«Pas de deux»
Si può dire di un uomo in molti modi. Si può ricostruire la sua vita, rintracciando le ragioni del suo operato nella sua educazione, formazione, nei suoi incontri e nelle sue corrispondenze con i propri maestri o i propri accidenti di vita. L’uomo è la sua storia: una biografia. Si può scegliere, invece, di seguire la sua opera, rintracciarla, archiviarla, studiarla, ordinarla in una sequenza ragionata, anche argomentata. L’uomo è il suo lavoro: un catalogo o una monografia. Ma si possono anche ricostruire le ragioni della teoria di un uomo, studiando esclusivamente ciò che ha prodotto, nel suo farsi, rilevandone i processi, le decisioni, le ragioni, le consistenze materiche e le allusioni sottaciute.
L’uomo è ciò che fa: l’analisi di un’opera singola, o di una tecnica, o di un’attività come di una sineddoche, che si compie da un frammento alla teoria. Ma si può dire di un uomo anche attraverso le parole degli altri. Occhi che osservano e proiettano la sua opera in molteplici interpretazioni, un caleidoscopio di volti. L’uomo è una mappa, che il lettore ricuce, di proiezioni mentali altrui. Luci critiche, che si confrontano e si dipanano anche oltre i limiti biologici di una vita. Questo taglio della ricerca, che ha il volto di un’antologia critica dai molteplici contributi, è la lente adoperata da Vincenzo Maria Corseri, quale curatore di un volume di 285 pagine, edito da Silvana Editoriale, su Amalia Del Ponte, scultrice milanese attiva dai primi anni Sessanta [1].
La fusione di tale lente è un incontro. Un «pas de deux», volendo giocare con la citazione di una ondemostra del 1978, a cui Amalia Del Ponte partecipa con Sandro Chia, organizzata da Anne Marie Sauzeau Boetti e Gian Battista Salerno, presso la nota Galleria La Salita di Roma [2]. Ma la scena di questo passo a due non è l’architettura barocca di una vivace, quanto inquieta, Roma primaverile della fine degli anni ’70, ma le colonne doriche di calcarenite dell’antica Selinunte, in una rovente e lenta mattina agostana, in cui l’artista commissiona allo studioso la raccolta e selezione di numerosi testi pubblicati sulla sua attività artistica da molteplici critici d’arte e interpreti, distribuiti in un lungo arco temporale, dagli anni ’60 sino ad oggi. Lo spirito del progetto era, citando l’incipit del curatore, permettere ai giovani artisti e ai semplici lettori «di accostare la sua arte [...] attraverso “gli scritti degli altri”» [3]: Guido Ballo, Gillo Dorfles, Vittorio Fagone, Eleonora Fiorani, Anne Marie Sauzeau Boetti, Francesco Tedeschi, Tommaso Trini, Lea Vergine e molti a seguire. Sembra che il “pas de deux”, rincorrendo per divertissement le suggestioni di Sauzeau Boetti, in effetti contenga l’ambiguità linguistica di un’unione, quanto di una negazione. «Non c’è due» nell’unione, né l’artista, né il filosofo. Scompaiono entrambi in sordina, sotto le molteplici esecuzioni. Dunque, non un canto celebrativo, né una nostalgica riesumazione, quanto una musica da camera per pochi strumenti, noti critici e interpreti della riflessione estetica del XX secolo, che in amichevole confidenza rilevano, in una poliedrica trattazione di testi, un’esperienza artistica altrettanto tale.
Corrispondenze
Esperienze plurali, sarebbe meglio tracciare: dalla formazione con il maestro Marino Marini alle onde di gesso del 1959, onde freddate come da una Medusa, eppure evocative della loro evanescenza fluida, che è l’essenza o principio della materia del gesso; il battesimo dei “Tropi” nel 1967 alla Galleria Vismara di Milano, nome coniato da Fagone per una felice serie scultorea di prismi elementari in plexiglass, ricavati da casseri alti due metri, luogo di ricezione e rifrazione luminosa, centri di intensione ed estensione dei significati di un luogo; dalle esperienze internazionali presso le Biennali d’Arte e l’assegnazione del Primo Premio per la Scultura nel 1973, alla dimensione radicalmente intima e familiare del diario di una relazione madre-figlia, sublimata nella mostra Expoarte, curata da Vergine a Bari nel 1977; dalle esperienze come designer per gli interni del negozio Gulp! e il primo negozio di Elio Fiorucci a Milano, alle ricerche sperimentali sulla “forma del suono” nelle molteplici personali performative dei suoi litofoni, che seguono dalla fine degli anni ’80 e lungo il corso degli anni ’90 da Roma a Milano a Mantova; alla dimensione fenomenica della videoinstallazione nelle quattro Casematte nell’Isola La Certosa alla Laguna di Venezia.
Avverte Fiorani, e forse rincuora, sulla poliedricità di Del Ponte, che non si traduce mai in un confuso e sproporzionato eclettismo di indecisioni e relativismi, quanto in un percorso di osservazioni, intuizioni, ipotesi, esperimenti e formulazioni, vicino ad una scienza sperimentale, intesa come un’indagine sull’arte, che non smarrisce il suo rigore formale astratto [4].
In tal senso, rara è la combinazione tra il contenuto di una pubblicazione e la sua forma, come accade anche solo per un fortunato accidente in questo esito. Così come l’accezione di un liber amicorum riferita dal curatore, già dalla lettura delle prime pagine, è quanto mai misurata alle pieghe di questo concorso di segni. Un accordo di testi e immagini, anche inediti, costruito dopo una faticosa selezione e una combinazione estremamente controllata, che si evince senza toni forti da una lettura dal tempo cadenzato. Il ritmo è, infatti, opportunamente composto in quest’antologia, come un’armonia alternata di testi ordinati a destra e di immagini a fronte, isolate a piena o mezza pagina, ad accompagnare i singoli contributi critici in un basso continuo. L’esito di questa cura, anche in tal caso, si incontra bene con una ricerca artistica che in Del Ponte è strettamente ancorata ad una lettura musicale della forma, che insegue l’eco di armonie antiche e preclassiche.
I suoi litofoni sono grandi lastre lapidee rettangolari, staccate dalla parete e appese, lavorate sulla superficie con incisioni, graffiti evocativi, che attendono di essere percossi da strumenti appositamente progettati. La materia e la forma cantano un ordine cosmico, che è proprio del materiale educato a forma e indagato nella forma, attentamente studiato affidandosi allo studio e applicazione delle scienze “ufficiali”, matematiche e fisiche, umane e sociali: algebra, chimica, biologia, neurofisiologia, mineralogia, antropologia, sociologia. Gli esiti sinestetici sembrano rievocare l’unione originaria e strettamente materica tra armonia visiva e musicale. Libro e opera d’arte, così come testi e immagini, cantano note delle civiltà sepolte, non senza richiamare quei vivaci guizzi avanguardisti, tipici di un primo Novecento familiarmente affine alle figure ancestrali preclassiche, etrusche, come anatoliche o della civiltà dell’Indo.
Scelte
E coerentemente con la lettura di queste esperienze plurali e transdisciplinari, l’ordine degli scritti, col controcanto delle immagini, segue la linea temporale di produzione dell’artista. Una linea temporale, che però non assume la valenza di una struttura lineare progressiva, quanto di una cucitura di mappe mentali aperte a nuovi assemblaggi, a nuove sperimentazioni, curiosità approfondite. Col favore di uno sguardo illuminista ad un singolo lemma, si tratta di una curiosità enciclopedica, descrittiva, non sintetica, ramificata in più voci, che non ha pretese di completezza o di definizione univoca, di totalità manifestata.
Questa curiosità si traduce in una forma di libertà, anche etica, che l’artista persegue. L’autonomia dell’arte in Del Ponte rivendica il proprio statuto non solo agli altri campi disciplinari, coi quali interagisce proficuamente, ma soprattutto a se stessa. Non esistono categorizzazioni estetiche, tendenze artistiche, a detta di Federico Florian, che possano congelare la scultrice [5]. Di quest’assunto di libertà scrive anche Angela Maderna, contestualizzando l’attività di Del Ponte nel panorama, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta, dei nascenti gruppi artistici nel Nord Italia, come il Gruppo T e il Gruppo N, ai quali la scultrice non aderisce.
«Una specie di ansia di essere libera – spiega Del Ponte – mi ha fatto fare questa scelta, credo sia un fatto di temperamento […] Ho rifiutato la strada delle gallerie e lo rifarei, con il rovescio della medaglia. Al contratto con la galleria, ho preferito lavorare come designer» [6].
Questa dimensione anti-etichetta e anti-manifesto non è da confondersi con l’accezione ottocentesca di un artista-individuo, “separato”, che reclama libertà espressiva e creativa, ma è da combinarsi con una dimensione artigiana, che concede poco al dire e molto, quasi tutto, al fare. Ben riporta Tommaso Trini, per spiegare la sua ars amalia, le parole del fisico premio Nobel Richard Feynman: «Non capisco quel che non posso creare» [7]. Che nell’ars amalia, letta in questa sede, assume l’ulteriore puntualizzazione di un «non capisco quel che non posso trasformare». In altri termini, questo “fare l’arte”, che da una parte risveglia la téchne degli Antichi e il Mastro sellaio di Adolf Loos, dall’altra si accosta con libera curiosità al momento galileiano delle sensate esperienze, praticando nell’arte o sublimando con essa i principi e il metodo della conoscenza “per esperimento” di ciò che può solo essere trasformato, non creato. Non esiste creazione nell’ars amalia. Solo trasformazione e conservazione di energia, affidata al lavoro sulla materia.
Invito al viaggio
La Scuola di Atene di Raffaello sintetizza le due polarità della conoscenza a confronto, con i paradigmi dei due filosofi Platone e Aristotele: l’indice di Platone rivolto verso il cielo e la mano di Aristotele aperta alla terra. Queste due visioni si incontrano, si scontrano e si combinano nell’affresco mai finito della storia del pensiero, quanto nelle declinazioni antropologiche delle singolarità che sono oggetto di studio. In altri termini, e approcciandoci con lo spirito ingenuo di un gioco speculativo, Amalia Del Ponte, come tutti, ha il suo cielo e la sua terra. E la sua produzione può essere letta secondo entrambe queste chiavi di lettura, che guardano alla dimensione cosmica come a quella naturale.
La Terra guarda ai “Tropi” di Del Ponte nel loro carattere di inscindibilità dal luogo che riflettono. Opere site-specific, in ambienti puntualmente progettati, dove citando Umbro Apollonio «un oggetto plastico agisca da elemento animatore con il concorso della luce» [8]. Per Apollonio e Bruno Munari, curatori, nel 1973, della XII Biennale Internazionale d’Arte a San Paolo del Brasile, Del Ponte allestirà l’opera “tropica” e site-specific “Area Percettiva”, che le varrà il già citato primo Premio per la Scultura. L’esperienza estetica, in tal senso, è un ribaltamento dei paradigmi della scultura, che integra e carica di ulteriori valenze, l’ambiente naturale attraverso una riflessione di prismi squadri. Il tropos, termine di origine indoeuropea, è difatti una figura semantica che devia i contenuti originari in nuovi significati. Eppure, la forma geometrica ed elementare di questi oggetti e la loro concezione materica assumono un così alto grado di generalità e di “assenza”, da sfuggire alle specifiche declinazioni degli ambienti singoli, per rincorrere definizioni più estese e pretenziose. In fondo, il Cielo direbbe che i “Tropi” stanno bene e si ricordano bene ovunque. Appartengono empaticamente a quel luogo, ma anche ad un altro. Un po’ come quel lontano Teatro del Mondo, progettato da Aldo Rossi nel 1979, che viaggiava attraverso le acque dell’Adriatico.
«Se, in apparenza, le opere di Amalia Del Ponte possono sembrare del tutto disgiunte da ogni riferimento figurativo e da ogni ricerca rivolta alla corporeità, in realtà è proprio l’impronta dell’artista sul materiale usato, la proiezione del suo pathos sulla dura superficie del marmo, a costituire l’aspetto più significativo dell’osmosi tra artista e medium espressivo […]. A prescindere da quelli che possono risultare gli equivalenti numerici di queste composizioni, […] queste sculture rimangono a testimoniare l’acuta sensibilità plastica dell’artista» [9].
Gillo Dorfles, nel 1995, rivendica in queste righe la corporeità dell’agire artistico che costituisce l’impronta terrena, personale ed esclusiva, dell’artista sul materiale. Un percorso di ricerca sensibile, affidato ai sensi e al corpo. I litofoni di Del Ponte ascoltano il materiale, che varia di luogo in luogo. Serpentini, graniti, travertini seguono alle interrogazioni dell’artista sui luoghi raggiunti, da Milano, a Mantova, a Roma, e ascoltati come storie e identità: «[…] sono andata a cercare, nelle cave di Tivoli – risponde la scultrice, nel 1992, all’intervista di Giovanna Dalla Chiesa – una pietra che non avevo mai usato, né “suonato”: il Lapis Tiburtinum che vediamo continuamente e con cui è costruita la maggior parte della città di Roma» [10]. Il luogo è un racconto che i litofoni rievocano nella propria materia che suona. D’altro canto, la forma materiale, così come l’indagine simil scientifica condotta, presume ed evoca un ordine cosmico della natura, che si accorda a “equivalenti numerici” e composizioni, che non possono essere emarginati in un “a prescindere”.
In altri termini, la ricerca di Del Ponte assume la dimensione di una sperimentazione scientifica elementare, dal sapore di uno studio alchemico, che il Rinascimento elabora a partire dal Timeo platonico. Nel 1974, Del Ponte alleva un cristallo in una soluzione satura di allume di potassio, studiandone il suo accrescimento e variazione di forma. Sarà invitata nel 1986 alla Biennale di Venezia dal curatore Arturo Schwarz sul tema del rapporto tra arte e alchimia. Il richiamo all’ordine cosmico, fatto di geometrie, proporzioni, armonie, che l’arte imita, interviene anche in un nuovo proporzionamento e reinserimento dell’essere umano nello spazio naturale. L’essere umano non è più individuo, idiotés, separato e contrapposto alla natura, ma ne fa parte come una fra le sue molteplici componenti. L’Uomo vitruviano leonardesco, in tal senso, non è un uomo al centro dell’universo, ma è un essere vivente, misurato e proporzionato con i principi costitutivi della natura, di cui è parte. Una dimensione deantropocentrica, a cui Del Ponte aderisce.
Scrive Florian: «All’epoca, tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta, l’Accademia di Brera era – e lo è ancora in parte – una fucina di giovani talenti a Milano» [11]. Non si può tacere, in effetti, il contributo di un contesto storico-culturale qual è stata, per Del Ponte, la città meneghina di quel decennio. Florian la descrive con non poche suggestioni: gli anni del cambiamento, della sperimentazione, del rifiuto di formule predeterminate da parte di giovani curiosi, cresciuti nel ventre di grandi maestri come Marino Marini. La volontà di emancipazione e superamento non rinnega, difatti, una solida formazione teorica e tecnica, che sarà il terreno fertile di esperienze plurali: dai Concetti Spaziali di Lucio Fontana a Merda d’Artista di Piero Manzoni; dalla Goccia bronzea di Kengiro Azuma allo Spazio elastico ambiente dell’arte cinetica e programmata di Gianni Colombo; e i luoghi dell’incontro, come il leggendario Bar Jamaica vicino l’Accademia, frequentato dai giovani scrittori, intellettuali, artisti di quegli anni. In tal senso, un luogo e un tempo sembrano dare conto dell’esperienza di un singolo, che per Del Ponte è questa Milano tra il secondo dopoguerra e gli anni Ottanta: operosa, nebbiosa, severa. Eppure, dalla terra fertile di un contesto storico culturale, o di una biografia, che giustifica la crescita artistica, così come il senso di appartenenza ai propri luoghi e ai propri tempi storici, le radici della memoria scelgono anche altro, superando i confini, verso una dimensione sovrastorica, che è la realtà da noi costruita dei Maestri che ci scegliamo: Klee, il Costruttivismo russo di Gabo, Pevsner, Moholy-Nagy, un testo sulla Fenomenologia della percezione di Merleau-Ponty, un meta-romanzo di Italo Calvino. In tal senso, la contemporaneità di Del Ponte, così come di ogni essere umano che abita i propri luoghi, ha forza solo in quella singolare relazione che Agamben definisce come «quella relazione col tempo che aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo» [12]. Le citazioni della storia, che interagiscono nel racconto di Corseri, sono memorie, riferimenti, corrispondenze, che si fanno storia proprio nel porsi a distanza rispetto al proprio tempo, nella non-coincidenza, nella discronia data dagli Antichi che suonano il tetracordo, dalla visione di un dodecaedro platonico, dal misticismo di un astrattista tedesco, dalle Lezioni di uno scrittore italiano.
Tra cielo e terra, la Del Ponte raccontata da Corseri è un libro sempre aperto di quesiti, di suggestioni, di percorsi. «Tante domande – scrive Del Ponte – ma una non so, dovrei pensare per altri 50 anni» [13]. È un divertimento, per il lettore, partecipare a questo gioco di riflessioni. È un invito al viaggio, per colui che scrive. Forse fra i ruderi assolati dell’antica Selinunte, con cui inizia questo percorso, o in quel paese che ci e vi assomiglia tanto. Buon viaggio, con l’ars amalia.
Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022
Note
[1] V. M. Corseri (a cura di), Amalia Del Ponte. Antologia critica dal 1962 al 2021, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (Milano) 2021.
[2] Ivi: 35-37.
[3] Ivi: 7.
[4] Ivi: 63.
[5] Ivi: 156.
[6] Ivi: 213.
[7] Ivi: 17.
[8] Ivi: 27.
[9] Ivi: 83.
[10] Ivi: 149.
[11] Ivi: 153.
[12] G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, nottetempo, Roma 2008: 9.
[13] V. M. Corseri (a cura di), Amalia Del Ponte. Antologia critica dal 1962 al 2021, cit.: 165.
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Alessandra Ciacciofera, dottore di ricerca in Progettazione architettonica, ha studiato l’architettura del Ventennio romano, specificatamente l’opera dell’architetto Marcello Piacentini, con una tesi dal titolo Inter urbes et colles. Via Bissolati, Roma. Ragioni della forma di una strada dell’architetto Marcello Piacentini. A quest’argomento ha rivolto alcune pubblicazioni scientifiche. Si è interessata allo studio di talune opere berlinesi dell’architetto Aldo Rossi e ad argomenti di morfologia e topografia urbana, partecipando a specifici convegni come relatrice e aderendo a molteplici iniziative accademiche presso università italiane ed estere. Al suo attivo pubblicazioni su questi temi. Ha svolto attività di assistenza alla didattica ed è stata Cultore della materia per molteplici Laboratori di Progettazione architettonica presso la cattedra del prof. Gaetano Cuccia (Università degli Studi di Palermo) e del prof. Luigi Franciosini (Università degli Studi Roma Tre). Ha frequentato il Master internazionale Architettura | Storia | Progetto curato dal prof. Francesco Cellini, relatore della sua tesi dottorale, presso l’Università degli Studi Roma Tre. Svolge la libera professione come architetto e insegna Disegno e Storia dell’Arte presso i licei statali di Roma.
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