Giancarlo Caselli, indiscussa e indiscutibile autorità in tema di contrasto alla criminalità organizzata, ancora quest’anno ha definito la mafia, la principale disgrazia del nostro Paese, «un padrone armato che deruba i poveri e ingrassa i ricchi» (in MicroMega, 20 settembre 2022). Nella sua lucida visione «essa non è una semplice banda di banditi ma una cosa potente che ha comandato e comanda moltissimo, condizionando pesantemente la politica e l’economia italiana» (ibidem). Tale encomiabile convinzione si incardina tuttavia su un presupposto ideologico. Accogliendo un preconcetto diffuso e paradigmaticamente accettato nel nostro Paese asserisce che la mafia è «la caratteristica propria dell’Italia, e principalmente dell’Italia fra tutti i Paesi europei» (Ibidem).
Le poche righe che seguono saranno destinate, invece, a contrastare la prospettiva gerarchica ed etnocentrica che attribuisce il primato della criminalità alle mafie italiane nel tentativo di ripensare il sistema mafioso che opera nel territorio nazionale secondo logiche transnazionali.
Per raggiungere il nostro obiettivo sarà necessario trascurare il mercato criminale che le diverse aggregazioni nate nel nostro Paese alimentano, concentrandosi invece sul tipo di organizzazione in cui si oggettivano e si strutturano i diversi sistemi criminali, italiani e stranieri. Può apparire un truismo affermare che i gruppi criminali che operano su scala mondiale si aggregano sulla base di sistemi organizzativi fra loro diversi e in alcuni casi divergenti. Eppure, questa banale costatazione potrebbe aiutare a stabilire una connessione fra il sistema organizzativo, la struttura criminale e il network di alleanze transnazionali temporanee che i gruppi criminali di diversa provenienza e nazionalità consolidano al loro interno, disegnando un patchwork criminale ramificato ed estremamente variabile. Una rete mobile che non tollera il primato di una mafia su un’altra e che piuttosto ha la necessità di far dialogare le disposizioni a cui corrispondono i diversi habitus mafiosi per la migliore riuscita della impresa criminale.
Inserita nella prospettiva del mercato criminale globale, la visione etnocentrica che orienta la lotta alle mafie in Italia emerge come limite all’effettiva riuscita di un progetto che voglia far proprio l’obiettivo di arginare il potere dei mercati criminali e favorire una politica di educazione alla legalità. Comprendere la natura e lo spessore delle interferenze che possono giocare a favore di una rete nelle cui maglie gruppi mafiosi transnazionali si muovono come in una scacchiera, è un progetto che ai nostri occhi segna un percorso utile da affrontare.
Le aggregazioni mafiose non sono un fenomeno recente in Italia. Già in epoca post unitaria vi era piena consapevolezza dell’esistenza di organizzazioni criminali che agivano nel sud come nel nord della penisola. Nel nascente ambito demo-antropologico la prima testimonianza in tal senso risale a De Gubernatis che, sul morire del diciannovesimo secolo, scriveva: «nelle sole città si forma la camorra, la mafia ed anche quella che a Torino chiamavano, nel tempo della mia giovinezza, la cocca», affrettandosi ad aggiungere «la quale spero che non esista più, perché era un’associazione malefica di operai violenti che, al segnale di un fischio, abbandonavano la bottega per correre addosso al cittadino inerme ed innocuo che le era antipatico» (De Gubernatis, 1893:15).
Una riflessione più matura sul tema si deve negli stessi anni a Giuseppe Pitrè. Con una terminologia in voga nel terzo millennio, potremmo dire che la sua analisi risultò più posizionata e riflessiva. Nel breve volume che dedicò alla mafia, pubblicato nella Biblioteca per lo Studio delle Tradizioni Popolari Siciliane nel 1889, si pose l’obiettivo di spiegare se non il funzionamento, almeno il senso che l’organizzazione criminale poteva avere nel Borgo, quartiere palermitano dove quest’ultima veniva identificata con il termine mafia. Traendo spunto dall’etimologia dei termini mafia ed omertà, Pitré sostenne che in origine mafia indicava tutto ciò che era bello e perfetto, ma anche superiore e valente (Pitrè, 1889:289-90). Nel tempo, il senso del termine cambiò subendo diverse traslitterazioni, fino ad assumere il significato deteriore di brigantaggio, camorra o malandrinaggio solo dopo il 1863, quando Giuseppe Rizzotto prese a rappresentare I Mafiusi di la Vicaria (Pitrè, 1889:290), uno spettacolo che ebbe successo di pubblico sia in Sicilia che in alcune zone del continente. Omertà traduceva invece l’idea dell’omineità, concetto che racchiudeva l’insieme delle qualità di uomo che, per esser tale, doveva essere «serio, sodo, forte» (Pitrè, 1889: 294), possedere insomma quella virtù che lo rendeva libero e in quanto tale degno di onore, di conseguenza capace di difendersi senza ricorrere alla giustizia, comportamento che, già nella sua interpretazione, sarebbe risultato infamante per qualsiasi mafioso. Sotto questo profilo, quello che si riflette nella interpretazione di Pitrè «è una dimensione quasi emica, […] proponendo una lettura più orientata a studiare l’humus da cui era germogliata che non le azioni di cui si macchiava» (Resta, 2013:19).
Purtroppo, nonostante le attese che tali testimonianze avrebbero potuto creare, i riferimenti successivi relativi agli usi giuridici locali o le notizie relative ad argomenti inerenti la formazione, l’organizzazione e il riconoscimento della mafia, della ndrangheta e della camorra, da parte della comunità locale, divennero sporadici. Presto anch’essi sprofondarono nel buco nero di quell’assenza (Lombardi Satriani, Meligrana, 1995) in cui sono stati più in generale ingoiati i temi di antropologia giuridica, negli studi demoetnoantropologici nazionali.
In effetti, negli anni Sessanta, quando Anton Blok avviò la sua analisi della mafia, pubblicando l’etnografia raccolta in un villaggio della Sicilia occidentale a cui diede il nome di fantasia di Genuardo, non si disponeva ancora di una definizione unitaria: «La mafia è stata definita in vari modi, e in un certo senso stiamo ancora cercando gli strumenti per affrontarla, sia concettualmente sia empiricamente e in quanto problema sociale» (Blok, 1986:13) scriveva l’antropologo olandese, che pure aveva dedicato gran parte del suo lavoro a studiare il fenomeno del banditismo nell’Olanda del XVIII secolo.
La mancanza di una definizione certa era probabilmente dovuta al fatto che da quando verso metà Ottocento il termine era entrato nell’uso comune, ne erano circolate interpretazioni diverse. «Per alcuni la mafia era un’associazione criminale operante ai margini della società siciliana. Per altri un’appendice dell’ordine sociale: una struttura corporata antagonista e pericolosa per lo Stato e la società italiana. Per altri ancora era pura fantasia, un’invenzione di osservatori esterni che non potevano, o non volevano, comprendere la conformazione della vita siciliana» (Blok, 1986:13-14). Dal canto suo, invece, Blok scelse una strategia diversa. Sottraendosi allo scomodo compito di trovare un termine adeguato, in grado di restituire il senso di quel particolare sistema di aggregazioni che agiva sotto i suoi occhi, si limitò ad osservare che tali gruppi, che rientravano nella più generica categoria di mafiosi, facevano ricorso ad un uso privato e illegale della violenza. La caratteristica peculiare delle loro azioni era che esse incidevano nella sfera pubblica della società.
Sfuggendo alla tentazione in cui era caduto Hess, di interpretare la mafia come un modus vivendi, un insieme di comportamenti e in sintesi un modo di agire specifico della così detta sub cultura siciliana (Hess 1993), Blok accentuò nella sua interpretazione un aspetto che si rivelerà fondamentale nella storia della mafia. «I mafiosi prendono decisioni che interessano la comunità» – scriveva – «I rapporti tra i mafiosi e le autorità costituite sono profondamente ambivalenti. Da un lato essi non rispettano la legge e sono in grado di opporsi alla pressione dell’apparato giuridico e governativo. Dall’altro, agiscono in connivenza con l’autorità ufficiale e rafforzano il proprio controllo attraverso rapporti occulti, ma concreti, con coloro che ricoprono cariche ufficiali» (Blok, 1986:14).
La corruzione emerge nella visione di Blok in tutta la sua pregnanza. Scelta strategica e chiave di lettura fondamentale per capire il funzionamento delle mafie italiane. Ieri come oggi principio occulto su cui poggia il potere non solo delle cosche siciliane ma anche di tutti i sodalizi che rientrano, in virtù del loro modus operandi, fra le associazioni per delinquere di tipo mafioso, distinte dal legislatore italiano come tali solo negli anni Ottanta del Novecento, quando venne introdotto il reato di cui al 416 bis (L. 13 settembre 1982).
Accentuare il discorso sulla corruzione non vuol distrarre l’attenzione dalla violenza che è stata ed è ancora tratto distintivo dell’agire mafioso. L’utilizzo della forza è stata per le organizzazioni mafiose premessa indispensabile per attuare quella «industria della violenza» (Franchetti 1993) che hanno messo in campo fin dai loro esordi. Violenza non solo fisica, che, accompagnata da intimidazione e minacce, è stata riconosciuta come la risorsa strumentale dell’agire mafioso (Chinnici, Santino, 1989). L’esibizione simbolica del potere che i sodalizi mafiosi sono stati in grado di gestire suo tramite, ha consentito loro di capitalizzare il valore economico della violenza stessa, allo scopo di incrementare traffici e profitti. Fu Arlacchi (1983), in anni ormai lontani, a delineare con chiarezza la funzione imprenditoriale assunta dalla mafia nel passaggio da una forma di organizzazione tradizionale alla mafia capitalistica. Lo avevano intuito perfettamente Peter e Jane Schneider quando, nei loro studi sulla mafia in Sicilia, avevano parlato di capitalismo di mediazione (Schneider e Schneider 1976).
Il ricorso alla dimensione muscolare e alla forza fisica è diventato, però, nel tempo, una risorsa estrema, da mettere in campo quando il potere mafioso è in un declino più o meno apparente (Lombardi Satriani, Meligrana, 1995:X). L’intimidazione, invece, dimostra di essere una risorsa ideale e costante, che agisce come una «barriera doganale» (Scionti 2011:168). Convoglia i profitti nelle mani delle organizzazioni mafiose senza creare scalpore, nel silenzio omertoso delle vittime. Consente di capitalizzare beni e risorse e soprattutto consente alle cosche di presentarsi nel mercato come operatori accreditabili. Il Procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, ha affermato di recente che «la ‘ndrangheta spara meno, però corrompe di più, ha sempre rapporti con il mondo dell’imprenditoria e della politica» (DIA Primo semestre 2021:15); mentre il Procuratore Generale di Napoli, in un’intervista al Mattino ha definito quella camorristica come una vera e propria borghesia «che proprio in ragione di questa mutazione genetica, ha reso la camorra un cliente affidabile sul mercato, in quanto il cosiddetto Sistema gode purtroppo di ottime entrature nella politica e nella pubblica amministrazione» (Il Mattino di Napoli, 23/05/2021). La protezione imposta a commercianti e imprenditori, ma anche a vittime minori che rimangono intrappolate nelle reti mafiose mediante la gestione di prestiti usurai, è il simbolo del potenziale di cui dispongono nel produrre «una forma di accumulazione capitalistica che opera sul mercato legale tanto su quello criminale, favorendo fra i due una costante circolazione di flussi finanziari» (Scionti 2011:171).
Violenza e corruzione sono dunque dinamiche intercambiabili, facce della stessa medaglia, a sostegno della vocazione capitalistica sviluppata dalle imprese mafiose. Non a caso la corruzione, nella messa in pratica operata da questo genere di organizzazioni criminali, appare nella sua qualità peggiore, quale «forma di violenza strutturale» (Gupta 2012: 76). Restituita nella forma di idioma (Muir e Gupta 2018:5), essa è caratterizzata da polivalenza, duttilità e trasgressività.
La polivalenza è un attributo dell’agire corruttivo che merita qualche considerazione ulteriore. I confini fra le culture mafiose e le culture locali si sono rivelati spesso porosi. La relazione fra organizzazioni mafiose e cultura tradizionale meridionale è stata lungamente dibattuta. Il comportamento mafioso si poggia certamente su un articolato sistema di norme ma anche valori, temi, modelli (Lombardi Satriani 2005:37) che spesso rinviano a linguaggi, modi di dire, proverbi ma anche liturgie, radicati nelle culture folkloriche meridionali (Teti 1997). Si pensi per esempio all’uso spregiudicato che esse fanno di termini quali onore, sangue, coraggio e all’immancabile peso attribuito alla parola data da un così detto uomo d’onore. Tuttavia, come è stato già ampiamente dimostrato, nell’idioma mafioso i valori folklorici risultano stravolti (Lombardi Satriani 2005). Di conseguenza, più che inseguire l’idea della provenienza o della commistione con un meridionalismo arcaico, è forse più utile spostare l’attenzione sulle disposizioni durevoli che orientano il campo. Secondo Bourdieu, le disposizioni durevoli sono in grado di riprodursi «in tutti gli organismi (che possono se si vuole essere chiamati individui) durevolmente sottoposti ai medesimi condizionamenti» (Bourdieu 2003:230). Sono, quindi, quel genere di disposizioni che orientano le scelte degli attori sociali che operano in un contesto determinato. Queste, oscillando fra il dominio dell’illegalità e quello della legalità, segnalano il limite sottile che separa le due opposte sfere di azione.
L’esempio della reazione generalizzata ad una burocrazia che spesso soffoca il cittadino, può venire in soccorso al nostro ragionamento. Cercare di saltare il proprio turno nella lista di attesa per un consulto ospedaliero è un atto scorretto che tuttavia non può essere, né viene, considerato criminale. Tale comportamento prevede un’azione che mira ad ottenere che i diritti di alcuni siano limitati a vantaggio di quelli di altri. Per raggiungere un tale obiettivo, si mette in atto un tipo di persuasione che ha un’aria di famiglia molto prossima alla corruzione che spiega la ragione per la quale disposizioni di questo tipo sono in grado di ridurre, attraverso un processo definitorio semplificante, gli effetti perversi della corruzione. È questa sua polivalenza che fa sì che corrotti e corruttori non sempre si riconoscano nei ruoli di vittima e/o di carnefice ma inquadrino talvolta le azioni illecite in una cornice di senso che le giustifica, ove finalizzate a scopi che agli occhi di chi le compie non paiono necessariamente criminali (Resta 2020:377).
Riletto in termini generali, l’agire che fa suo lo strumento della corruzione interseca non solo l’agire dei mafiosi ma anche quello di quanti fanno ricorso a comportamenti illegittimi riconfigurandoli come legittimi, producendo in tal modo nell’immaginario collettivo un’inversione di cui si trascura il più ampio significato politico. Non a caso il Procuratore Generale di Napoli, nella intervista già citata, aggiungeva che: «il confine tra camorristi e corrotti è labile in quanto, come è stato acutamente rilevato, contrariamente a quello che si pensa, non sono le mafie ad alimentare la corruzione, ma è la corruzione ad alimentare le mafie: i mafiosi arrivano dove già operano corrotti e corruttori» (DIA, 2021 primo semestre:131).
Sullo sfondo della lettura proposta da Blok si profila, dunque, non l’esistenza di una sub cultura ma di un campo le cui disposizioni sono capaci di generare «pratiche culturali incorporate, connotate giuridicamente [che] agiscono sugli individui orientandone la compliance a norme giuridiche non sempre coincidenti con quelle ufficiali» (Scionti 2013:50). In quest’ottica la linea di confine fra ciò che è legale e ciò che è illegale, fra ciò che è corruzione e ciò che non lo è, si assottiglia, stante la capacità che la corruzione manifesta di riprodursi a macchia d’olio, diversa e uguale a sé stessa, e la capacità che le mafie manifestano nel gestirla.
In questo le posizioni di Blok ed Hess trovano un punto di convergenza: la capacità della mafia di dirigere le sue azioni nella vita pubblica si sposa con l’esistenza non di una subcultura, ma con una strategia culturale che incorpora una nozione di campo del giuridico in grado di accogliere e spiegare questa apparente anomia. Non è qui il caso di addentrarsi nell’analisi del pluralismo giuridico, nozione che ha alimentato un dibattito serrato in campo antropologico (Resta, 2017), ma il concetto di interlegalità ivi introdotto da de Sousa Santos (de Sousa Santos, 1990), aiuta a rendere più comprensibile la questione. De Sousa Santos elaborò il concetto a partire dalla considerazione che «forse più che in ogni altra epoca, viviamo in un tempo di porosità e, pertanto, anche di porosità giuridica, di diritto poroso costituito da molteplici reti di giuridicità che ci obbligano a costanti transizioni e trasgressioni» (de Sousa Santos, 1990:28). Da questa premessa ne discese la considerazione che un intreccio di norme di origine diversa: statale, transnazionale, consuetudinaria, religiosa, familiare e, aggiungiamo, criminale, influenza le azioni e le scelte individuali. I diversi piani normativi che sostengono le reti di giuridicità, occupano spazi che si intersecano, segnati da linee di confine porose. Nell’intersezione fra queste linee si genera appunto l’interlegalità, caratterizzata da «un processo altamente dinamico […] un intreccio discontinuo e instabile di codici (in senso semiotico) legali» (de Sousa Santos 1988:382). Una circolarità semiotica che rende complesso creare una divisione netta fra ciò che è lecito e ciò che è illecito, e spiega la genesi di quella porosità giuridica di cui le organizzazioni mafiose si avvantaggiano.
L’iter fin qui tracciato, ci porta a concludere che mafia è un termine evocativo. Indica un modo di essere e un modo di agire di soggetti che si aggregano in consorterie diverse. Include comportamenti violenti volti all’obiettivo di consolidare i profitti in continuo aumento di un gruppo criminale. Se ne è dedotto che la violenza e la corruzione sono gli strumenti adoperati da tali sodalizi per raggiungere gli scopi criminali verso i quali orientano le azioni, mentre gli ambiti in cui queste si sviluppano, omicidi, furti, riciclaggio, narcotraffico, reati informatici, usura, variano a seconda delle prospettive offerte dal mercato.
Le agenzie istituzionali che ne monitorano l’ascesa, e gestiscono le attività di contrasto sul territorio nazionale. propongono una lettura del fenomeno distinguendo ancora le consorterie in base alla loro provenienza geografica. Pur rivisitate all’interno di un paradigma unitario, le associazioni mafiose vengono riconosciute e suddivise secondo un criterio territoriale. Ogni area con una alta densità criminale di tipo mafioso viene contraddistinta con un nome proprio. Si parla ancora quindi della mafia siciliana, divisa fra Cosa Nostra, Stidda e altre organizzazioni minori; della ‘ndrangheta calabrese, ripartita fra famiglie e mandamenti come la camorra napoletana e della società foggiana, quest’ultima da poco assurta al ruolo di quarta mafia nazionale (DIA, Primo Semestre 2021: 208). La società foggiana a sua volta viene fatta rientrare nel più ampio campo della criminalità pugliese, nel quale la Sacra Corona Unita contende il secondo posto alla Camorra Barese (DIA, Secondo Semestre 2021:173). Una mappa, quella offerta dalle relazioni semestrali pubblicate dalla DIA, che disegna un quadro dinamico delle aree di influenza delle diverse organizzazioni, sempre in lotta per l’egemonia nei diversi territori e sui diversi mercati. Le attività di monitoraggio rivelano come nel tempo il peso dei diversi gruppi criminali sia cambiato. Mentre fino alla metà del Novecento era la Mafia siciliana ad incutere i maggiori timori, dopo alcuni straordinari risultati raggiunti dalle forze dell’ordine, ha dovuto cedere il suo primato alla ‘ndrangheta, in costante ascesa nel panorama internazionale.
Letta in questo modo la questione, sembra che sia necessario dare ragione al giudice Caselli. La mafia è il cancro che mina alla base le potenzialità della Nazione ed è una componente della nostra società difficili da sgominare. Per creare un argine al suo dilagare non è sufficiente la precisa e puntuale azione fin qui messa in campo. Piuttosto sarebbe necessario giungere ad una comprensione densa del modello culturale a cui ogni organizzazione si ispira. Modello difficile da permeare, considerato che nacquero come organizzazioni segrete (Pignatone, Prestipino 2021), ciascuna con un’identità propria. Nel tempo hanno teso ad occultare le regole e i valori a cui si ispirano, lasciando che narrazioni e stereotipi sui comportamenti mafiosi facciano il loro corso, a fronte dell’incapacità di intaccare profondamente e sostanzialmente quell’humus criminale fatto di connivenze di cui le associazioni si fanno scudo nella società civile, di penetrare quella zona grigia (DIA Secondo semestre 2021: 174) in cui prevalgono quelle pratiche culturali incorporate in base all’habitus tradizionale (Bourdieu 1987:134) di cui si è già parlato, in cui i confini porosi dell’interlegalità agevolano e consentono sconfinamenti continui.
I documenti pubblicati dalla DIA dirigono l’attenzione verso i nuovi scenari in cui le organizzazioni mafiose stanno operando, segnalano le dinamiche interne funzionali alla riorganizzazione a cui stanno sottoponendo i loro assetti e si soffermano sul ruolo che le organizzazioni straniere presenti sul territorio nazionale vanno assumendo nel nuovo quadro criminale. Tuttavia, la prospettiva adottata tende ad enfatizzare la conoscenza dei sistemi criminali nazionali e a pubblicizzare le azioni di contrasto organizzate nei loro confronti, seguendo lo stereotipo che fa della mafia un fenomeno italiano. In quest’ottica si giustifica la scelta di dedicare a ciascuna delle quattro maggiori organizzazioni mafiose regionali una sezione ad hoc, elencando e argomentando la presenza delle differenti componenti che le animano.
Un atteggiamento più generico si apprezza, invece, nei confronti delle organizzazioni criminali straniere. Riunite in un unico capitolo, vengono presentate tutte insieme e attraverso tratti essenziali. Aggrava gli effetti di una prospettiva così generalista, la scelta di suddividerle per aree di provenienza continentale. Una qualche attenzione in più viene dedicata alle organizzazioni albanesi, cinesi, nigeriane e rumene, che fanno registrare una maggiore presenza in Italia. L’ordine nel quale queste ultime vengono presentate, risponde alla stima della pericolosità che esprimono. Il report pubblicato nel 2021, registra la scalata al potere delle organizzazioni nigeriane che, superando per volume di affari quella cinese che scende al secondo posto, rivela l’estrema dinamicità dell’intero comparto straniero.
Riconosciute come organizzazioni criminali di matrice etnica e in pochissimi altri casi come mafie etniche (DIA 2018: 432; Primo semestre 2021:303 e 315; Secondo semestre 2021: I), la loro definizione solleva dubbi e incertezze. Riunire sotto lo stesso cappello organizzazioni che provengono da territori spesso immensi, si pensi, per esempio alla Cina, abitati da moltissime etnie fra loro talvolta radicalmente diverse, e invece centellinare la differenza fra mafia e stidda o fra società foggiana e camorra barese, all’interno di due aree regionali che, seppure estese, sono incomparabilmente più piccole della galassia cinese, spiega perché le indagini, ancora indirizzate in prospettiva etnocentrica, non riescano a cogliere la complessità delle reti attivate da quelle che con un termine unitario si indicano oggi come mafie transnazionali. In questo caso, considerare la specificità etnica di ciascuna è strumento di fondamentale importanza per decifrare i sistemi organizzativi e le strutture di funzionamento di aggregazioni criminali che, seppure provengono da una stessa nazione, sono orientate da disposizioni durevoli radicate nel sostrato etnico di cui ciascuna è portatrice. Il radunarle sotto il comodo ombrello costituito dalla provenienza nazionale, impedisce di raggiungere quel livello di comprensione necessario a spiegare una più efficace azione di contrasto alle reti criminali transnazionali che nel tempo hanno investito nel nostro Paese.
A ulteriore riprova della necessità di raggiungere una migliore conoscenza delle singole organizzazioni va considerato il fatto che inspiegabilmente ad alcuni cartelli criminali non viene dedicato spazio autonomo. Un gran numero di organizzazioni, che pure muovono capitali significativi, scompaiono nella loro individualità, accorpate nella generica definizione di criminalità sudamericana, nordafricana e criminalità proveniente dai Paesi ex URSS. Elenco riproposto negli ultimi report in una chiave leggermente più ampia che si riferisce alle criminalità provenienti dai Balcani e dai Paesi ex Urss; criminalità nord-centro africana; criminalità da Paesi medio-orientali e del sud-est asiatico. Un magma incandescente, verrebbe da osservare, lasciato nella sua indefinitezza e nei suoi contorni sfumati, quasi che non ci fosse la necessità di indagare in maniera più approfondita le loro capacità organizzative. Una postura dalla quale traspare con relativa facilità la convinzione, che spero oggi stia entrando in crisi, che la loro presenza sul territorio nazionale sia possibile solo per gentile concessione delle mafie nostrane, e nella misura in cui queste ritengono opportuno avviare collaborazioni esterne o servirsi temporaneamente dei loro servigi.
L’esposizione dei dati sembra di conseguenza avvalorare lo stereotipo che fa delle mafie una specificità italiana, in grado di esprimere le maggiori potenzialità criminali nel nostro territorio e di confermare la loro supremazia sulle organizzazioni straniere. In questo quadro omogeneo, risalta, tuttavia, la natura dinamica del modello organizzativo che si va affermando nelle organizzazioni mafiose italiane. Con l’obiettivo di continuare ad espandere il loro mercato criminale, le cosche nostrane negli ultimi anni risultano impegnate in un continuo lavorio di trasformazione della propria base organizzativa, al fine di renderla più aderente alle sfide della contemporaneità.
Fra le quattro mafie conosciute in Italia, un posto d’onore merita la ‘ndrangheta, la più potente, e probabilmente anche quella più fedele alla tradizione. Nata, come è noto, in Calabria ha scalato le vette del successo mafioso e si è espansa in Italia e all’estero, creando una fitta rete criminale di successo. Descritta come coesa e stabile (DIA primo semestre 2021:18), fonda la sua organizzazione su basi parentali. Il senso identitario che distingue l’organizzazione sin dal suo nascere, viene enfatizzato attraverso l’esibizione di segni rituali tratti dalla tradizione. L’impiego dei santini durante il rito di affiliazione alle ndrine (DIA primo semestre 2021:22) o la pratica dell’inchino delle statue durante le processioni, pur non essendo quest’ultimo appannaggio esclusivo della strategia identitaria ‘ndranghetista (Palumbo 2020), pure esprimono ancora oggi il forte nesso di appartenenza di queste alla comunità locale. Un senso di unità che agevola l’instaurarsi di un predominio esclusivo. Primato che la ‘ndrangheta rivendica, mantenendo un controllo capillare del territorio e impedendo nell’immaginario collettivo ad altre associazioni criminali, potenzialmente competitive, di affermarsi nel suo dominio. L’accentuata dimensione identitaria che caratterizza la sua organizzazione spiega anche la ragione per la quale le gemmazioni che nascono fuori dalla Calabria, secondo la DIA riproducono fedelmente il modello ‘ndranghetistico calabrese e mantengono rapporti di stretta vicinanza con l’organizzazione madre.
Tuttavia, nonostante l‘organizzazione presenti una struttura così coesa, fondata su un legame di solidarietà a base parentale, alcuni atteggiamenti recenti sono spia del processo dinamico che la sta interessando. Per esempio, ha incominciato a stringere accordi di collaborazione con strutture criminali italiane, ma anche straniere, specialmente albanesi e sudamericane (DIA primo semestre 2021: 20), probabilmente a causa dell’espansione dei traffici realizzata negli ultimi decenni mentre i suoi latitanti cercano e trovano protezione anche all’estero.
Il cambiamento più radicale si registra però in un ambito diverso ed inatteso. Dalle risultanze procedurali emerge con chiarezza il continuo aumento fra le sue fila del numero di collaboratori di giustizia. Una condizione nuova che ha spinto il Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria a sperare nella «vulnerabilità del sistema criminale ‘ndranghetista» (DIA, Primo Semestre 2021:14) e gli estensori del report ad ammettere che «Il fenomeno mafioso calabrese imperniato su quella forte connotazione familiare che l’ha reso fino al recente passato quasi del tutto immune dal fenomeno del pentitismo non può oggi essere analizzato senza tener conto del pressoché inedito impatto determinato dall’avvento nei contesti giudiziari di un numero sempre crescente di ‘ndranghetisti che decidono di collaborare con la giustizia» (DIA Secondo Semestre 2021:13).
Al contrario, la Camorra napoletana sembra attraversare un periodo di stabilità ed equilibrio. Godendo di rapporti che si sono consolidati nel tempo, governa il territorio attraverso una fitta rete di clan e federazioni di clan puntando, nella sua strategia espansiva, su modelli evoluti e competitivi che, come abbiamo segnalato in precedenza, agiscono attraverso un uso capillare della corruzione. Non a caso la sua leadership tende ad identificarsi con figure di professionisti che ricoprono posizioni di controllo (DIA, Primo semestre 2021:126). L’investimento in formazione sta emergendo come requisito e necessità per i giovani rampolli della criminalità organizzata, la mafia dei così detti colletti bianchi, sempre meno disponibile a gestire in proprio azioni eclatanti e violente, il cui solo effetto è quello di creare scompiglio nella ascesa al potere dei cartelli criminali.
Anche nel caso della criminalità pugliese, la tendenza a trasformare una antica criminalità abigeataria in una associazione imprenditoriale, importando il modello affaristico della camorra e della ‘ndrangheta, ha fatto sì che la solidarietà basata sui legami di sangue su cui era nata, almeno in ambito foggiano, sia sostituita da legami che si fondano piuttosto sulla comunità di intenti dei membri della cosca destinata a trasformarsi in questo modo in una comunità di scopo. Senza rinunciare all’antico aspetto familistico, che di tanto in tanto riemerge nelle faide garganiche (Scionti 2011), celebrato attraverso le vendette di sangue in cui sono impegnati i più giovani esponenti di storiche famiglie criminali della zona, soprattutto nell’area del Tavoliere la criminalità foggiana sembra assumere l’aspetto di una vera e propria mafia degli affari, in grado di stringere alleanze e creare consorterie non solo con la ‘ndrangheta e la camorra, ma anche con altre mafie internazionali, da quella albanese alle mafie centroafricane, in particolare quelle ghanensi e nigeriane, per il controllo dei migranti (DIA 2021).
Fra tutte, però, quella che di recente è stata attraversata dai cambiamenti più profondi è sicuramente la mafia siciliana. Sotto i colpi dell’attività di contrasto delle forze dell’ordine, i tentativi di ricomposizione della leadership, messa in crisi dalla reazione alla stagione stragista che ha avuto fra le sue vittime più eccellenti i giudici Falcone e Borsellino, hanno avuto esito incerto. La crisi, che si è aperta soprattutto all’interno di Cosa Nostra, ha cambiato lo scenario criminale siciliano, popolato attualmente sia da gruppi autoctoni che stranieri. Nel panorama così ricomposto, le cosche aderenti a Cosa Nostra sono state costrette a stringere alleanze con altre famiglie criminali, soprattutto con le mafie nigeriane che nella città di Palermo governano i flussi del narcotraffico (DIA primo semestre 2021: 60), e a cambiare in maniera significativa la sua organizzazione. Messa in discussione la possibilità che una famiglia scali il vertice della organizzazione criminale e se ne metta a capo, l’intero assetto appare ora governato da una rete di mandamenti al cui vertice ci sono nuovi reggenti. Il rientro di antiche figure di spicco, i così detti uomini d’onore, non solo non sembra in grado di ricucire gli strappi prodottisi nella mafia palermitana, ma diventa un ulteriore elemento di conflitto nel momento in cui le gerarchie antiche non riconoscono l’autorità delle nuove. In uno scenario così frastagliato, assume rilievo il convincimento espresso dalla Dia per la quale «Cosa Nostra potrebbe, nel tempo, rimodularsi secondo una struttura non più verticistica ma tendere ad un processo più orizzontale caratterizzato dal riassetto degli equilibri tra le famiglie dei diversi mandamenti in assenza di una struttura di raccordo di comando al vertice» (DIA primo semestre 2021: 63).
Possiamo concludere che le organizzazioni mafiose nazionali mantengono la loro struttura piramidale, prediligono lo strumento della corruzione nella gestione dei loro affari e sono imprese criminali consolidate che si aprono al cambiamento, adeguandosi alle esigenze del contesto transnazionale in cui operano. Un contesto non solo fondato sulle disponibilità che il diritto poroso genera nello spazio dell’interlegalità, ma anche sul surplus di possibilità che le organizzazioni mafiose possono tesaurizzare a loro vantaggio.
Rispolverando una nozione antica, l’analisi potrebbe essere rivolta ad indagare l’eventualità che le organizzazioni criminali che operano all’interno del territorio nazionale stiano fondando una comunità di pratica, mettendo insieme il patrimonio di conoscenze di cui ciascuna dispone e amalgamando le disposizioni durature su cui ognuna si fonda. Secondo Ingold «le relazioni tecniche sono imbricate in relazioni umane» (Ingold 2001:144) per questa ragione «ciò che viene normalmente rappresentato come complessificazione, uno sviluppo della tecnologia dal semplice al complesso, dovrebbe essere inteso come un processo di esternalizzazione» (Ibidem).
Se applichiamo questo teorema alla lettura del fenomeno mafioso fin qui proposta, possiamo ipotizzare che alcuni dei cambiamenti che si registrano nell’assetto della ‘ndrangheta o nella mafia siano effetto della esternalizzazione delle capacità tecniche che i gruppi stranieri hanno reso disponibili per le mafie italiane e che, nell’insieme, questo scambio di abilità perverse stia producendo sistemi organizzativi mafiosi più fluidi e più duttili, in grado di rispondere meglio alle necessità del gioco criminale.
Per avvalorare questa prospettiva proveremo a confrontare i modelli organizzativi di due sistemi mafiosi stranieri, con le mafie nostrane. In particolare prenderemo in considerazione il modello albanese e quello nigeriano che sembrano essere i due sodalizi stranieri più radicati e in continua ascesa in Italia. Entrambi hanno travalicato i confini nazionali, mantenendo saldi rapporti con la terra di origine e le organizzazioni che ivi sono attive.
Gli albanesi posseggono una forte identità etnonazionale (Resta 1996) basata sullo ius sanguinis. Questa contingenza favorevole permette di sviluppare un discorso unitario sulle organizzazioni criminali che alcuni albanesi hanno radicato nel nostro Paese. La caratteristica peculiare della mafia Albanese è quella di basarsi su legami familiari. Tendenza all’apparenza condivisa con mafia, ‘ndrangheta, camorra e società foggiana. Le disposizioni durature su cui sono costruiti i legami familiari in Albania ed in Italia sono però diversi.
Per spiegare la relazione che esiste fra il sistema lignatico all’origine dei legami familiari in Albania e l’organizzazione criminale contemporanea albanese, bisogna mettere in relazione tre principi: il principio dell’appartenenza, quello della solidarietà del gruppo dei fratelli e quello della segmentazione perpetua. Il criterio dell’appartenenza si basa sul sangue, si fonda sul un principio di discendenza unilineare patrilaterale e organizza gruppi lignatici la cui unità minima è detta fis (Resta 1997). Rafforzata dalla regola virilocale che governava il matrimonio, nel sistema tradizionale la solidarietà nel gruppo dei fratelli era massima perché continuavano a vivere in stretta prossimità anche dopo il matrimonio, cooperavano, mantenendo indiviso il patrimonio familiare, ed ereditavano l’obbligo della vendetta di sangue. Nonostante ciò i fis tendevano ad ogni generazione ad organizzarsi in segmenti più brevi. Il principio della segmentazione perpetua a cui andavano soggetti, richiama la relatività del sistema lignatico ampiamente dibattuta in letteratura. Questa propensione impedisce che il sistema determini la formazione di gruppi piramidali, favorendo al contrario lo sviluppo di legami orizzontali e fra pari. In questo modo consente che gruppi cementati dal sangue diventino flessibili. La commistione fra il principio dell’alleanza nel gruppo dei fratelli e quello della segmentazione perpetua, di cui i sodalizi albanesi conservano traccia nelle disposizioni durature che li orientano, li rende di conseguenza adattabili. Evocando il principio della segmentazione, in caso di conflitto interno sono pronti a separarsi senza mettere in discussione l’appartenenza. Se colpiti da un’azione repressiva, sulla base dello stesso principio della segmentazione perpetua, ogni cellula è in grado di riprodursi e riprodurre il sistema non soggetto a gerarchie di potere.
Le disposizioni che regolano l’aggregazione nel sistema mafioso italiano si reggono al contrario su disposizioni diverse. Anche quando, come nel caso della ‘ndrangheta o della società foggiana, i gruppi si basano su legami di sangue, questi risultano molto più fragili. Il sistema di parentela in questo caso agisce sulla base di disposizioni durature che considerano i legami egocentrati. Il sistema di discendenza cognatico o bilineare su cui si fondano, non consente la creazione di gruppi di parentela ma piuttosto di reti mobili, all’interno delle quali il soggetto è libero di scegliere i legami da attivare, come la letteratura antropologica sull’argomento ha ampiamente dimostrato. Le cosche criminali quindi, pur basandosi su legami di parentela, non si determinano come gruppi ma come associazioni, basate sulla scelta soggettiva degli adepti: associazioni temporanee, perché il soggetto può decidere di variare la sua alleanza inseguendo situazioni contingenti; e di scopo, perché include componenti riuniti dall’unico obiettivo di perseguire un risultato. Una differenza decisiva rispetto al modello su cui si fondano i sodalizi criminali albanesi, ma che spiega come persino nella ‘ndrangheta calabrese si registrano oggi casi di pentitismo, comportamento specchio della possibilità di scelta lasciata a chi si immagina libero da fedeltà corporate, in grado di cambiare sulla base del proprio interesse, sia pure criminale, la collocazione delle proprie alleanze.
Un discorso diverso è invece quello che riguarda la mafia nigeriana, costituita da cellule gemmate in Italia dalle così dette confraternite nate negli anni Settanta del Novecento nelle università nigeriane. All’esito della decolonizzazione, la Nigeria risultò formata dall’unione di vari gruppi etnici. Gli Hausa, gli Yoruba, gli Ibo, i Benin, gli Edo, i gruppi provenienti dalla zona del delta del Niger, i Tiv sono solo una piccola parte delle etnie che compongono lo Stato. Nel caso delle mafie nigeriane, quindi, diversamente da quello albanese, le disposizioni durature su cui si fondano i gruppi criminali, potrebbero cambiare in base alla provenienza etnica. Ci troviamo di fronte ad un problema che abbiamo già sollevato. Accorpare i sodalizi stranieri sulla base della loro provenienza nazionale mistifica le differenze di cui sono portatori.
Caratterizzate da una forte componente esoterica e in alcuni casi da una radicale struttura piramidale, tali consorterie nacquero in origine fondandosi sui principi della collaborazione e del sostegno reciproco e in un’ottica di riscatto del passato coloniale ma, proliferando all’interno di uno Stato postcoloniale caratterizzato da un sistema politico parassitario, in cui la maggior parte dei cittadini vivono esperienze di sfruttamento istituzionalizzato (Bayart, Ellis, Hibou 1999; Mbembe 2001; Viti 2007), degenerarono rapidamente. In realtà ad oggi, fatti salvi i report istituzionali, sui cosiddetti culti nigeriani esistono solo poche ma interessanti inchieste (IMD IMD 2020; Palmisano 2019) qualche saggio o articolo pubblicato di recente (Calderoli 2007; Aminu Zubairu Surajo – Zehadul Karim 2017; Jedlowski 2017, Peano 2013) per lo più costruiti nell’intento meritorio di far luce sulla tratta delle nigeriane e di sottrarre una tematica così scottante al rischio di culturalismo, sempre in agguato in questo tipo di analisi (Brivio 2021:162).
Quello di cui si può essere relativamente sicuri è che al momento in tutta la penisola italiana operano diversi gruppi, spesso in contrapposizione violenta fra loro. Fra i più tristemente famosi si annoverano il The Black Axe, appunto Ascia Nera, che nacque in una università di Benin City, costituito all’epoca da Yoruba e Igbo (Aminu Zubairu Surajo – Zehadul Karim 2017:3) caratterizzato da una struttura verticistica che nella sua simbologia si ispira alla terra, si identifica con il numero sette e ha fatto dell’ascia che infrange le catene della schiavitù africana il suo stigma identitario. A questo a volte si contrappone e a volte si aggiunge la Supreme Eiye Confraternity (SEC) meno strutturata del precedente e con legami di tipo più orizzontale, che utilizza una simbologia connessa all’aria e identifica le cariche interne con nomi di uccelli. Altri gruppi noti di matrice cultista sono i Pirates, i Menphite, i Biafra.
I riti di affiliazione particolarmente coercitivi e più in generale il comportamento ritualizzato di cui curano l’aspetto simbolico in chiave cruenta, è all’origine della definizione delle organizzazioni criminali nigeriane in termine di culti. È opinione diffusa che nelle loro politiche di reclutamento, e non solo, facciano ricorso alle pratiche che in Italia sono conosciute come voodoo e in Nigeria ju-ju. Si tratta di tecniche di assoggettamento in virtù delle quali i nuovi adepti entrano nel gruppo non in virtù di un vincolo di parentela, come nel caso albanese, né in relazione ad una comunità di intenti come nel caso italiano, ma in virtù di un debito contratto con una forza trascendente e misteriosa. Enfatizzati nella loro crudeltà dagli organi di stampa, pure questi rituali hanno l’obiettivo di mettere alla prova il nuovo adepto, imprimendo sul suo stesso corpo i segni simbolo di un’appartenenza a cui non ci si può più sottrarre e alla quale non ci si può ribellare, in grado di chiedere e imporre obbedienza assoluta fino a privare di qualsiasi libertà i membri della stessa associazione (Aminu Zubairu Surajo – Zehadul Karim 2017:6).
Rivolto all’esterno, soprattutto nei confronti delle donne avviate suo tramite alla prostituzione, lo ju-ju può essere letto e considerato come un dispositivo di assoggettamento che comporta «l’applicazione degli articoli 600 e 601 del Codice penale italiano – rispettivamente “riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù” e “tratta di persone”» (Brivio 2021:165). Non a caso le cosche paiono sempre più spesso coinvolte nell’attività tristemente nota come schiavitù 3.0 (IMD IMD 2020). Al di là degli effetti più efferati del loro agire criminale rimane il fatto che sotto la voce mafia nigeriana vengono collocate consorterie strutturate diversamente. Se alcune presentano un elevato grado di organizzazione interna e si dichiarano indipendenti ed autonome rispetto alle altre aggregazioni mafiose con le quali condividono il territorio, altre lo sono molto meno e si mostrano duttili.
Nonostante queste differenze, sono proprio i report della DIA a sottolineare con le une e le altre, a seconda delle opportunità e del contesto, si raccordano ed alleano con altri cartelli mafiosi, nigeriani e non. Se, quindi, in alcuni casi si può affermare che dispongano di un «apparato plurisoggettivo organizzato, che affida la propria sopravvivenza alla capacità di pronta attivazione di meccanismi surrogatori, volti a vanificare immediatamente ogni forma di resecazione, ope iudicis, dell’organigramma, mediante una tempestiva redistribuzione dei compiti interni tra i numerosi aderenti» (DIA Primo Semestre 2021:329) che, tradotto secondo una terminologia antropologica, rivela le affinità con il sistema lignatico nella forma segmentaria attiva nelle disposizioni durature albanesi, in altri casi appaiono ricondursi nell’alveo di una organizzazione verticista sulla cui base «operano agevolati da una fitta rete di collegamenti in territorio italiano e africano interconnessi tra loro per la gestione degli affari criminali» (DIA secondo semestre 2021:11) giungendo a farsi riconoscere come «espressione di ingegneria criminale internazionale, finalizzata alla colonizzazione, anch’essa criminale, del territorio italiano, la cui regia non è radicata in Italia, bensì nel Paese d’origine degli indagati» (DIA PrimoSemestre:329).
Il trasformismo pare la chiave vincente dei culti nigeriani, sicché se in alcune intercettazioni risulta manifesta la volontà di operare in piena autonomia sulla base del primato acquisito sulle altre organizzazioni: «noi non abbiamo bisogno di loro per operare in Italia possiamo operare da soli, […] Non abbiamo bisogno di loro per il momento e se ne avremo bisogno potremo riconsiderare l’iscrizione in futuro» si sentiva affermare in alcune conversazioni telefoniche (DIA primo semestre 2021:410-411), pure, nell’ipotesi che siamo andate proponendo, sono componenti attive, insieme e al pari delle altre, di quell’organizzazione transnazionale che si va formando, delimitata dalla pratica esperta che tutte stanno contribuendo ad alimentare. Una realtà criminale la cui comprensione sfugge ad un esame del fenomeno che scelga prospettive ristrette.
La capacità che conservano le unità nigeriane di presentarsi insieme strutturate e flessibili, di trarre il maggior vantaggio in situazioni che richiedono politiche criminali di segno opposto e competenza rispetto ai diversi spazi normativi da governare, rendono la mafia nigeriana un rebus per le forze di polizia italiane che per fronteggiarle non possono prescindere
«dalla conoscenza delle sue origini e delle sue proiezioni internazionali. Esattamente nello stesso modo in cui le Forze di Polizia hanno imparato col tempo a comprendere e ad affrontare le mafie storiche autoctone, forti di un know how investigativo particolarmente solido e progressivamente consolidatosi nel tempo. Del resto le stesse tecniche di investigazione dovranno necessariamente prevedere modalità attuative adeguate a confrontarsi con una realtà criminale per molti aspetti complessa e ancora poco conosciuta in cui le dinamiche e gli stessi rapporti di coesistenza/convivenza con le mafie autoctone – qualora non adeguatamente delineati e monitorati – potrebbero sfociare in inediti scenari criminali» (DIA secondo semestre:413).
Se però quello che si dipana sotto i nostri occhi è un terreno in cui le mafie transnazionali si stanno mettendo in gioco come comunità di pratica, ciascuna avendo appreso dall’altra i comportamenti più utili a sfruttare le opportunità del mercato criminale, allora non sarà più sufficiente il ricorso alla conoscenza delle disposizioni durature di ogni singolarità per cogliere l’insieme di un sistema che, svincolato da ogni logica di fedeltà, si protegge nascondendosi sotto l’aspetto più tranquillizzante che lo restituisce nella forma di «mafia tradizionale».
Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022
Riferimenti bibliografici
Amin Zubairu Surajo e A. H. M. Zehadul Karim, An Assessment of Black Axe Confraternity Cult in Nigeria: Its Impact on the University Educational System, «South Asian Anthropology», n.1:1-7.
Arlacchi, P. (1983). La mafia imprenditrice. L’etica mafiosa e lo spirito del capitalismo, Bologna, Il Mulino.
Bayart J. Ellis S. Hibou B. (1999), The criminalization of the state in Africa, Bloomington, Indiana University press.
Blok A. (1986), La mafia di un villaggio siciliano 1860-1960, Torino, Einaudi, (ed. or 1974)
Bourdieu P. (2003), Per una teoria della pratica con Tre studi di etnologia cabila, Milano, Raffaello Cortina Editore. (ed.or. 1072).
Bourdieu P., (1987), Choses Dites, Paris, de Minuit,
Brivio A, (2021) Assoggettamento da juju? Decostruire le categorie della dipendenza tra le giovani migranti dalla Nigeria, «ANUAC» vol. 10, N° 1: 161-185
Calderoli, L. (2007), Riti magici e prostituzione nigeriana: l’esperienza di una consulenza antropologica per un tribunale italiano, in P.G. Solinas, (a cura di), La vita in prestito. Debito, lavoro, dipendenza, Lecce, Argo: 257-280.
Caselli G.C., (2021), Mini storia della Mafia e delle sue alleanze, «MicroMega», 20 settembre
Chinnici G., Santino U. (1989), La violenza programmata. Omicidi e guerre di mafia a Palermo dagli anni ’60 ad oggi, Franco Angeli, Milano
De Gubernatis A. (1893), La tradizione popolare italiana, «Rivista delle tradizioni popolari italiane», Anno I, fasc I:3-19.
De Sousa Santos B. (1990), Stato e diritto nella transizione post-moderna. Per un nuovo senso comune giuridico, in «Sociologia del diritto», n. 3:.5-34.
De Sousa Santos B. (1988), Droit: une carte de lecture déformé. Pour une conception post-moderne du droit, «Droit e societè » n. 10:363-390
DIA, (2021) Relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento, Primo Semestre, Gennaio-Giugno.
DIA, (2021) Relazione del Ministro dell’Interno al Parlamento, Secondo Semestre, Luglio-Dicembre.
Franchetti L. (1993), Condizioni politiche e amministrative della Sicilia (ed.or. 1877), Roma, Donzelli.
Gupta A. (2012), Red tape: bureaucracy, structural violence, and powerty in India, Durham, N.C.: Duke University press,
Hess, H. (1993), Mafia. Le origini e la struttura, Roma-Bari, Laterza, (ed. or.1970)
IMD IMD (2020), Mafia Nigeriana, Palermo Flaccovio.
Ingold T. (2001), Ecologia della cultura, Roma, Meltemi.
Jedlowski A. (2018), Moral Publics: Human Trafficking, Video Films and the Responsibility of the Postcolonial Subject, «Visual Anthropology», 31, n. 3: 236-252.
Lombardi Satriani L. M. e Meligrana M. (1995), Diritto egemone e diritto popolare la Calabria negli studi di demologia giuridica, Vibo Valentia, Jaca Book, Quale cultura (ed or 1975)
Lombardi Satriani M.L. (2005) Della Mafia e degli immediati dintorni in Morabito (a cura di) Mafia, ‘Ndrangheta, Camorra nelle trame del potere parallelo, Roma, Gangemi.
Mbembe A. (2001), On the Postcolony, Berkeley, University of California Press.
Muir S., Gupta A., (ed.) (2018) Introduction a “Rethinking the Anthropology of Corruption” «Current Anthropology» Volume 59, Supplement 18: 4-15.
Palmisano L. (2019) Ascia Nera La brutale intelligenza della mafia nigeriana, Roma, Fandango:
Palumbo B. (2020), Piegare i santi. Inchini rituali e pratiche mafiose, Bologna, Marietti.
Peano I. (2013), Bondage and Help: Genealogies and hopes in trafficking from Nigeria to Italy, in Joel Quirk, Darshan Wigneswaran, eds Slavery, Migration and Contemporary Bondage in Africa, Trenton, NJ, Africa World Press: 225-249.
Pignatone G. M. Prestipino, Modelli Criminali, Mafie di ieri e di oggi, Laterza, Roma-Bari, 2021
Pitrè G. (1889), Usi e costumi credenze e pregiudizi del popolo siciliano, vol II, L. Pedone Lauriel, Palermo, 1889, in «Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane», 1870-1913, vol XV,
Resta P. (2013), Una storia reietta. Consuetudini giuridiche e pratiche locali alla fine del XIX secolo in Atti del Convegno Sud e nazione Folklore e tradizione musicale nel Mezzogiorno d’Italia Corigliano d’Otranto, 14-15 ottobre 2011 Università del Salento:11-32.
Resta P. (2020), Inciampi. L’irruzione dell’approccio interpretativo nell’antropologia del XX secolo, in Matera V. (a cura di) Storia dell’etnografia. Autori, Teorie, pratiche, Roma, Carocci Editore: 369-390.
Resta P. (2017), Il campo dei diritti. L’Approccio dell’antropologia giuridica, in F. Giacalone, (a cura di) Il tempo e la complessità, FrancoAngeli, Milano, 2017: 99-131.
Resta p. (1996), Un popolo in cammino, Besa, Lecce.
Resta P. (1997) Il modello segmentario della nazione albanese «Futuribili», n.2-3: 197-204.
Scionti F., Capitalisti di Faida, La Vendetta da Paradigma morale a strategia d’impresa Roma, Carocci, 2011.
Schneider J. e Schneider P. (1976), Culture and Political Economy in Western Sicily, New York, Academic Press.
Teti V. (1997). La ‘ndrangheta a colpi di musica «diario», n. 11: 32-35
Viti F. (2007), Schiavi, servi e dipendenti. Antropologia delle forme di dipendenza personale in Africa, Milano, Cortina.
_____________________________________________________________
Patrizia Resta, Professore ordinario di Antropologia Culturale presso il Dipartimento di Studi Umanistici, Lettere, Beni Culturali, Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Foggia, i suoi interessi di ricerca si focalizzano su temi specifici dell’antropologia giuridica come le dinamiche vendicatorie, le pratiche di risoluzione dei conflitti in contesti urbani, la relazione diritto/violenza, i nuovi paradigmi dell’onore in contesti di globalizzazione, i fenomeni mafiosi locali e transnazionali. Temi sui quali ha pubblicato volumi e saggi in collane e riviste di classe A del settore. Tra le sue ultime pubblicazioni si segnalano: Il vantaggio dell’immigrazione. Un progetto per una cultura condivisa (2008); Di terra e di mare. Pratiche di appartenenza a Manfredonia (2009); Belle da vedere. Immagini etnografiche dei patrimoni festivi locali (2010).
______________________________________________________________