immagini
di Ivana Castronovo
Procrastinare fino all’inevitabile la mappatura di questi pensieri è stato un atto di allontanamento errante, un lungo periplo alla ricerca di parole adatte dal quale non ho ancora fatto ritorno. Rimetto insieme i pezzi su una scrivania non mia, a Milano, dove tutte queste tracce mi appaiono come l’abbaglio di una visione limpida in mezzo alla nebbia che torna.
Qui, dove l’acqua del naviglio Pavese va via piano, svelando un letto di macerie dimenticate, come un anno fa. Per ogni nuova traccia, un’altra sfugge e in questo circolo senza fine rincorro qualcosa che non riesco ad afferrare.
Non conto i giorni trascorsi in Islanda ma quelli che seguono, uno dopo l’altro dal momento in cui sono tornata in attesa di un bel racconto che tarda ad arrivare. Ogni giorno è un giorno in più senza parole. Quelle che vorrei fossero giuste. Sono giorni di mancanza e dunque di necessità.
Nel fuoco della scorsa stagione, un giorno fra gli altri, mi trovavo in compagnia di fronte al porto Villanova di Ostuni, a parlare di fotografie, selezionati estratti del reale, mappe, di passi incerti per ritrovare il senso della misura, di pioggia, tanta pioggia e dell’Islanda.
L’Islanda che era per me un viaggio promesso, lasciato in sospeso, da condividere. Ma al tramonto delle possibilità di raggiungersi, nell’urgenza di perdermi per costringermi a trovare un’altra strada possibile, ho deciso di partire da sola.
Ho preso i biglietti mentre ero a Fabriano nel corso di un viaggio a tappe non programmate in Italia. Sedici giorni, durante i quali essere persi sembrava se non altro di buon auspicio per sognare una direzione. Due settimane dopo ero in volo per Reykjavik.
Tra i miei primi appunti di quei giorni che oggi rileggo, trovo: – Volare verso Reykjavik è stato come inseguire la luce. In viaggio tutto attorno a noi nell’aria si era fatto buio. Ma sporgendo un po’ lo sguardo, provando a intravedere qualcosa oltre l’ala traballante, c’era sempre un fascio di luce all’orizzonte che tardava a morire.
E sfuggendo al buio, noi, sembravamo rincorrerlo. Vuoto, poi ancora – Nell’autobus per Reykjavik ricordo solo odore di saponetta al tea tree oil e tutto buio attorno. Nessuna luce fino alla città. Nero. Nessun orizzonte da scrutare.
Non ho visto altro oltre l’asfalto su cui silenziosi ci siamo mossi. – Arrivavo di notte, le prime luci della città mi conducevano all’ostello, nient’altro nella quiete. Andavo a dormire. Partire attrezzati, partire carichi di aspettative, partire con la convinzione che quella sarebbe stata una “caccia-raccolta vittoriosa” di un racconto fuori dall’ordinario da portare a casa e per sempre. Ma arrivare in Islanda forti della sicurezza di poterne uscire vincitori e non vinti non è un consiglio che mi sento di dare.
Durante i primi giorni mandai un video ad I. che mi chiese: “com’è?”. Quel messaggio è stato la seconda scheggia negli occhi. La prima è arrivata con la luce quando ho visto, la seconda con il messaggio di I., la terza, di conseguenza, quando ho capito, non sapendo rispondere a quella domanda, che di fronte a ciò che mi si presentava davanti io ero analfabeta.
Ho spogliato i miei appunti dei nomi di ciò che vedevo perché non era più importante sapere realmente dove fossi, ma rendermi conto che essere lì in mezzo mi stava mettendo difronte ad uno scenario denso di una grammatica di cui ero sprovvista, con una lingua che non ho mai parlato.
“Com’è?” era la domanda giusta. I. non mi stava chiedendo se mi stesse piacendo, ma di tracciare delle linee guida attraverso un paesaggio che io ho scoperto oggi di aver saputo solo assorbire, non raccontare.
Ciascuna di queste foto così come le altre che non spesso riesco a guardare, sono un mio tentativo di assoggettare l’irriducibile alla sintesi di un gesto tecnico, incorniciato, ma che si paga al caro prezzo di ciò che al di fuori di questo non trova posto in questa raccolta di finitezze, le nostre.
Ricordo, tra le altre cose, che in diversi momenti provai disagio nell’essere convinta che attorno a me si stesse manifestando tragico lo spettacolo di una collettiva incapacità di contemplare. Ero sola, talvolta in mezzo a reazioni che mi turbavano profondamente.
Mi assalì un senso di frustrazione che sfogai in uno scambio di messaggi fondamentale. C. mi scrisse «[…] Tu non sei come loro ma sei anche come loro» e nello smarrimento silenzioso che seguì a questo messaggio, oltre il ronzìo arrogante che mi frullava in testa, capisco oggi che quelle che non comprendevo non erano reazioni “sbagliate” ma reazioni possibili, e che come le mie giungevano alla fine per essere semplicemente quel che erano, ovvero tentativi mancati di troneggiare l’abisso di ciò che non si è in grado di comprendere.
Mi sento di dire ora che l’Islanda apre forse le frontiere del dopo, un passo oltre il limite che vive in noi. Esploratori di questa visione sono forse i poeti, fedeli sacerdoti dell’inafferrabile, unico divino a cui sono devota. Ma riconoscere di essere persi è una responsabilità di tutti. Resta così aperta una domanda che mi accompagna: «How will you go about finding that thing the nature of which is totally unknown to you?» (Rebecca Solnit, A field guide to getting lost, Canongate Books, 2017).
Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022
_____________________________________________________________
Ivana Castronovo, laureata in Discipline delle Arti della Musica e dello Spettacolo presso l’Università degli studi di Palermo, ha sostenuto l’esame finale con un progetto dal titolo Zoo umani, un’analisi estetica e geo-antropologica (dr. Matteo Meschiari e Salvatore Tedesco) dedicato all’analisi delle narrazioni dell’altro e dell’altrove all’interno degli zoo umani a cavallo tra XIX e XX secolo, mediante l’utilizzo di particolari espedienti estetici, geografici ed antropologici. Ad oggi prosegue gli studi presso NABA – Nuova Accademia di Belle Arti di Milano con un Master in Photography and Visual Design.
______________________________________________________________