il centro in periferia
di Chiara Dallavalle
Oggi è particolarmente diffusa una lettura semplificata del mondo contemporaneo, che scarta la senz’altro faticosa analisi degli aspetti complessi e contraddittori dei fenomeni umani in favore di una visione polarizzata, dove i termini opposti di ciascuna questione sono chiaramente definiti. Questo vale anche per la narrazione del processo di spopolamento dei piccoli borghi, che, secondo questo approccio, vede i centri urbani di ridotte dimensioni, collocati in aree divenute sempre più marginali dal punto di vista economico, perdere nel tempo la propria popolazione a vantaggio dei grandi agglomerati urbani, maggiormente attrattivi in termini occupazionali.
In realtà la questione è più complessa, oggi più che mai. Lo testimonia l’esempio dei territori di montagna. A partire dal secondo dopoguerra quasi tutte le terre alte d’Italia, sia quelle alpine sia quelle appenniniche, sono state interessate da un progressivo spopolamento, che ha visto massivi flussi di persone spostarsi verso le aree più industrializzate di pianura, oppure addirittura migrare all’estero. In realtà il fenomeno era partito in tempi antecedenti alla Seconda Guerra Mondiale. Secondo quanto rilevato dalla grande inchiesta promossa dall’Istituto Nazionale di Economia Agraria e dal Consiglio Nazionale delle Ricerche intorno agli anni ‘30 del secolo scorso, l’economia agro-pastorale delle aree montane, un’economia prevalentemente di sussistenza, era entrata in crisi già a ridosso degli anni a cavallo tra 1915 e 1920 (Bevilacqua 2012). È possibile rilevare qui l’incipit di una profonda trasformazione del sistema economico della montagna, che ha visto poi la sua più incisiva manifestazione a partire dal secondo dopoguerra, con il massivo abbandono di quei territori.
Tuttavia questo trend si è successivamente invertito quando l’economia di montagna ha vissuto una fase di grande rilancio a partire dagli anni ‘70 del secolo scorso. In quegli anni, sull’onda del benessere generalizzato prodotto dalla crescita economica dei decenni precedenti, lo sci ha smesso di essere appannaggio solo dei montanari, ed è diventato uno sport diffuso tra buona parte degli italiani. La montagna ha quindi aperto le porte al turismo di massa, investendo in modo cospicuo nella realizzazione di piccoli e grandi comprensori sciistici su tutto l’arco alpino e dell’Appennino. Le località sciistiche sono diventate un sostegno fondamentale all’economia delle vallate montane, contribuendo in modo importante al rallentamento del processo di abbandono delle vallate stesse da parte dei propri abitanti.
All’interno di questo nuovo scenario, il ciclo lavorativo delle popolazioni locali si è completamente invertito, rendendo la stagione invernale il momento di maggiore attività, a differenza di quanto accadeva nel passato, quando, per comunità che vivevano essenzialmente di agricoltura e allevamento, l’inverno era il tempo del riposo. Difficile non riscontrare un primo importante scollamento tra uomo e ambiente già in questa fase, dove la montagna smette di essere un’entità da temere e rispettare, e con cui vivere in sinergia, e inizia ad essere percepita anche dai propri abitanti soltanto come una realtà da sfruttare al massimo.
Inoltre, se l’industria dello sci alpino ha sicuramente consentito a molti piccoli centri montani di limitare l’emigrazione e lo spopolamento garantendo risorse economiche e occupazione, di certo non ha avuto lo stesso impatto positivo sull’ambiente. Innanzitutto, la realizzazione degli impianti sciistici ha ridisegnato completamente il paesaggio dei territori montani, attraverso l’abbattimento di porzioni importanti di bosco, la realizzazione delle reti viarie necessarie per consentire agli sciatori di raggiungere gli impianti e la costruzione delle infrastrutture alberghiere che ne consentissero l’accoglienza. Con il risultato che luoghi rimasti fino a quel momento pressoché incontaminati dal punto di vista naturalistico, furono radicalmente stravolti. Inoltre, in tempi successivi molti degli impianti sciistici realizzati furono comunque dismessi e abbandonati, e oggi, come denuncia Legambiente (Legambiente 2020), rappresentano dei veri e propri relitti a cielo aperto, una sorta di “rifiuti speciali” che andrebbero in qualche modo smantellati e smaltiti.
A questo si aggiunge il fatto che al presente anche questo modello di sviluppo economico versa in profonda crisi, ed appare sempre meno in grado di garantire il sostentamento delle comunità montane, con il rischio di una nuova inversione di tendenza e di un potenziale nuovo fenomeno di spopolamento di questi territori. La causa di questo recente trend è da ricercarsi negli ormai onnipresenti cambiamenti climatici. Gli effetti della crisi climatica sono infatti sempre più evidenti anche in montagna. L’inverno 2021/2022 ha visto l’assenza pressoché locale della neve sulle cime alpine, cosa che ha causato l’impoverimento delle scorte idriche naturalmente garantite dagli accumuli nevosi invernali. La crisi idrica ha poi raggiunto livelli drammatici durante la scorsa estate, particolarmente calda e asciutta. La penuria d’acqua in quota era penosamente visibile nei pascoli già ingialliti in piena estate e nella secca di ruscelli e laghetti.
Una stretta al cuore per chi ha a cuore la salute di questi fragili e fondamentali ecosistemi naturali, ma un elemento di crisi anche per la sopravvivenza delle sempre più fragili economie montane. Molti allevatori hanno dovuto riportare le vacche a valle nel bel mezzo della stagione estiva proprio a causa dell’assenza di acqua e della scarsità di erba negli alpeggi. La situazione degli allevamenti si è poi maggiormente acuita ad inizio autunno a causa del caro bollette, che ha impattato negativamente su un settore già fortemente provato dai problemi idrici dell’estate. Ma molti altri sono gli esempi di crisi dell’economia montana provocati dall’emergenza climatica. I rifugi, meta di un turismo più sostenibile e di nicchia, si sono visti costretti a razionare l’acqua e ad alimentare le proprie riserve con quella trasportata da valle con le autobotti. Per chi frequenta abitualmente la montagna, questo scenario sembra tratto da un brutto film di fantascienza. Ma purtroppo la dura realtà è ormai sotto gli occhi di tutti.
Quali saranno le conseguenze di questi fenomeni estremi sulle comunità locali di quei territori? E per tornare al caso degli impianti sciistici, come potrà sopravvivere un’economia che si fonda in modo importante sulla neve quando la neve non c’è, e manca pure l’acqua per sparare quella artificiale? Difficile dare una risposta esaustiva ad interrogativi del genere. Certo è che l’intero modello di sviluppo delle zone montane va completamente rivisto, se non si vuole incorrere, tra le altre cose, anche in una nuova fase di abbandono di queste terre. E le scelte da compiere devono necessariamente tenere conto della pluralità di fattori in gioco, in primis l’attenzione all’ambiente e alla cura del capitale naturale che le montagne rappresentano.
Da questo punto di vista i fondi in arrivo grazie al PNRR potrebbero offrire una risorsa importante, se ben utilizzati. Ma anche in questo caso, lo scenario relativo alla loro destinazione sembra non essere molto rassicurante. È ancora Legambiente che ci aiuta a fare chiarezza, e la parte del rapporto Nevediversa 2022 sul PNRR così recita:
«Sappiamo ad esempio che sono stati richiesti parecchi soldi per la costruzione di impianti sciistici, a nostro parere del tutto insostenibili dal punto di vista economico e ambientale. Un esempio è quello della Giunta regionale del Piemonte, che in un battibaleno ha dato il via libera a un investimento di 2.630.000 di euro per interventi di “accanimento terapeutico” nel Cuneese, a Garessio, Bagnolo Piemonte, Entracque, Pontechianale, tutti siti a quote altimetriche piuttosto basse. Ma ancora più incomprensibile risulta essere quanto è stato previsto nelle Marche. Una regione certo non famosa per i comprensori sciistici che ha stanziato per l’area dei monti Sibillini ben 65.292.000 di euro, una parte rilevante e abbondante delle risorse messe a disposizione dal CIS (Contratto Istituzionale di Sviluppo) e dal Fondo Complementare Aree Sisma 2009/2016. Notizie sconcertanti di nuovi investimenti arrivano dal Col de Joux, in Valle d’Aosta, dove si vogliono ripristinare piste che non hanno mai funzionato per mancanza di neve, nemmeno nel passato» (Nevediversa, 5:2022).
Surreale. Per fortuna esistono anche territori in cui si sperimentano buone pratiche di turismo sostenibile, che vuole e può dare nuova linfa all’economia dei territori montani nel rispetto dell’ecosistema naturale. Un turismo più lento, meno invasivo, che allo sci dei grandi comprensori preferisce le escursioni e il trekking durante l’estate, e le ciaspolate e lo sci fuori pista in inverno. E che al posto dell’hotel 5 stelle di Cortina d’Ampezzo predilige l’accoglienza in piccoli alberghi alpini a gestione famigliare. Un esempio virtuoso è ad esempio quello dell’associazione Naturavalp, nata per preservare il territorio della Valpelline, in Val d’Aosta, incentivando un turismo a misura d’uomo, che promuove le piccole realtà locali e valorizza l’ambiente naturale anziché stravolgerlo.
Una sensibilità che si sta diffondendo sempre più, e che sta diventando un elemento propulsore per chi vuole salvaguardare la montagna rendendo economicamente possibile abitarla. Nella provincia del VCO (Verbania-Cuneo-Ossola) in Piemonte, una rete di volontari e piccoli albergatori dell’Alpe Devero sta resistendo strenuamente da anni, con il sostegno di buona parte della popolazione locale, al progetto di un faraonico comprensorio turistico su un territorio che è rimasto ancora oggi quasi completamente incontaminato. L’obiettivo millantato dalla Provincia del VCO e dai Comuni promotori è quello di promuovere lo sviluppo turistico di questa zona, ma il progetto, oltre ai danni ambientali, è in realtà chiaramente in contrasto con il mantenimento delle piccole realtà imprenditoriali di quel territorio, che probabilmente soccomberebbero velocemente davanti alle grandi società cui verrebbe affidata la realizzazione delle nuove strutture.
Realtà di resistenza come questa vanno difese e sostenute, innanzitutto per evitare dispendio di soldi pubblici in progetti definiti da Legambiente di “accanimento terapeutico” in quanto non più sostenibili dal punto di vista ambientale. Ma anche e soprattutto per porsi finalmente in difesa di un ambiente sempre più maltrattato, e che invece va protetto per proteggere al contempo noi stessi dalle conseguenze della crisi climatica. E in ultimo anche per mantenere la montagna un territorio vitale, curato e custodito da chi lo abita, anziché abbandonato a sé stesso, e sfruttato solo quando la legge del profitto lo richiede.
Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022
Riferimenti bibliografici
Bevilacqua, P., 2012. Precedenti storici e caratteristiche del declino delle aree interne. Atti dal convegno “Le aree interne: nuove strategie per la programmazione 2014-2020 della politica di coesione territoriale – Roma, 15 dicembre 2012”.
Legambiente, 2020, 2022. NeveDiversa
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Chiara Dallavalle, già Assistant Lecturer presso la National University of Ireland di Maynooth, dove ha conseguito il dottorato di ricerca in Antropologia Culturale, collabora con il settore Welfare e Salute della Fondazione Ismu di Milano. Si interessa agli aspetti sociali e antropologici dei processi migratori ed è autrice di saggi e studi pubblicati su riviste e volumi di atti di seminari e convegni.
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