla il sacro è nell’Urzeit, nel tempo originario, ed appare separato, staccato, latore di qualcosa che non si offre, non si dà. Corrisponde all’inconscio collettivo che tuttavia agisce sulla coscienza sia come regressus ad uterum, ritorno al ventre materno, sia come possesso dell’archetipo, della base originaria.
Il contatto con il sacro avviene solo nell’immagine, nel simbolo e nella dimensione culturale, che funge da schermatura del sacro stesso ed opera essenzialmente come atteggiamento religioso. Pertanto la religiosità è composta di ierofanie, di apparizioni del sacro, di sue manifestazioni. All’origine dei tempi, non vi era la religione ma solo il sacro, tuttavia sempre sfuggente ed elusivo. È il rito che riesce ad imbrigliare il sacro, evitandone la pericolosità e rimandando all’archetipo di fondo. Solo un’analisi fenomenologica attenta è in grado di cogliere, capire il sacro. E tale comprensione-afferramento ha luogo appena per analogie, in particolare per simboli, per miti e per riti. Insomma è attraverso il tempo spinto sino all’eternità che si arriva a raggiungere, ad afferrare (ergreifen) il sacro. Altrimenti esso resta inaccessibile e al tempo stesso inesauribile. Di conseguenza vivere il mistero è l’unico atteggiamento religioso possibile.
Aveva dunque ragione Durkheim nel dire che proprio il sentimento del sacro è il fatto religioso fondamentale. Gli hanno poi fatto eco sia Caillois (1939; 1950) che Bataille (1988) e Dumézil (1968) nel ritenere che il sacro coincide con l’inconscio sociale.
Quasi un secolo è trascorso dalla pubblicazione della voce-saggio dal titolo “Holiness” (santità, sacralità) nell’Encyclopedia of Religion and Ethics nel 1913, ad opera di Nathan Söderblom, un arcivescovo luterano, studioso di religioni comparate, docente nelle università di Uppsala e Lipsia e promotore di conferenze internazionali che preludevano al Consiglio Mondiale delle Chiese. Fu premio Nobel nel 1930 per la pace fondata sull’unità delle Chiese. La sua idea di sacro, o meglio di sacralità, era posta alla base della religione ancor prima dell’idea stessa di Dio. Si trattava comunque di una fondazione ontologica e sovrannaturale del sacro, senza alcun riferimento ad una base sociale.
Nel corso del XX secolo e agli inizi del XXI si sono susseguiti invece tentativi più orientati in senso sociologico, che hanno evidenziato in diverse occasioni la pervasività del sacro, pur nelle sue continue metamorfosi. Ormai è diffusa la convinzione che la crisi della religione non comporterebbe anche la crisi o la fine del sacro. Qualcuno arriva a parlare di un ritorno del sacro (Stark, Introvigne 2003; Politi 2004). Qualche altro (Rosati 2002) riscopre il nesso duraturo fra sacro e solidarietà sociale. Il fatto è che il sacro non è mai scomparso dalla scena della società contemporanea. Del resto anche un’eclissi, parziale o totale che sia, è sempre e comunque un fenomeno temporaneo, ben limitato e certamente trascurabile rispetto al più ampio fluire del tempo.
Le discussioni sulla crisi del sacro non si esauriscono qui. Molti altri sarebbero gli apporti da citare e sottoporre ad analisi critica. Basti fare i nomi di Ferdinand Tönnies, Thomas Luckmann, Peter L. Berger, Robert N. Bellah, Karel Dobbelaere, Richard K. Fenn, Niklas Luhmann e José Casanova. Il dibattito prosegue in Italia come all’estero. Ne è prova un numero monografico della rivista Religioni e Società (anno XXXV, n. 96, Gennaio-Aprile, 2020) dedicato a “Secolarizzazione, dismissione e riutilizzo dei luoghi di culto”, ma anche un’accesa diatriba suscitata da Jörg Stolz, presidente dell’International Society for the Sociology of Religion, con il suo Presidential address del 2019 su “Secularization theories in the twenty-first century: Ideas, evidence, and problems”, pubblicato nella rivista Social Compass (67, 2, 2020: 282-308) e che collega la religione e la religiosità all’insicurezza, l’educazione, la socializzazione, la transizione secolare, la competizione secolare, il pluralismo e la regolazione.
Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022
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Roberto Cipriani, professore emerito di Sociologia all’Università Roma Tre, è stato Presidente dell’Associazione Italiana di Sociologia. Ha condotto numerose indagini teoriche ed empiriche. La sua principale e più nota teoria sociologica è quella della “religione diffusa”, basata sui processi di educazione, socializzazione e comunicazione. Ha condotto ricerche empiriche comparative in Italia a Orune (Sardegna), in Grecia a Episkepsi (Corfù), in Messico a Nahuatzen (Michoacán) ed a Haifa (Israele) sui rapporti tra solidarietà e comunità. Ha realizzato film di ricerca sulle feste popolari. Fa parte del comitato editoriale delle riviste Current Sociology, Religions, Sociedad y Religión, Sociétés, La Critica Sociologica, Religioni e Società. È Advisory Editor della Blackwell Encyclopedia of Sociology. È stato Directeur d’Études – Maison des Sciences de l’Homme – Parigi e “Chancellor Dunning Trust Lecturer” alla Queen’s University di Kingston, Canada. È autore di oltre novanta volumi e mille pubblicazioni con traduzioni in inglese, francese, russo, spagnolo, tedesco, cinese, portoghese, basco, catalano e turco.
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