il centro in periferia
di Giuseppe Sorce
Il silenzio si inspessisce, sempre di più. E il vuoto non ha padroni. Se non il Tempo. E l’Antropocene ha resettato l’idea di Tempo. Quella che era la crisi della modernità di harveyana memoria [1] è giunta a compimento.
Negli ultimi mesi i borghi d’Italia, l’abbandono, la fuga e la ricostruzione sono stati dei fuochi tematici attorno ai quali mi sono aggirato senza volerlo poi troppo. È stata una perlustrazione girovaga, sapevo che i fuochi erano lì, non so perché. Forze centrifughe e centripete in un equilibrio che si scontrava col mio e che vi si è adagiato, sovrapposto, fino a essere impresso. Mi ritrovo così oggi a confrontarmi con un altro, prezioso, testo sui borghi. E mi ci ritrovo adesso, quando l’algoritmo, il caso o il destino, mi hanno condotto a lavorare come docente proprio in un borgo, anzi, uno dei borghi eletto qualche anno fa “più bello d’Italia”.
Proprio qui su Dialoghi ho scritto su borghi, spopolamento, luoghi liminali e spettralità. Perché sì, se da un lato il borgo porta con sé una certa aura di speranza, di ricostruzione appunto, di cura, resistenza e riappropriazione, a fare da contraltare è proprio l’ineluttabile certezza a cui si va incontro quando si va nei borghi non per turismo estivo: i borghi sono già abbandonati. Se, come scrivo nella recensione su Contro i borghi (su Dialoghi Mediterranei, n. 57) [2], sono molteplici le forze che lottano per un recupero, una rivitalizzazione, una rinascita dei borghi, iniziando con il non pensarli più come borghi ma come paesi e cittadine, è anche vero che i flussi migratori testimoniano tendenze nette.
I borghi, fuori dalle logiche del turismo borghese di massa prettamente estivo, rivelano nell’inverno e nel quotidiano la loro fragilità. Se, dall’altro lato, è proprio fuori dalle stagioni turistiche che i borghi rivelano anche una straordinaria capacità di resistere ai flussi della cultura e della storia, inneggiare a una loro eroica esistenza epica sembra più un atto consolatorio, mistificatorio e autoreferenziale. Sì, le narrazioni romantiche di un luogo che resiste al Tempo piacciono a tutti. Anche perché lo slittamento, sempre narrativo, tra borgo-resistenza-castello-stendardo-cuore è qualcosa a cui tutti cediamo volenti o nolenti.
Ma ecco che, come al solito, la pratica etnografica ci restituisce delle dimensioni più crude a volte, poetiche ma non retoriche, romantiche ma non illusorie, salvo mala fede dell’osservatore. Ecco allora che Da borghi abbandonati a borghi ritrovati ci offre una piccola soglia di speranza reale, e nello sguardo e nella pratica. È questo un volume uscito in due parti, la prima sapientemente letta da Antonino Cusumano sempre qui su Dialoghi [3]. La seconda parte, o meglio il secondo tempo, come recita il titolo, edita nel maggio del 2022 da Associazione ’9cento, a cura di Luca Bertinotti, Matteo Mazzone e Niccolò Mochi-Poltri, ci proietta da subito in un intrigante percorso verso la comprensione, la messa in discussione, l’abbandono, la lotta e la resistenza dei borghi del nostro Paese.
La storia del volume, come riporta Bertinotti nell’introduzione, si fa già portatrice della complessità e della criticità dei tempi, oltre che dei luoghi, del nostro contemporaneo poiché fra il convegno del 2018 e la stesura successiva del volume (che racchiude sia gli interventi che altri contributi aggiunti in sede di stesura) la pandemia di Covid ha colpito il globo tutto con le ripercussioni che conosciamo. «Confesso che è stata davvero bizzarra – e mi auguro irripetibile – la sensazione percepita nel “cucire” i vari saggi incentrati sul fenomeno dell’abbandono insediativo e dei paesi “fantasma”, mentre fuori dalle finestre il mondo era stato congelato» scrive Bertinotti, offrendoci una finestra dolceamara sul lavoro editoriale di un testo che nella sua interezza ha l’intento di indagare su quel che sembra un mondo fantasmatico, spettrale, ricucito, quello dei borghi ossia. E dico sembra perché come detto in quello che è un processo di svuotamento che ora sembra inarrestabile, ci sono pratiche, iniziative, altrettanti processi di segno opposto che tentano l’impossibile: ripensare e quindi riabitare i borghi.
Da borghi abbandonati a borghi ritrovati - secondo tempo è un lavoro ricco che coinvolge infatti una pluralità di prospettive, sguardi ed esperienze preziose sul territorio. Ingegneri, architetti, poeti, fotografi, letterati e registi. I contributi si susseguono accompagnati da un corposo apparato di immagini, mappe e testimonianze. La tensione verso l’Antropocene è palpabile e non viene mai dimenticata durante tutti i contributi, perché l’Antropocene è ormai manifesto e i contraccolpi dal punto di vista dei luoghi è palese a tal punto da costringere qualsiasi autore – salvo, di nuovo, malafede o scarsa preparazione – di qualsivoglia disciplina a porsi il problema dell’abitare all’interno del più grande e insidioso problema del futuro dell’umano e dell’umanità in generale.
«Sarà un’umanità diversa, in forte sofferenza forse, ma mi auguro – precisa Bertinotti – più caritatevole o quanto meno più collaborativa di quella attuale; un’umanità che non si potrà permettere il lusso di lasciare indietro nessuno: potremmo anche non amare il prossimo, ma dovremo imparare sicuramente a sostenerci a vicenda molto più di quanto facciamo oggi».
I borghi, nel loro essere margine e nucleo insieme, focolare e cenere, casa e altrove, si configurano come i primi luoghi esposti ai grandi mutamenti che il futuro del mondo e dell’uomo ha già retroattivamente anticipato. Il borgo è rovina ma è anche castello, roccaforte, dicevamo, è abbandonato ma è anche avamposto, è agricolo, campestre, ma è anche antropomorfizzato, è Gea ma è anche Cton. Il ripensare il borgo è quindi ripensare sé stessi in quanto cittadini irrimediabilmente “corrotti” (mi si conceda questo virgolettato) dalla città, dalla privazione del magico, come scrive Federica Previtali, del senso e del significato profondo che solo può nascere da un rapporto più autentico col paesaggio terrestre, da sempre unico vero grande tutto dell’esperienza umana.
«Il proliferare degli appassionati di esplorazione urbana mi ha portato a censire, se così vogliamo dire, questo variopinto pubblico fruitore dell’abbandono e mi sono resa conto di come ciascuno a suo modo, quando esplora, apra in verità una vera e propria porta su un personale luogo altro. Partendo con chi dichiara apertamente di andare a caccia di presenze o fantasmi e terminando con le personalità più razionali in assoluto in cerca di testimonianze e fatti storici nessuno – e dico veramente nessuno – ha negato di sperimentare, durante l’esplorazione di un luogo abbandonato, un contatto speciale con energie che qualcuno pone fuori di sé ed altri, semplicemente, riconoscono come parti di sé medesimi finalmente dis-velate. Nel luogo abbandonato si verifica un salvifico corto circuito tra ciò di cui siamo prigionieri e ciò che ardentemente desideriamo».
Se di questo cortocircuito l’esperienza del borgo abbandonato è manifestazione ambita o desiderata che sia, sicuramente, in qualche misura utile all’esperienza sempre più claustrofobia, inquieta (in tutti i sensi) e assordante della città. Mauro Varotto si concentra invece sull’operazione, inversa ma non contraria, del ripopolamento del borgo.
«L’azione del “recuperare” è qualcosa che abbiamo perduto e dobbiamo prima di tutto comprendere più a fondo, proprio per distinguere un ritorno ai borghi in virtù di seconda casa turistica, luogo dove superficialmente si trascorre del tempo libero, da quello che è il vero obiettivo di fondo, ovvero un ritorno ai borghi e a quel senso passato dell’abitare».
Il fil rouge che lega gli interventi nel volume è la netta percezione di come il borgo, in quanto luogo casa dell’anima e in quanto luogo altro, funga da membrana osmotica fra il tempo e lo spazio, il tempo del passato e lo spazio del presente, il tempo del futuro e lo spazio del passato. Con riferimento agli scenari dell’Antropocene, che rimescola appunto passato, presente, futuro, ambiente e persone, «che ruolo può avere la montagna?» Si chiede Varotto. Il borgo è infatti indissolubilmente legato all’immaginario della montagna, oggi contesa fra sfruttamento economico e valore storico-culturale. E a tal proposito, per esempio, Christian Arnoldi indaga dal punto di vista della sociologia l’incontro scontro fra le comunità montanare autoctone e chi invece sceglie volontariamente la montagna per abitarla e per investire in attività e progetti di rivalutazione.
«Autoctoni e nuovi arrivati vedono due valli e due montagne diverse. I montanari per nascita tendono a vedere la montagna come il loro ambiente di vita, nel quale devono adattarsi; concepiscono se stessi come persone dedite al lavoro, che cercano di trarre profitto per sopravvivere dalle poche o tante risorse a disposizione, di vivere comodamente, di migliorare la propria condizione di vita, di mantenere un livello simile a quello degli altri valligiani; sanno di far parte di un clan familiare dotato di una sua reputazione e una sua posizione sociale, di essere affiliati a specifiche associazioni e compagnie. I montanari per scelta, invece, tendono a percepire il luogo globalmente, a preoccuparsi di aspetti quali l’ambiente, la natura, la salubrità, il patrimonio, la bellezza, la salvaguardia».
Ciò che è importante quindi, per una prima lettura, è che qualsivoglia processo spaziale di addomesticamento, di ripensamento, ricostruzione o abbandono, è sempre un processo drammatico nella misura in cui non è mai qualcosa che si lascia fare ma che crea sempre frizioni, giochi di forza, contrattazioni narrative, ideologiche, oltre che economiche appunto o burocratiche. In questo senso interviene Aristone, quando scrive che
«ci sono luoghi che potremmo chiamare narrativi in quanto capaci di farci leggere con profondità la scrittura del territorio, che allargano il nostro sguardo e ci inducono a considerare l’insieme delle relazioni, anche quelle più implicite. Sicuramente i territori fragili e quelli ai margini hanno questa attitudine, nel senso che rendono possibili, e necessarie, riflessioni che si riverberano nel tempo e nello spazio».
È questo il nocciolo caldo dell’idea stessa di borgo, oltre che della sua ontologia che sfugge sempre a uno sguardo urbanizzato così come sfugge a chi vive in prima persona, da abitante “autoctono”, le sue criticità alle quali è esposto continuamente. Vivere il borgo, la montagna, i margini, è un’esperienza che non fa sconti ove, come abbiamo detto, le dinamiche demografiche, culturali, tecnologiche e delle lontane città emergono limpidamente. Ci si può più o meno indignare di come le istituzioni sfruttino i borghi a seconda dell’aria che tira. Lasciati a loro stessi durante la maggior parte dell’anno, la comunicazione di massa vira poi sui borghi d’estate, quando il turista si deve muovere, “non andate all’estero, l’Italia è così piena di posti incantevoli”.
Tutto il volume perciò cerca sì di orientare l’attenzione sui borghi d’Italia, luoghi soglia del Belpaese, ma lo fa attraverso vari sguardi orientati all’indagine sui luoghi oltre la loro vendibilità, perché anche le iniziative, i fondi, le campagne di investimenti, i bandi, indirizzati a realtà delle aree interne, della montagna, o semplicemente che stanno affrontando lo spopolamento, non corrispondono quasi mai a un’attenzione continua e realmente interessata a chi vive il borgo. Inoltre, la marginalità dei luoghi è anche la marginalità delle persone, perciò viene facile, ma non felice, pesare le tendenze di attenzione e cura dei luoghi come per gli abitanti di quei luoghi.
A conclusione, una narrazione non-nostalgica sui borghi è necessaria così come un’analisi dell’emigrazione e del conseguente abbandono dei nostri piccoli paesi, cittadine e realtà spaziali ai margini, perché i margini, i luoghi-soglia, sono le cartine tornasole del nostro tempo, del nostro qui e ora, ma questo non deve ridurre i luoghi di tal genere a simboli, metafore e metonimie dei tempi. Si tratta infatti di luoghi e di persone, di storie, pratiche, sperimentazioni e memorie. Memorie di resistenza, di abbandono e ricostruzione. Esperienze di fuga, di lacrime, di addii, di legami ma anche pratiche di resilienza, di ritorno, di ostinazione, di confronto e cooperazione. E di tutto ciò ne abbiamo un disperato bisogno, non in un qui particolare, in città o in una provincia urbanizzata, ma nel nostro ora, nel nostro Tempo.
Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022
Note
[1] Harvey D. 2015, La Crisi della Modernità, Milano, il Saggiatore.
[2] https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/per-una-contronarrazione-sui-borghi-epifenomeno-contemporaneo/
[3] https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/dalle-macerie-alle-rovine-dalla-resistenza-alla-rigenerazione/
______________________________________________________________
Giuseppe Sorce, laureato in lettere moderne all’Università di Palermo, ha discusso una tesi in antropologia culturale (dir. M. Meschiari) dal titolo A new kind of “we”, un tentativo di analisi antropologica del rapporto uomo-tecnologia e le sue implicazioni nella percezione, nella comunicazione, nella narrazione del sé e nella costruzione dell’identità. Ha conseguito la laurea magistrale in Italianistica e scienze linguistiche presso l’Università di Bologna con una tesi su “Pensare il luogo e immaginare lo spazio. Terra, cibernetica e geografia”, relatore prof. Franco Farinelli.
______________________________________________________________