di Valeria Dattilo
Presentato come uno degli intellettuali francesi più influenti ed eclettici al mondo, Bruno Latour, nato il 22 giugno 1947 a Beaune, è morto, a Parigi, il 9 ottobre scorso. Di formazione filosofica, Latour si è occupato di antropologia, etnografia, sociologia, semiotica praticando – come sottolineato da Ilaria Ventura Bordenca nell’introduzione al testo Politiche del design. Semiotiche degli artefatti e forme della socialità (Latour, 2021) – «una filosofia dell’antropologia e un’etnografia della sociologia», riscrivendo la sociologia e ripensando il modo comune di fare antropologia fino a farne una filosofia dell’esistente. Un pensatore, quindi, che si è interessato a molti campi, dalla vita di laboratorio al diritto, dall’ecologia alla religione, riflettendo su temi caldi e delicati del nostro tempo.
L’idea principale del pensiero di Latour è quella secondo cui non si può studiare la società ignorando i non-umani. Mettendo in luce come tali confini siano labili e fragili, si conferma la profonda influenza esercitata dal pensiero di Algirdas Julien Greimas e di Paolo Fabbri, di cui lo studioso era amico. Il progetto generale di ricerca di Latour lo si può comprendere meglio a partire da alcuni concetti tipici dell’analisi semiotica narrativa e discorsiva. Tra gli altri, Latour ha preso in conto le nozioni di traduzione, delega, enunciazione, débrayage nella loro piena portata semiotica, considerandoli meccanismi, complessi e coestensivi, fondamentali per la formazione degli ibridi.
È con questo concetto che si apre il primo capitolo di Non siamo mai stati moderni, pubblicato per la prima volta nel 1991 e tradotto in italiano nel 1995. In Latour “ibrido” è un termine tecnico frequente che indica l’unione di umano e non-umano, oggetti e soggetti, cultura e natura, quel “groviglio” che costituisce il tessuto complesso del nostro mondo.
Qual è il confine fra natura e cultura? Oggettivo e soggettivo? Razionale e irrazionale? Fra saperi scientifici e i saperi umanistici? Fra scienze naturali e scienze sociali? Fra antico e moderno? Fra un laboratorio scientifico e un’assemblea giuridica? Le due cose vanno considerate, direbbe Latour parafrasando Saussure, come le «due facce di uno stesso foglio»: l’una implica l’altra esattamente come natura e società, individuo e mondo, e così via. Non c’è l’una senza l’altra. L’immagine saussuriana di un unico foglio di carta, dotato di due facce inseparabili, risulta, a questo proposito, adatta. A questo livello, non si tratta più solamente, seguendo il pensiero latouriano, di cogliere l’uno o l’altro aspetto – per esempio la natura o la cultura – ma, più esattamente, si tratta di cogliere entrambi gli aspetti, nella loro perpetua tensione, nel loro continuo implicarsi. È qui che entra in gioco la nozione di “ibrido”, nozione che travalica inevitabilmente le due rive. Con una metafora, si potrebbe dire: come le mangrovie che vivono in un ambiente che non è più solo acqua, ma non è ancora terra.
Basterebbe sfogliare la prima pagina, quella di apertura, di qualsiasi quotidiano, come suggerisce lo stesso Latour, per accorgersi come le notizie, i commenti, gli articoli più significativi, dall’articolo di apertura a quello di spalla, dall’articolo di fondo fino ai sommari e i corsivi, siano un moltiplicarsi di “notizie ibride” che delineano «guazzabugli di scienza, politica, economia, diritto, religione, tecnologia e letteratura», rivoltando, continuamente, senza requie, da cima a fondo, cultura e natura. «Leggo nella quarta pagina del mio quotidiano che le rilevazioni effettuate quest’anno sull’Antartide non sono buone: […]. A pagine sei dello stesso quotidiano vengo a sapere che il virus dell’AIDS di Parigi ha contaminato quello del laboratorio del professor Gallo… […]. A pagina otto il mio giornale parla di computer e di chip controllati dai giapponesi; a pagina nove di embrioni congelati; a pagina dieci di foreste in fiamme […]; a pagina undici di balene munite di collari collegati a radiotrasmettitori; […]. A pagina dodici il papa, i vescovi, la Roussel-Uclaf, le tube di Falloppio, i fondamentalisti del Texas […]. A pagina quattordici è il numero di righe per la televisione ad alta definizione che mette in rapporto Delors, la Thomson, la Comunità europea, le commissioni per la standardizzazione […]» (Latour 2016: 11-12) e così via.
È in questo breve saggio, poco più di duecento pagine, che Latour compie un passo decisivo: criticare il pensiero dei moderni, della modernità e della modernizzazione caratterizzato da coppie oppositive che si escludono a vicenda, piuttosto che integrarsi, dimenticandosi degli “ibridi” e segnando una linea di demarcazione netta tra pre-moderni e moderni, tra ciò che appartiene alla natura e ciò che appartiene alla cultura, tra la scienza e la politica, tra umani da un lato e non-umani dall’altro, lavorando di vaglio tra i pre-moderni, i moderni e anche i post-moderni. «Quando compaiono parole come “moderno”, “modernizzazione”, “modernità”, per contrasto definiamo un passato arcaico e stabile. Inoltre, la parola si trova sempre buttata in mezzo a una polemica, in una querelle che contrappone sempre vinti e vincitori, da una parte gli Antichi e dall’altra i Moderni» (ivi: 23).
L’era attuale, con i suoi disastri associati a eventi naturali estremi e al cambiamento climatico, con la scomparsa, l’estinzione di specie viventi, comunemente riconosciuta come l’era in cui l’impatto degli esseri umani è più incisivo nel determinare le dinamiche del pianeta in cui viviamo e, perciò, definita Antropocene, ha reso obsoleta, superata l’idea di un’opposizione tra società e natura.
È così che Latour, nei suoi ultimi saggi, ci offre la possibilità di leggere la “fine della modernità” e del tempo lineare o freccia, e di una società che perde le sue qualificazioni metafisiche, in primis quella che contrappone soggetto e oggetto, delineando una nuova situazione storica della società attuale, definita da Latour “una società complicata”, perché ha bisogno dei non-umani per rendere possibile l’interazione, evidente, per esempio, nell’“uomo-telefonino” (Marrone 1999): un’espressione certamente emblematica di ciò che viene definito un «vero e proprio attore che gioca ruoli sociali», non quindi un semplice prolungamento, ma una incarnazione tecnologica.
Un mondo in cui non c’è più posto per i modelli delle grandi opposizioni, ma che scaturisce dalla soglia, dalla frattura tra questi due termini, quelli di soggetto-oggetto, umano-non-umano, natura-cultura. Da questo punto di vista, la nozione di “ibrido” sembra essere, in quanto tale, decisiva perché ci permette di meditare sulla circolarità che, indefinitamente, fa confluire questi due termini l’uno nell’altro.
Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022
Riferimenti bibliografici
Latour B., Politiche del Design. Semiotica degli artefatti e forme della socialità (a cura di D. Mangano, I. Ventura Bordenca), Mimesis, Milano, 2021.
Latour B., Non siamo mai stati moderni, Eleuthera, Milano, 2016.
Marrone G., C’era una volta il telefonino. Un’indagine socio-semiotica, Meltemi, Roma, 1999.
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Valeria Dattilo, Ph.D., è docente a contratto di Semiotica per il Design presso il Dipartimento di Architettura dell’Università “G. D’Annunzio” Chieti-Pescara. Attualmente è anche borsista di ricerca all’Università di Teramo dove lavora su “Legal Semiotics”, sul rapporto tra semiotica e processi giuridici. Ha pubblicato numerosi articoli su riviste nazionali e internazionali. Nel 2022 ha curato un numero sulla rivista scientifica Filosofi(e)Semiotiche, di cui è editor-in-chief, dal titolo “Tra etica e semiotica. Segni e natura nell’era dell’Antropocene”.
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