di Filippo Barbera
A pochi mesi dall’uscita di Contro i borghi (F. Barbera, D. Cersosimo, A. De Rossi, Donzelli ed., 2022), è possibile trarre un primo bilancio dell’iniziativa editoriale promossa dall’associazione “Riabitare l’Italia” e curata da chi scrive insieme a Mimmo Cersosimo e Antonio De Rossi. Il libro è stato progettato e scritto con l’obiettivo di suscitare una riflessione aperta e trasparente sulla curvatura che il termine “borgo” è venuto ad assumere nello spazio pubblico. Curvatura nefasta e pericolosa, che se non denunciata e combattuta rischia di annichilire il policentrismo territoriale italiano, riducendolo a una facile e fallace rappresentazione dicotomica.
Perché “borgo” è il gemello diverso di “città”: il polo semantico apparentemente oppositivo che in realtà serve solo a confermare la centralità del vivere urbano e la riduzione unilaterale di tutto ciò che non è città al «piccolo insediamento storico che ha mantenuto la riconoscibilità nella struttura insediativa storica e la continuità dei tessuti edilizi storici prevalentemente isolati e/o separati dal centro urbano non coincidenti con il centro storico o porzioni di esso. A meno che non siano Comuni piccoli o piccolissimi caso in cui il centro storico è considerato Borgo», come recita la nota ministeriale relativa al c.d. “bando borghi” (cfr. nota 8, Clemente 2022). Raramente come in questo caso, possiamo dire a ragion veduta che “le parole sono pietre”.
Quale bilancio, quindi? A circa sei mesi dall’uscita, la prima tiratura è in esaurimento e l’editore ha deciso di ristamparlo. Le recensioni sono numerose e cospicue: https://www.donzelli.it/libro/9788855223560. Gli inviti a dibattiti, festival e le interviste sono giunti da programmi noti e ad ampia copertura (Radio 3 Fahrenheit: https://www.raiplaysound.it/audio/2022/08/Fahrenheit-del-04082022-bb03dc89-8131-4234-a0c3-2de8ad70df9c.html) fino a emittenti locali (https://rbe.it/2022/08/01/contro-i-borghi-gentrificati-lintervista-ad-antonio-de-rossi/). Sono segnali importanti e che ci rincuorano sulla capacità del libro di ottenere l’effetto previsto: far discutere e riflettere. L’aspetto per noi più importante, però, sono gli inviti dei territori: da Nord, a Sud, dall’Italia delle aree interne a quella delle Terre Alte, dalle Alpi agli Appennini, dai luoghi dimenticati da quelle politiche pubbliche che si nutrono del mito del turismo, fino a quelli tenuti in piedi da Sindaci coraggiosi e da tessuti associativi ricchi di intelligente attivismo civico, abbiamo e stiamo ricevendo moltissimi inviti a presentare il lavoro. Spesso, la frase che accompagna l’invito è: “finalmente qualcuno lo ha scritto, siamo paesi, non borghi”.
La recezione del libro ha quindi dato vita a una sorta di “backtalk etnografico” con i territori tutt’ora in corso, dove l’insieme delle osservazioni e dei commenti dei nativi al libro ci ha confermato la validità culturale della cifra interpretativa che abbiamo scelto. Sono anzitutto i territori a dirci che sì, che il piccoloborghismo è una violenza simbolica, che l’estetizzazione della tradizione è una fruizione da riserva indiana per un ceto medio riflessivo, che occorre prendere atto di Bruttitalia accanto a Bellitalia. Insomma, è gratificante vedere che la nostra provocazione trova e intercetta il senso dei luoghi anzitutto per le persone che ci vivono. Luoghi che vorrebbero l’abitabilità quotidiana come stella polare; territori che, prima delle rievocazioni storiche in costume, pensano alle comunità energetiche rinnovabili e alla messa a terra di progetti di nuove economie di montagna, perché sono consapevoli che la sopravvivenza richiede un ordine di priorità nelle cose da fare. Piccoli Comuni che creano mense pubbliche con prodotti di filiera corta, per distribuire cibo di qualità ai bambini e sostenere l’agricoltura locale. Paesi che investono su politiche di attrattività e connessione con i centri urbani, all’insegna di progetti di valle e di “metromontagna” (Barbera e De Rossi, 2021). Perché il “borgo” separa ciò che invece il “paese” unisce. Il primo è, come scriviamo, un insediamento per sottrazione: tolti i legami funzionali con il territorio, rimossa la stratificazione della storia, annullato il conflitto che la diversità dei nuovi abitanti porta sempre con sé, cancellata la rilevanza della capacità amministrativa e dei confini politici dell’azione collettiva locale, si ottiene il borgo.
Se questo è il bilancio, occorre però vagliare le considerazioni critiche, seppur anch’esse inscritte in un quadro generale di apprezzamento. Su questa rivista, Pietro Clemente scrive che: «porre al centro del bersaglio polemico i ‘borghi’ rischia di avere come conseguenza una forte spaccatura dentro il mondo delle culture locali, culture che spesso hanno aderito alle associazioni che promuovono i ‘borghi’. La parola ‘borgo’ viene usata come responsabile di azioni mistificatorie dell’immagine dell’Italia» (2022). Su questo punto, però, il libro ha una posizione chiara. Noi scriviamo:
«(…) all’inizio l’uso traslato della parola ha avuto anche una funzione apprezzabile. Qualche decennio fa, quando il borgo era ancora una piccola parte di una narrazione più ampia, quando le iniziative di Uncem e Anci, dei Borghi più belli d’Italia e dei Borghi autentici, si univano – con spirito positivo e ottimistico – alle denominazioni comunali di Veronelli e ai presidi Slow Food, al nuovo uso disinvolto della parola si sono associate iniziative meritorie, mosse dalla volontà di rianimare una rete di relazioni, tra produttori e consumatori, come tra persone e filiere. Fu questa la fase di avvio di un processo di riscoperta e di ripensamento delle aree interne e montane, dopo la lunga parabola della modernizzazione novecentesca che aveva marginalizzato e reso invisibili vallate e contadi» (Barbera, Cersosimo, De Rossi: 2022: X).
Ma la genesi di un fenomeno non ne spiega automaticamente il suo funzionamento: è davvero poco convincente pensare che le strutture e i significati che hanno portato alla nascita di quella stagione, siano applicabili oggi. Come tutti i termini, anche il termine “borgo” acquisisce significato in relazione alla rete di altri termini e concetti con cui è in relazione (Levi Strauss, 2009). Certo, per strappare il velo di Maya e gridare che “il Re è nudo” occorre fare i conti con l’internità al campo e con la vicinanza all’oggetto: l’innovazione – che come ci ricorda R.K. Merton è anche una forma di devianza (1968/2000) – è facilitata dalla marginalità rispetto alle dinamiche dei “campi” e ai loro “tic”. È lo “straniero” che ci aiuta a vedere ciò che altrimenti diamo per scontato (Simmel 1908/2018); è attraverso lo sguardo di chi sta sui confini e/o “viene da fuori” che possiamo vedere che il mondo è cambiato e i termini hanno assunto un diverso significato. L’appartenenza protratta e ravvicinata ai campi può facilmente far oltrepassare il labile confine “emic-etic” (Mostowlansky e Rota, 2020): ci dimentichiamo che il linguaggio dei nativi non è il linguaggio della ricerca e dell’analisi, ma un suo oggetto. Le origini della distinzione emic/etic in linguistica si trovano in Pike (1967), il quale distingue tra resoconti fonemici e fonetici dei suoni del linguaggio. Nella sua formulazione originaria, la fonemica indica le regole rilevanti che i parlanti nativi hanno nella loro testa, mentre i resoconti fonetici riguardano quelle distinzioni e categorie rilevanti “nella testa” del ricercatore.
In altri termini, la comunità di pratica che mette in scena il concetto di “borgo” e la comunità degli analisti che ne studiano i significati non coincidono. La prima ha scopi pragmatici e performativi, mentre la seconda si pone obiettivi analitici, descrittivi e interpretativi. La prima utilizza dei quasi-concetti per generare degli effetti, la seconda mette in tensione le pratiche e il linguaggio dei nativi con la cassetta degli attrezzi formata dai concetti con scopi di interpretazione, descrizione e spiegazione. Sappiamo che la distinzione non è rigida, ma sappiamo anche che è necessario mettere a frutto la distinzione “emic-etic”, vuoi come attivisti, vuoi come analisti. Di conseguenza, ciò che in Contro i borghi a Clemente appare a volte come “un esercizio di estremismo”, è in realtà l’effetto di straniamento che lo costringe a fare i conti con questa distinzione, uscendo dal linguaggio che i “nativi” utilizzano per agire nel mondo e auto-descriversi. Ciò, del resto, richiede la disponibilità a pagare un prezzo, non scontato dentro i confini della fonemica: accettare il conflitto interno al campo. Per questo, non stupisce che uno dei timori di Clemente sia proprio che un’analisi come la nostra generi: «una possibile frattura in uno spazio che mi sembra utile tenere unito». Dentro i confini della fonemica, potremmo dire, extra ecclesiam nulla salus.
Il conflitto dentro la comunità dei nativi mette in crisi le dinamiche di riconoscimento tra nativi e osservatori/partecipanti. Del resto, proprio qui risiede il valore aggiunto della duplice appartenenza “emic-etic” che l’associazione “Riabitare l’Italia” promuove: individuare con precisione e senso del tempo il perché, il come e il quando del conflitto necessario. L’appartenenza alla comunità dei nativi può anche essere letta, con il linguaggio dell’economia, come un bene pubblico specifico (Bellanca 2007: 42-51). Come il bene pubblico puro, anche il bene pubblico specifico è non-escludibile e non-rivale. Ma, a differenza del primo, presenta un’importante caratteristica: l’utente può goderne appieno i benefici solo se sostiene costi di accesso definiti. Ad esempio, la conoscenza del linguaggio jazz necessaria per partecipare alla creazione di Bitches Brew (l’album che sto ascoltando ora) costituisce un bene pubblico specifico, in quanto chi lo pratica ha dovuto sostenere degli elevati costi di accesso. Proprio per questo motivo – l’elevato investimento iniziale necessario per appartenere al campo ed essere riconosciuto come competent speaker – i costi di exit sono elevati e il conflitto assume spesso un connotato negativo. Il conflitto è quindi un evento da scongiurare perché cambia le cerchie di riconoscimento provocando una reductio ad amazoniam (Pizzorno 1986) che mette in discussione il significato intersoggettivo e il valore delle cose in cui crediamo, in cui ci identifichiamo e che rappresentano un investimento biografico e progettuale.
Si tratta di dilemmi davvero non semplici, nei quali anche i curatori di Contro i borghi si trovano spesso invischiati, data la loro attività civile e professionale nelle aree interne. Ma è proprio la natura ibrida ed “eterarchica” dell’associazione “Riabitare l’Italia” di cui facciamo parte con Pietro Clemente – composta da operatori, attivisti, analisti e policy-maker – che ci aiuta nella difficile operazione di cucire le esigenze “emic” con quelle “etic”. Certo, come prima scritto, il prezzo da pagare a volte è l’accettazione del conflitto, la storicizzazione delle esperienze di valore, la necessaria innovazione come unica via per mantenere viva la tradizione, ma soprattutto riconoscere l’inflazione semantica che i termini subiscono nel corso del tempo.
Torniamo all’esempio dei beni pubblici specifici. Al crescere del numero di persone che utilizzano quel linguaggio specialistico faticosamente appreso, il linguaggio si fa più vago, meno specifico, più convenzionale e ritualistico. Il jazz che diventa “troppo fusion” non piace più ai puristi. Il “piccoloborghismo” e la “borgomania” di cui parliamo nel libro, sono un esempio di inflazione semantica. A questo punto i costi dell’exit diminuiscono: per i parlanti che per primi avevano appreso e costruito con fatica il linguaggio specialistico, è ora più semplice uscire dalla comunità originaria e provare a fondarne un’altra. Questo può avvenire o tentando di recuperare una sorta di “purezza” del messaggio originario (Bellanca 2007: 44-51), oppure negando in toto la validità del messaggio, rinunciando alla fruizione del bene. In presenza di inflazione semantica del termine “borgo”, più che difendere «l’unità del movimento dei borghi più belli», come auspicato da Clemente, sarebbe più produttivo dare voce a chi non vuole separare il paese dal borgo.
I borghi espungono il conflitto, i paesi lo guardano in faccia e lo gestiscono; i borghi vivono di mercificazione della tradizione da vendere al miglior offerente, i paesi usano il mercato per alimentare la vivibilità quotidiana dei luoghi. Così, sarebbe molto interessante capire se la trasformazione dei borghi abruzzesi in wedding destinations (cfr. https://borghipiubelliditalia.it/2022/02/17/matrimonio-al-borgo-2022-2-14/) si accompagna o mortifica la comunità locale: entrambi gli esiti sono sulla carta possibili, ma per “andare a vedere” occorre accettare il conflitto interno al campo come possibile esito della verifica. Il turismo è un giano bifronte, anzi spesso si è rivelato una trappola per i luoghi. Ne scrive, per esempio, la recensione di Giuseppe Sorce, sempre sulla rivista che cortesemente ospita questo mio intervento:
«É chiaro che, quando si parla di Italia e i suoi paesaggi, il turismo viene subito individuato come forza distruttrice perché sì, mettetevi l’anima in pace, il turismo di massa, così come viene oggi costruito, venduto, pubblicizzato, è una forza distruttrice, per il pianeta intero, figuriamoci per il nostro Paese. Per questo, il concetto contemporaneo di “borgo” funziona come cartolina attrattiva per tutti i turisti del mondo, come jolly in una mano perdente, è un costrutto estetizzato che non ha la priorità che ogni luogo deve avere: l’abitabilità» (Sorce 2022).
Il binomio turismo-sviluppo locale e il richiamo ai borghi come termine, sono centrali anche in alcune critiche di Paolo Piacentini (cfr. https://www.italiachecambia.org/2022/09/borghi-contro-paesi-dibattito/). Quanto al secondo punto, anche Piacentini ricorda che: «il termine “borghi” ce lo portiamo dietro dalla famosa legge Realacci e non solo: anche dalle varie associazioni di promozione turistica nate negli ultimi anni. Ricordiamo che il “paese” era sparito da tempo nelle varie narrazioni della politica e della cultura». Anche in questo caso, come già sottolineato prima per la critica di Pietro Clemente, non resta che ribadire – come nell’introduzione è scritto chiarissimo – che condividiamo la funzione storica meritoria avuto da queste iniziative (genesi), che però hanno cambiato natura e funzione nel corso degli anni (funzionamento). Come nella prospettiva della linguistica strutturale, il significato di un termine cambia in relazione ai rapporti che questo intrattiene che altri termini, la cui collocazione, rilevanza e varietà è storicamente variabile. A riguardo, la c.d. “Legge Realacci” colloca il termine “borgo” e la rilevanza del turismo in relazione al primato dei servizi essenziali e al ripopolamento: è la struttura delle relazioni tra termini che crea il significato: «La presente legge favorisce l’adozione di misure in favore dei residenti nei piccoli comuni e delle attività produttive ivi insediate, con particolare riferimento al sistema dei servizi essenziali, al fine di contrastarne lo spopolamento e di incentivare l’afflusso turistico» (https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2017/11/02/17G00171/sg).
La seconda nota critica sollevata da Piacentini riguarda la presa di posizione del volume verso il c.d. “bando borghi”: «La critica più aspra viene avanzata al bando borghi del Ministero della Cultura. Sicuramente la logica del bando non risolve i problemi strutturali, ma la vasta partecipazione credo che potrà comunque, in molti casi, attivare processi virtuosi che vanno nella direzione indicata dai curatori del libro. Mi viene da proporre allora che – oltre alla critica, sempre ben accetta se costruttiva – si può attivare una sorta di rete di controllo dal basso sui progetti che risultano finanziati». Qui vale la pena sottolineare diversi aspetti. Anzitutto, come raccontiamo in questa intervista (cfr. https://altreconomia.it/contro-i-borghi-per-i-paesi-perche-dobbiamo-ridare-dignita-ai-territori/), è davvero paradossale che a fronte di paesi dove non arrivano le strade e che richiedono ai residenti e turisti di allungare moltissimo il tragitto (è, questo, il caso di Elva, Comune vincitore della Linea A in Piemonte, https://www.cuneocronaca.it/riapriamo-la-strada-del-vallone-di-elva-nuova-petizione-diretta-alla-provincia-di-cuneo e di Carrega Ligure, in alta Val Borbera, tra i vincitori della linea B, https://www.ilsecoloxix.it/basso-piemonte/2022/07/26/news/resta-chiusa-la-strada-tra-cabella-e-carrega-il-sindaco-silvestri-lavori-complessi-servono-altri-rilievi-1.41606292) si finanzino interventi puntuali e non azioni di sistema.
Ciò che manca del tutto nel bando borghi, è una visione di sviluppo locale di area vasta, che faccia del buon funzionamento delle infrastrutture materiali e immateriali, da quelle di mobilità a quelle sociali, un asse fondamentale dello sviluppo locale. Il problema di questa impostazione è nel manico: è proprio l’aver dato al Ministero della Cultura la responsabilità del bando borghi il peccato originale. A ciò si aggiunga che l’impostazione politico-culturale di Dario Franceschini è agli antipodi di quanto sosteniamo nel libro. Le note “riforme” di Dario Franceschini si basano sul principio manageriale di separare la good company dei musei (quelli che rendono qualche soldo), dalla bad company delle odiose soprintendenze, avviate a grandi passi verso l’abolizione. Il resto (archivi, biblioteche, siti minori, patrimonio diffuso) è semplicemente abbandonato a se stesso: avvenga quel che può (Montanari 2022). I borghi sono quindi identificati come una sorta di “beni-faro”: i borghi che illuminano le valli, peccato che manchino le strade, le scuole, i trasporti, i buoni lavori per le persone nei luoghi.
Nella lente deformante del turismo come locomotiva (e non come uno dei vagoni), il patrimonio non produce conoscenza diffusa, ma lusso per pochi basato sull’estrazione di valore. Tutto questo non è una novità, è l’estremizzazione della linea inaugurata da Alberto Ronchey (Ministro per i beni culturali dal 1992 al ‘94), guidata da un micidiale cocktail ideologico nel quale erano mescolati la dottrina del patrimonio come “petrolio d’Italia”, la religione del privato con l’annesso rito della privatizzazione, e (specie dopo il Ministero di Walter Veltroni) lo slittamento “televisivo” per cui il patrimonio non ha più una funzione conoscitiva, educativa, civile, ma si trasforma in un grande luna park per il divertimento e il tempo libero. Borghi, quindi, per chi arriva in aereo da Berlino o Amsterdam e si va a bere un aperitivo all’ombra delle Alpi o degli Appennini. Oppure dove i neo-abitanti sono dipinti con i tratti dei giovani che lavorano in smart working nei bar di un centro storico del Centro Italia, dove le persone si muovono con auto o monopattini elettrici, come nel cortometraggio “Presto sarà domani”, firmato dal regista Michele Placido e prodotto da Deloitte in collaborazione con Goldenart Production (cfr. la recensione di Luca Martinelli: https://altreconomia.it/contro-i-borghi-per-i-paesi-perche-dobbiamo-ridare-dignita-ai-territori/). No grazie.
Infine, la proposta del monitoraggio civico con il ruolo che potrebbe svolgere una rete di cittadinanza attiva “dal basso” come funzione di “controllo” sull’attuazione, dovrebbe chiarire qual è lo scopo e quali sono le risorse in gioco. La cittadinanza attiva, infatti, può essere anche il cavallo di Troia di una politica neo-liberale che dismette del tutto l’azione pubblica. Perché più che di controllo, ciò di cui si sente il bisogno è la co-progettazione (pubblico-privato; centri-margini; interno-esterno) della fase attuativa; e più che di cittadinanza attiva, c’è soprattutto necessità di personale, strutture e miglioramento della capacità amministrativa dei piccoli Comuni. Temi, questi, dimenticati da una politica che ha indebolito le istituzioni di prossimità e cancellato quelle intermedie, sacrificate sull’altare del populismo delle élite.
Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022
Riferimenti bibliografici
Barbera, F. De Rossi, A. (a cura di) (2021), Metromontagna, Roma, Donzelli
Barbera, F. Cersosimo, D., De Rossi, A. (a cura di) (2022), Contro i borghi, Roma, Donzelli
Bellanca, N. (2007), L’economia del noi, Milano, Bocconi
Clemente, P. (2022), Il trentesimo editoriale. Fermarsi per fare il punto? in “Dialoghi Mediterranei”, n. 57
Lévi-Strauss, C. (2009), Antropologia strutturale, Milano, Il Saggiatore
Mostowlansky, T. & A. Rota (2020), Emic and etic, in The Cambridge Encyclopedia of Anthropology (a cura di) F. Stein, S. Lazar, M. Candea, H. Diemberger, J. Robbins, A. Sanchez & R. Stasch. http://doi.org/10.29164/20emicetic
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Montanari, T. (2022), Le pietre e il popolo: restituire ai cittadini l’arte e la storia delle città italiane, Roma, Minimum fax.
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Pizzorno, A. (1986), Sul confronto intertemporale delle utilità, in “Stato e mercato”, 16: 3-25
Simmel, G. (1908), Soziologie. Untersuchungen über die formender Vergesellshaftung, tr. it. Sociologia, Milano, Meltemi, 2018
Sorce. G. (2022), Per una contro-narrazione dei borghi, epifenomeno contemporaneo, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 57
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Filippo Barbera, Professore ordinario di sociologia economica e del lavoro presso il Dipartimento CPS dell’Università di Torino e fellow presso il Collegio Carlo Alberto, si occupa di innovazione sociale, economia fondamentale e sviluppo delle aree marginali. Tra le sue recenti pubblicazioni, ricordiamo: Contro i borghi (a cura di, con D. Cersosimo e A. De Rossi, Donzelli, 2022), Metromontagna (a cura di, con A. De Rossi, Donzelli, 2021). Fa parte del Direttivo dell’associazione “Riabitare l’Italia” (https://riabitarelitalia.net/RIABITARE_LITALIA/), è membro del Forum Diseguaglianze e Diversità e Presidente dell’associazione Forwardto (https://www.forwardto.it/). Scrive per “Il Manifesto”.
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