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Ricordi in città. Una foto-etnografia della memoria

 

Dove vanno i ricordi (ph. Mattia Montes)

Dove vanno i ricordi (ph. Mattia Montes)

di Stefano Montes

Da dove vengono i ricordi? E dove vanno? Che sia questo, tra i tanti possibili, l’incipit buono, penso a voce alta rivolgendomi a Mattia? Mi ricorda qualcosa in letteratura, ma poco importa! Credo che sia l’incipit adatto. Credo che sia l’incipit che cercavo per la nostra foto-etnografia, dico a Mattia. Credo di sì. Credo che ricordi le anatre de Il giovane Holden di Salinger: è qualcosa che dice il protagonista a loro riguardo, ma non so bene cosa. Sì, si tratta di questo! E se anche dovesse avere questo forte sapore di letterario, tanto meglio, non nuoce per niente averlo come riferimento iniziale! Vuol dire che la mia memoria, per quanto clandestinamente e a mia insaputa, ha fatto il suo giusto lavoro – individuale e sociale – di associazione tra il presente e il passato, recuperando quest’ultimo e trasformandolo in testo riconvertito a nostro uso – mio e di Mattia – per l’avvio di una foto-etnografia della memoria.

Non viviamo forse in un mondo di associazioni da ricomporre secondo quadri sociali e individuali, in accordo con forme di codificazione diverse, scritte e visive, culturalmente orientate? Perché non manifestarlo, persino ostentarlo, allora? Mettiamoci al lavoro, dunque, dico a Mattia: troviamo la foto che ci piace, tra quelle da te scattate in questi giorni, per iniziare di pari passo, dialogicamente, in uno stile caoticamente antropologico. Caoticamente? Il caso – precisiamolo di passaggio – va tenuto in debito conto perché «gran parte della vita sociale accade in modi non pianificati né attesi» (Rosaldo 2001: 147). Ci vuole, comunque sia, pur concedendosi al disordine non irreggimentato, un inizio di simbolica pregnanza! E questo inizio scritto fa il paio con la foto che ho scattato al Giardino inglese, replica Mattia, proponendomi la foto da lui scattata. Eccola! Che ne pensi? Ti ricordi? Sei tra le foglie, immerso nel verde, tutt’uno con loro: sembri in movimento, immerso nella natura, ma assumi al contempo una sorta di posa plastica che indica duplicità irrisolta o sospesa: sei te stesso e sei un altro; sei cultura avvolto nella natura; sei una persona che sta per sparire nell’ambiente, assorbito dai suoi colori. Sei spettro dell’ambiente, dice alla fine, scherzando un po’! Cosa vogliamo di più?

L'antropologo sbircia nelle vite degli altri (ph. Mattia Montes)

L’antropologo sbircia nelle vite degli altri (ph. Mattia Montes)

Io rifletto, esito, rimugino. Mattia continua, intanto, senza darmi il tempo di rispondere: un po’ come la nostra ricerca – aggiunge – volta a recuperare i ricordi personali apparentemente seppelliti nel passato, in realtà situati nell’andirivieni in divenire a cui si offrono il presente e i luoghi del vissuto che lo cristallizzano. Beh, mi sembra un’ottima scelta, dico a Mattia, ripensando al proposito essenzialmente interattivo del nostro fieldwork: fare dialogare foto e scritto, ma anche padre e figlio, nonché individuo e luoghi della memoria. È una sorta di contrappunto, se vogliamo, alla ricerca compiuta e raccontata da Connerton in Come le società ricordano, il cui intento era quello di concentrarsi soprattutto sulla memoria sociale e sul suo valore performativo, trascurando, tuttavia, il rapporto esistente tra la memoria individuale e il suo processo di traduzione in slancio affettivo e collettivo. Scrive infatti Connerton: «Se esiste qualcosa come la memoria della società, affermerò che probabilmente la troveremo nelle celebrazioni commemorative; ma queste dimostrano di esserlo solo in quanto siano performative; la performatività non si può pensare senza un concetto di abitudine; e l’abitudine non si può pensare senza una nozione degli automatismi corporei» (Connerton 1999: 11). Nonostante il riferimento al corpo e alle abitudini, Connerton si limita – nel suo lavoro che rimane comunque interessante – a riflettere sulla memoria in quanto fatto sociale, già divenuto tale, non individualmente percorso e attraversato.

Gli interrogativi che ne scaturiscono in questo senso sono molteplici: quale è il ruolo specifico dell’individuo nel percorso della memoria che diviene collettiva? Fino a che punto la memoria personale coincide con quella della collettività a cui appartiene l’individuo? Ci sono scarti tra una cosa e l’altra, oltre che tra agentività e ‘riposità’? Queste domande non vengono poste da Connerton, il quale si concentra invece sul ruolo della performatività dei rituali commemorativi, spesso sintetizzati dai calendari. Diversamente, io e Mattia intendiamo collegare la memoria di un individuo – me stesso, preso come esempio sperimentale di questo percorso mnestico – ad alcuni luoghi e alle trasformazioni che esse hanno subìto nel tempo. Io rifletto su tutto questo, felice di volgere la questione in una chiave autoetnografica, più prossima all’antropologia dell’esistenza (Jackson 2005; Piette 2009; Jackson, Piette 2015), mentre Mattia richiama con insistenza la mia attenzione sull’importanza della scelta riguardante la foto iniziale. Io rifletto, dunque, felice di pensare al ricordo come strumento del comunicare in alcuni contesti specifici. Mattia, rincarando, dice che è necessario che ci sia io, proprio io, in apertura, in quanto individuo e soggetto enunciante che si fonde con l’ambiente, pur mantenendo la sua specificità. Se non altro, penso io, sarebbe utile per far fede al mio proposito di sempre: pensare l’antropologia, insieme alla semiotica, come «una scienza […] nell’enunciazione della quale lo studioso includerebbe finalmente se stesso», tutto se stesso, senza filtri o paraventi (Barthes 1980: 91). Sarebbe pure utile per cercare di accerchiare la nozione di antropologo sradicato quale io sono.

Un antropologo, tutto sommato, è un individuo sempre pronto a sbirciare nelle vite altrui: un ficcanaso. Oggigiorno, con il rimpatrio dell’antropologia, un antropologo è anche qualcuno che sbircia nella propria vita, ma non dimentica di fare parte di un tessuto sociale che contestualizza le sue ‘sbirciate’ che lo rendono oggetto di altre ‘sbirciate’: «per diventare essere sociale il soggetto deve imparare a osservarsi, sotto certi aspetti, e soprattutto nelle relazioni intersoggettive in quanto ‘fuori’, in quanto ambiente per gli altri» (Devereux 1975: 64). Il fatto curioso, in questo particolare contesto, è che io non sarei soltanto soggetto e oggetto dello sguardo (la dimensione scopica), ma occuperei due veri e propri ruoli attanziali (la dimensione relazionale delle azioni): antropologo che riflette attivamente e soggetto più passivo rappresentato dalla foto di Mattia; soggetto e oggetto, allo stesso tempo, ma con ruoli diversi, più fluidi; uomo di parole e, paradossalmente, immagine muta e smussata; scrivente e scrittore (come direbbe Barthes).

Cogliere l'attimo cogliere l'esistenza (ph. Mattia Montes)

Cogliere l’attimo cogliere l’esistenza (ph. Mattia Montes)

Detto questo, la scelta di un incipit catalizzatore è – stata – centrale per noi, poco importa che sia scritto o per immagini (o ambedue nel nostro caso). Un inizio non è mai un semplice punto di partenza: una frasetta buttata lì, giusto per iniziare e avviare la narrazione. Un inizio non è un puro fatto letterario o, comunque sia, un atto di scrittura neutrale. Secondo Said, l’inizio è una vera e propria cornice del pensare che viene trasposta in testo. Insistere sull’inizio, sulla sua modellizzazione, ha – sempre secondo Said – quelle virtù rigeneratrici che sono richieste a un pensiero che non si vorrebbe stereotipato o centralizzato: si dovrebbe, proprio per questo, «stare nel costante e rinnovato esperire l’iniziare e ri-iniziare, la cui forza non risiede né nella capacità di dare origine all’autorità né nel promuovere l’ortodossia, ma nello stimolare la coscienza di sé e l’attività situata, attività con finalità non coercitive» (Said 1975: XIV). Nel nostro fieldwork, mio e di Mattia, dovremmo risiedere nell’iniziare e ri-iniziare? Oppure, al contrario, dovremmo farci trasportare dal divenire più sfrenato perché, come dice Deleuze, non «sono mai l’inizio e la fine ad essere interessanti, essi sono solo dei punti. L’interessante è il mezzo» (Deleuze, Parnet 1998: 44).

Io e Mattia discutiamo tutto questo, ne parliamo, mentre flussi di coscienza mi attraversano continuamente, anche sotto forma di interrogativi. Deleuze o Said? Più foto o più scritto? Scrittura più fluida o più convenzionalmente accademica? Enunciazione dell’esperienza in corso o testualizzazione in forma d’enunciato enunciato? Io lascio fare, lascio scorrere, non irregimento i flussi di coscienza mentre parlo con Mattia. Sono forse distratto? Non sono sinceramente interessato al nostro progetto? No, non è questo. È che, semplicemente, nonostante non lo si dica molto in antropologia o altrove, pensare non è quasi mai un atto unicamente intenzionale o agentivo: è anche un attraversamento a rilento di flussi della coscienza che i linguisti definiscono endofasia (Bergounioux 2004) e che i semiotici concepiscono come comunicazione io-io (Lotman, Uspenskij 1975a). Il soggetto – un soggetto – non è mai nel pieno controllo dei propri pensieri. In effetti, per tornare a me, io vago andando con la mente – non del tutto intenzionalmente quindi – alle pagine d’inizio degli Argonauti in cui Malinowski parla dell’arrivo straniante sul luogo esotico della ricerca, sottolineando le difficoltà incontrate tra i bianchi che non intendevano o non potevano aiutarlo: 

«Immaginate ancora di essere un principiante, senza alcuna esperienza precedente, senza niente che vi guidi e nessuno che vi aiuti, perché il bianco è temporaneamente assente o magari non può o non vuole sprecare il suo tempo per voi. Ciò descrive esattamente la mia prima iniziazione al lavoro sul terreno sulla costa meridionale della Nuova Guinea. Ricordo bene le lunghe visite che facevo ai villaggi durante le prime settimane e il senso di disperazione e di sconforto dopo molti, ostinati ma inutili tentativi che non erano affatto riusciti a farmi entrare in un rapporto autentico con gli indigeni né mi avevano fornito materiale di sorta» (Malinowski 2004: 13, mio corsivo).
Comunicazione io-io (ph. Mattia Montes)

Comunicazione io-io (ph. Mattia Montes)

È un brano che pensavo di conoscere a menadito, tanto lo avevo riletto in passato, ma mi era sfuggito l’accento posto da Malinowski proprio sul ricordo. Non lo ricordavo? Com’è possibile! Come ho potuto dimenticarlo, trascurarlo, fino a questo punto! Mi è venuto in mente proprio adesso che parlo di ricordo con Mattia e – suppongo, per quel che ne posso sapere consapevolmente – le associazioni poste casualmente si sono messe in forma quasi spontaneamente, a mia stessa insaputa, facendo a meno delle mie dirette intenzioni. E il caso conta, meglio ribadirlo ancora, in altri termini: si dovrebbe introdurre «il caso come categoria nella produzione degli avvenimenti» e tenere conto del suo apporto persino nel quotidiano più ordinario (Foucault 1971: 61). Come afferma Jackson, per rincarare la dose, in un bel volume dedicato al valore delle coincidenze nella vita di ognuno di noi: «a coincidence encapsulates the ambiguity of human existence, for while life would be unbearable without meaning, we have no way of knowing for certain whether the meaning we invest in are true or false, harmful or harmless» (Jackson 2021: 188).

Il bello è che, nonostante io lo avessi dimenticato, la descrizione dell’arrivo in spiaggia passa attraverso il ricordo – la sua esplicita lessicalizzazione e funzione – che Malinowski tiene a evidenziare come elemento di rilievo persino dopo tempo, persino nel momento in cui ha scritto la sua esperienza e l’ha trasformata in seguito in testo etnografico alle Canarie. Il testo di Malinowski – Argonauti del Pacifico occidentale – è un classico dell’antropologia e della ricerca sul campo. Si torna spesso a questo testo, forse senza pensare molto al ricordo. Volendo sintetizzare, si potrebbe dire che il dispositivo del ricordo in Malinowski è funzionale: dice a chiare lettere che la trasformazione del momento di crisi in momento di acquisizione (e superamento della crisi) è rimasta straordinariamente indelebile nella sua mente, senza perdere vivo significato. Quale significato? Perché? L’instaurazione di un buon rapporto con i nativi era, per Malinowski, un elemento fondamentale per potere portare avanti la sua ricerca. Era la condizione essenziale: creare una complicità, avviare un dialogo. Non so fino a che punto si possa parlare di ‘autentico’ e quale connotazione esatta avesse nel discorso di Malinowski, soprattutto alla luce del suo diario, pubblicato postumo, in cui le doti camaleontiche di Malinowski sono state riviste e smussate (Malinowski 1992).

Il ricordo comunica (ph. Mattia Montes)

Il ricordo comunica (ph. Mattia Montes)

L’autenticità non è sempre un valore e viene, in ogni caso, orientata culturalmente in funzione dell’incontro interindividuale (Lindholm 2008). Fatto sta, volenti o nolenti, che il problema si pone nel caso specifico di Malinowski e, più in generale, per la cultura nella sua interezza. Non è forse questo, infatti, un problema legato alla memoria e ai modi attraverso cui essa diventa ricordo personale e dispositivo culturale? Il ricordo richiede costante, spesso non del tutto consapevole, lavorio. Malinowski, più particolarmente, parla di un vero e proprio rito di passaggio: un rito in qualche modo implicito, comunque presente, in ogni lavoro etnografico. Si richiede un passaggio da uno stato all’altro, da una dimensione emotiva all’altra, affinché la sua ricerca arrivi a buon fine. Questo frammento di testo riguardante l’arrivo sul posto – così come le pagine iniziali che lo inquadrano negli Argonauti – sono allora importanti perché mettono in scena le difficoltà con le quali viene alle prese Malinowski durante la ricerca sul campo. Ricordarle è importante non solo perché, essendo superate e ricondotte alla normalità, attestano la qualità del lavoro svolto sul campo, ma anche perché, più propriamente, manifestano una condizione: la condizione di chi deve affrontare, da solo, con coraggio e pazienza, la dura vita del campo, in mezzo a mille difficoltà.

Per quanto concisa, è una bella rappresentazione – come dirà Sontag – dell’antropologo come eroe. Ma non soltanto. Il ricordo di Malinowski è inoltre – per noi antropologi e tutti gli altri che lo interpretano oggi – la cristallizzazione di quella che era in passato una dicotomia centrale del pensiero antropologico il cui peso maggiore era attribuito al risiedere, visto in associazione alla netta divisione tra l’ambiente familiare e l’esotico: «Per l’antropologo il mondo è professionalmente diviso tra casa e laggiù, il familiare e l’esotico, l’ambiente accademico urbano e i Tropici» (Sontag 2022: 107). Per tutte queste ragioni, non è di poco conto il fatto che si tratti di un arrivo sul luogo della ricerca: un arrivo la cui descrizione sembra produrre una discontinuità con il luogo di partenza, nonché con le abitudini e gli affetti abbandonati, per necessità, dal viaggiatore intenzionato a risiedere altrove per qualche tempo. È significativo che l’autore parli di iniziazione. È significativo inoltre che l’autore volga lo sguardo, con nostalgia, verso la motolancia che lo ha portato in spiaggia. In spiaggia? Sì, certo, è un luogo tropicale, un’isola: non potrebbe essere altrimenti, si arriva in spiaggia. Non è forse normale che sia così? Certo, ma è anche vero, però, che la spiaggia è un limen immaginario e strutturale, oltre che reale: una soglia tra la nuova avventura appena iniziata e il passato, tra un posto esotico e i luoghi familiari che l’antropologo si è lasciato alle spalle con rammarico. Insomma, Malinowski racconta una storia in cui vengono presentati tutti quegli elementi negativi, fortemente connotati dai segni dello scoraggiamento e della disperazione, che dovranno in seguito essere compensati da una felice risoluzione e da quel contatto agognato – autentico! – con i nativi che gli consentirà di portare avanti la sua ricerca nel migliore dei modi possibili.

Un arrivo presuppone sempre un inizio (ph. Mattia Montes)

Un arrivo presuppone sempre un inizio (ph. Mattia Montes)

In definitiva, l’incipit degli Argonauti contiene già una storia in sé: la storia dell’iniziazione dell’autore che, da inesperto, si trasforma in competente: individuo atto a portare a termine la ricerca prevista. L’incipit di cui parliamo contiene in nuce tutti quegli elementi di discontinuità – la spiaggia, l’esperienza, il testo, la nostalgia, il bianco, lo scoraggiamento, etc. – che verranno superati e ricomposti, nel seguito della storia, in una sorta di nuovo equilibrio fondato su diverse e risituate continuità. Malinowski racconta una ‘storia di arrivo’ che nasconde, a ogni modo, un inizio la cui portata è funzionale allo sviluppo dell’antropologia da lui praticata, in rivolta contro l’antropologia evoluzionista: segna uno scarto e una discontinuità. Un arrivo presuppone un inizio e una partenza: se viene messo in evidenza il primo, trascurando i secondi, è soprattutto perché Malinowksi ‘reagisce’ – consapevolmente o meno – all’antropologia a tavolino degli antropologi evoluzionisti e getta le basi per una antropologia di campo che si produce, nella sua prospettiva, con l’arrivo sul luogo esotico dove la ricerca ha il suo avvio.

In definitiva, arrivi e inizi manifestano strette connessioni che possono essere ostentate o, al contrario, camuffate: in un caso e nell’altro, si situano scelte metodologiche e pragmatiche, teoriche e persino ideologiche. A cosa serve, però, dalla nostra prospettiva, mettere bene in luce le discontinuità (spiaggia/casa; luogo esotico/casa) e le categorie (inizio/fine, partenza/arrivo) nella ricerca di Malinowski? Ragionare nei termini di un loro collegamento è utile a fini epistemologici: per meglio inquadrare ciò che verrà dopo, oltre che per decostruire il proprio sguardo. Benché la nostra intenzione – mia e di Mattia – sia stata quella di lavorare sul campo ‘a casa nostra’, in una prospettiva di antropologia del rimpatrio, prendendo in considerazione alcuni luoghi topici del mio passato per trasformarli in testo corredato di foto, non posso negare che la narrazione in quanto tale – qui nella sua versione scritta e per immagini – abbia avuto una sua fondamentale importanza. Pensiamo per storie in realtà e «il fatto di pensare in termini di storie non fa degli esseri umani qualcosa di isolato e distinto dagli anemoni e dalle stelle di mare, dalle palme e dalle primule. Al contrario, se il mondo è connesso, se in ciò che dico ho sostanzialmente ragione, allora pensare in termini di storie deve essere comune a tutta la mente o a tutte le menti, siano le nostre o quelle delle foreste di sequoie e degli anemoni di mare» (Bateson 1984: 28). C’è una profonda connessione tra le specie riguardante il pensare e il suo darsi per narrazioni. Ma non si tratta soltanto di collegamento stretto, insopprimibile, tra il pensare e la narrazione, nella sua massima generalità, in tutte le specie. C’è anche altro, perlomeno in etnografia.

Connessioni al Foro Italico (ph. Mattia Montes)

Connessioni al Foro Italico (ph. Mattia Montes)

Per essere comunicata al lettore, l’esperienza sul campo deve essere necessariamente tradotta in testo scritto. Le «etnografie sono orientate da un’implicita struttura narrativa, da una storia che noi raccontiamo sulle persone che studiamo» (Bruner 1986: 139). Questa consapevolezza aiuta a meglio considerare alcuni aspetti della mia esperienza e della stessa forma di scrittura da me adottata in seguito alla mia stessa esperienza e al dialogo avuto con Mattia. Non parlo – e non parlerò – in terza persona come se non avessi vissuto personalmente ciò che scrivo; non mi calo negli eventi minuti dall’alto delle mie competenze antropologiche – in un assetto teorico desoggettivante – al fine di descrivere alcuni frammenti di vita come se non fossi stato io stesso ad attraversarli in prima persona, con la mia storia di singolo individuo, per di più vulnerabile. Non faccio tutto questo! Sono vulnerabile e non me ne vergogno. Come tutti, forse di più, sono vulnerabile. Perché dovrei nasconderlo? Semmai, lo ammetto. La vulnerabilità può comunque essere un utile stendardo antropologico da utilizzare – confessandolo e riflettendoci – per rimuovere le difficoltà di incontro con l’Altro e, persino, con se stessi: con quell’Altro che è dentro di noi. Un ottimo esempio, in questo senso, è sicuramente quello di Ruth Behar: in The vulnerable observer, Behar teorizza la questione, non considerandola un diversivo o un intrattenimento in sé. La vulnerabilità deve «essere essenziale all’argomento e non un abbellimento decorativo o un’esibizione fine a se stessa» (Behar 1997: 14).

Difficile, in ogni caso, parlare di antropologia del vivere – il ricordo riguarda la vita passata di un individuo e fa parte integrante della sua identità – senza prendere allo stesso tempo in conto la propria esistenza in prima persona, i fatti vissuti e lo specifico attraversamento messo in gioco nel contrappunto di voci esperito e concettualizzato. Io narro perché vivo; sono vivo perché attraverso – sono attraversato da – pratiche e concetti miei e altrui. Adotto l’attraversamento come guida, dunque come prassi per «pensare attraverso un argomento» il vivere nei suoi diversi aspetti (Clifford 2004: 70): vivere nel flusso; vivere come fatto culturale complesso; vivere attraverso inevitabili posizionamenti teorici e pragmatici che richiedono interrogazioni continue, martellanti, in una estrema libertà di associazioni concettuali. Tutto ciò non sarebbe possibile senza l’intervento del ricordo: se si narra, se si può farlo, è soltanto perché ricordiamo. Ma non bisogna, affermato questo, cadere nella trappola della narrazione intesa come strumento passivo e oggettivato, distante dall’esperienza.

Pensare attraverso il sacro e l'autoritratto (ph. Mattia Montes)

Pensare attraverso il sacro e l’autoritratto (ph. Mattia Montes)

La narrazione accompagna la vita nel suo divenire. E il ricordo, al pari della narrazione che lo accompagna, ha una sua intrinseca performatività. Ricordare significa, infatti, essere coinvolti nelle dinamiche dell’azione e riconoscerlo: sia nel caso di mobili associazioni d’ordine cognitivo sia nel caso di veri e propri atti somatici. Un punto va tuttavia chiarito a questo riguardo, a scanso di equivoci, a proposito di associazioni di cui parlo liberamente. Non si tratta, qui, di quelle libere associazioni di cui parlava Freud, concepite per un paziente immobile, eventualmente sdraiato su un lettino, alle prese con la memoria e il passato da recuperare. Si tratta, più propriamente, in questa nostra foto-etnografia, di tutte quelle libere – e meno libere – associazioni che scattano visitando i luoghi del passato di un soggetto in movimento che dialoga con se stesso e con un fotografo incaricato di riprendere i luoghi ritagliandoli nel modo più appropriato alla storia, ma anche consono al suo modo di vedere il mondo. Si tratta, in questo contesto, di tutte quelle associazioni che proiettano non soltanto nel passato, ma anche nel futuro in quanto fonte di motivazione. Come scrive Assmann: «gli spazi della memoria nascono attraverso quella parziale focalizzazione del passato di cui un individuo o un gruppo hanno bisogno per costruire il senso, per fondare la propria identità, per orientare la propria vita, per motivare il proprio agire» (Assmann 2002: 445).

Io sono motivato. Io sono l’autore delle libere associazioni trasposte in testo scritto. Mattia Montes – mio figlio, alle prese, fin da piccolo, nei frequenti viaggi familiari e residenze all’estero, con la fotografia e l’antropologia – è l’autore delle foto e del loro montaggio sintattico. Abbiamo dialogato. Abbiamo montato il risultato finale. Abbiamo preso in conto alcuni luoghi importanti per la mia memoria allo scopo di parlarne insieme, dialogando, facendo allo stesso tempo riferimento allo spazio in quanto elemento di ancoraggio da ritagliare opportunamente e trasporre in testo scritto e in immagini. In pratica, se si può parlare di un dialogo tra noi – tra persone – è anche vero che il dialogo si è instaurato tra due media diversi quali la scrittura e la foto grazie ai quali hanno preso forme narrazioni accostate di immagini e storie. Detto questo, andiamo avanti con i fatti, senza dimenticare che i fatti sono il risultato di pratiche e di prospettive teoriche sovente implicite!

Il ricordo richiede costante lavorìo (ph. Mattia Montes)

Il ricordo richiede costante lavorìo (ph. Mattia Montes)

Uno dei luoghi più importanti della mia vita da ragazzino si trova nei pressi del porto di Palermo, nella casa in cui ho vissuto dai tre ai dieci anni. Non è che io lo avessi scelto, ovviamente. Mio padre e mia madre si sono trasferiti in via Ammiraglio Gravina, al numero ventiquattro, con me al seguito. Era – ed è ancora – una zona abbastanza tranquilla, nonostante non fosse una via lontana dal Borgo Vecchio, un quartiere difficile, e dal Foro Italico, un’area molto movimentata e in riva al mare. Ho un vago ricordo del periodo precedente in cui vivevamo in via Anime Sante, in pieno rione Borgo Vecchio, luogo dove sono nato. Era una casa molto piccola, quella di via Anime Sante, e ci vivevamo con mia nonna. Suppongo che mia madre abbia fatto pressioni per andare a vivere da sola, con me, in attesa di suo marito – Vincenzo – che lavorava nelle grandi navi e tornava di tanto in tanto a Palermo, dai suoi familiari. Ho chiesto a Mattia di non scattare foto di via Anime Sante perché l’edificio, negli anni, abbisognava ristrutturazioni e poi, ormai cadente, è stato invece definitivamente demolito. Troppo vecchio, troppo lontano nei miei ricordi, quindi inesistente? Non proprio.

Abbiamo tutti bisogno di radici e questo luogo natio ha significato molto per me, continuando a presentarsi nei miei ricordi, lavorando di prima mano nella mia immaginazione. Ho preferito però non avere foto di qualcosa che non c’è più di fatto: avrei dovuto accontentarmi, in sua vece, di qualcos’altro nei paraggi e non dello stesso edificio: mi sarei dovuto accontentare del contesto, dei dintorni. Ciò porta a riflettere su un elemento interessante. Nella costituzione delle radici riesumate, molti aspetti intervengono variamente. La coscienza si spazializza e lo fa selezionando – sovente senza seguire una logica manifesta o apparente – i luoghi deputati alla costituzione di un universo simbolico e personalizzato. Fatto sta, a torto o a ragione, che ho chiesto a Mattia di far partire il nostro fieldwork fotografico dal luogo successivo in cui ho abitato – via Ammiraglio Gravina – e di saltare il mio luogo effettivo di nascita. Nel bene e nel male, vorrà pur dire qualcosa! Il contesto avrebbe dovuto bastare. Come scrive Assmann, «il luogo si configura come mediatore della memoria attraverso la sua inalterabile fissità: è un supporto sensibile e permanente dei ricordi fugaci, un hic senza nunc, un qui senza ora, che nulla presenta o rappresenta, ma che rileva in modo più o meno marcato la traccia di un’assenza» (Assmann 2002: 448).

Ma è anche vero che alcune scelte sono effettuate a posteriori dal soggetto rimembrante e performante: scelte che impongono una variabilità a questa fissità di cui parla Assmann. I ricordi in ogni caso si costruiscono: rappresentano sovente una data realtà, ma la producono sulla base delle esigenze saltellanti del presente. Resta dunque il fatto che il tuffo nel passato avviene dal trampolino del presente: impossibile fare altrimenti. Inoltre, per quanto personale, il ricordo necessita di una interazione non soltanto interna al soggetto meditabondo, ma anche di una relazione con altri individui che confermano il ricordo: a volte affievolendone la portata; tante altre, rinsaldandone la forza. Tra le varie forme del riconoscimento messe in opera da una società, infatti, esiste questa forma che riguarda il ricordo e la sua accettazione sanzionatrice o valutativa da parte di altri. L’apporto fotografico di Mattia, in questo senso, è stato determinante nel nostro lavoro: con le sue fotografie mi ha indotto a riflettere su alcune sfaccettature del ricordo che avevo trascurato o apparentemente rimosso dal mio passato: sulle assenze e sulle presunte presenze.

A un certo punto, per esempio, Mattia ha scattato una foto di Borgo Vecchio – un rione non molto lontano dalla mia seconda casa – che, nonostante non avesse intento estetico dichiarato, è diventata una sorta di manifesto della nostra azione congiunta: manifesto del modo di concepire il ricordo in quanto sequenza di atti cognitivi ed emotivi, immagini e testi interagenti. Abbiamo dato alla foto il titolo di “Il ricordo richiede costante lavorio”. Per quale ragione? Perché il ricordo, di fatto, non è quasi mai isolato o un elemento a sé; solitamente, il ricordo tende a fare rete: si unisce ad altri ricordi in un ordine sintattico, si rivela essere parte di una sequenza più ampia e rivelatrice. Il ricordo può ovviamente sorgere spontaneamente, ma è anche un lavoro consapevole di collegamento prodotto dal soggetto che riflette – con se stesso, con altri – e si lascia andare alle libere associazioni generate dal luogo in cui ha vissuto. Non per niente Lotman e Uspenskij definiscono l’insieme della cultura come «memoria non ereditaria della collettività, espressa in un determinato sistema di divieti e prescrizioni» (Lotman, Uspenskij 1975b: 43).

Uno sguardo su Borgo Vecchio (ph. Mattia Montes)

Uno sguardo su Borgo Vecchio (ph. Mattia Montes)

Uno dei divieti che mi sono tornati in mente durante uno dei sopralluoghi che abbiamo fatto con Mattia in via Ammiraglio Gravina, a proposito della mia prima casa, riguarda la scrittura: l’apprendimento della scrittura. Ero mancino, da piccolo, avevo tendenza a usare la sinistra, cosicché la maestra aveva consigliato a mia madre di insistere, per l’apprendimento della scrittura, sull’uso della mano destra. Ma non è stato facile per me. Che fatica, infatti, doversi immaginare altro da quello che si vorrebbe essere! Ora, da adulto, uso entrambe le mani e provo spesso piacere nel passare da una mano all’altra, con libertà e partecipazione. Ora gioco, deliberatamente e con gusto, sulla differenza d’uso che le caratterizza. Ora, nell’alternarsi delle immagini, ripenso alle mani, alla scrittura, a un passato ormai lontano mentre il flusso della vita presente richiede attenzione, lancia segnali insistenti sotto forma di memoria, eventi casuali e altro ancora. Insomma, oscillo, indugio, valuto: ricordi, annotazioni, libri letti, immagini, parole scritte e vita vissuta si mescolano senza seguire il piano di massima da me intravisto mettendo a fuoco sulla definizione di cultura formulata da Lotman, ripensando alle altre definizioni, agli altri orientamenti in antropologia, al posto dell’individuo in seno alla società. Non è forse così la vita stessa? È una strana mescolanza di generi testuali e un amalgama di esperienze vissute, un intreccio di interazioni quotidiane e di proiezioni nostalgiche nel passato e speranzose nel futuro, un tessuto di codici culturali e di pratiche individuali vissute e ripercorse, talvolta persino rimodulate o disattese.

La vita è ibridazione in divenire, sorretta dal ricordo del passato. Nel mio ricordo del passato non ho potuto fare a meno di rimarcare questo legame – per serie continue e discontinue – che si è venuto a creare tra la via dove sono nato e la via dove sono andato a vivere, in seguito, all’età di tre anni: tra la via Anime Sante e la via Ammiraglio Gravina. Non posso fare a meno di pensare al fatto che non ho chiesto espressamente a Mattia di fotografare la prima casa perché, ormai, non esisteva praticamente più. Sono passato – ogni passaggio è indice di ritualizzazione direbbe Van Gennep (Van Gennep 1981) – direttamente alla seconda casa senza, inizialmente, pormi il problema. Ma ci ho pensato in seguito, riguardando le foto scattate da Mattia, trascrivendo il testo che le accompagna. E quindi? Se è vero che la prima casa non esisteva più, avrei potuto chiedere – da buon antropologo che pensa il contesto in termini di produzione del senso, persino in assenza di un ‘testo’ – a Mattia di fotografare tutto ciò che stava intorno all’edificio. Sono d’accordo con Duranti, il quale ritiene che il contesto non è uno sfondo inerte, bensì, a tutti gli effetti, «un prodotto della comunicazione» da studiare, in questo senso, a pieno titolo sociale (Duranti 2007: 14). Perché ho resistito allora? Avrei risolto, in parte, il problema ricorrendo al contesto. Non l’ho fatto! Senza volere approfondire la questione, qui, in modo più analitico, credo che sia importante – sempre – mettere in conto il valore dell’assenza e commisurarlo con quello della presenza nei termini posti dalla società, accettati o rifiutati dall’individuo.

Radici in divenire (ph. Mattia Montes)

Radici in divenire (ph. Mattia Montes)

I miei ricordi relativi alla prima casa sono molto vividi, ma non ho voluto resuscitarli più di tanto perché – suppongo – mi ha ferito l’assenza non in quanto tale, ma come serie di associazioni che riportano alle mie morti, ai parenti che hanno vissuto in quella casa e alla rete di relazioni che l’accompagnava. Per molti aspetti, di fatto, l’assenza può essere recuperata nei miei ricordi. Non è quindi questo il problema. Ma è vero che l’assenza dell’edificio è equivalente, nel mio caso, a una impossibilità: l’impossibilità del potere tornare indietro fisicamente sul posto e rivivere, in qualche modo, somaticamente, e non più soltanto con la testa i miei ricordi. Ciò confermerebbe l’idea secondo cui il ricordo – se non in tutti, almeno in molti casi – non è soltanto un atto cognitivo bell’e buono, ma emerge anche in quanto elemento somatico di sintesi di un vissuto persino lontano, apparentemente rimosso. Il ricordo non è soltanto un atto cognitivo, in sostanza, ma anche somatico. In quella prima casa, di fatto, il mio vissuto è legato alle tante morti di persone che amavo, che non sono più tra noi, e alle quali non posso più fare riferimento in carne e ossa: come corpo che rimanda al vissuto e al percetto. A questo proposito, benché formulate in un diverso contesto, sono importanti le proposte di Clifford.

Clifford è lo studioso che, forse più di tutti, ha insistito sul fatto che l’antropologia, in passato, era fondamentalmente legata al risiedere, producendo fieldworks che ne erano una diretta conseguenza. La sua proposta consiste invece nello spostare l’accento dal nativo al viaggiatore al fine di mettere a fuoco sui rapporti intrattenuti tra le due figure. Un’altra sua proposta, molto efficace, tendente a decostruire l’opposizione tra il risiedere e il viaggiare, consiste nel vedere in che «modo la ‘casa’ è concepita e vissuta in rapporto alle pratiche dell’andare e venire» (Clifford 1999: 15). Il ricordo può giocare un ruolo centrale in questo va-e-vieni di cui parla Clifford. La casa – sarebbe meglio dire le case, nel mio caso – è concepita in rapporto al rendere possibile e concreto l’andare e venire del ricordo rispetto ai vivi e ai morti. Per quanto strano possa sembrare ciò di primo acchito, in realtà non stupisce più di tanto se ci si sofferma sulla cultura intesa come elemento di ricomposizione, in chiave rituale e simbolica, della società dei vivi e dei morti. Si potrebbe addirittura parlare di un combattimento dei vivi per tenere ‘in vita simbolica’ i morti e, di conseguenza, il loro ricordo. Questo combattimento protratto è diffuso se non altro per una ragione propriamente culturale: «ogni società vorrebbe essere immortale e ciò che chiamiamo cultura non è altro che un insieme organizzato di credenze e riti aventi lo scopo di lottare contro il potere di dissoluzione della morte individuale e collettiva» (Thomas 2006: 16).

U lapinu a Borgo Vecchio (ph. Mattia Montes)

U lapinu a Borgo Vecchio (ph. Mattia Montes)

La cultura, nella sua diversità, si definisce anche attraverso questa lotta continua condotta dagli esseri umani contro la dissoluzione della morte: se è vero che si muore e ci si dissolverebbe in un apparente nulla, è anche più vero che i rituali riaffermano il valore della memoria e della presenza simbolica dei propri cari non più in vita. Rimane la memoria, oltre la morte: rimane una forma di continuità simbolica tra i vivi e i morti. Il rituale, avvalendosi della memoria, assicura quella presenza (una continuità) che la morte annullerebbe affermando l’assenza e la scomparsa della persona cara (una discontinuità). Non è forse la memoria uno dei tratti fondamentali della cultura e del suo possibile mantenimento – attraverso atti e credenze – tramandato di generazione in generazione, di individuo in individuo? Se si tiene conto di questo assunto, anche la mia incursione nel ricordo, benché personalizzata e ammiccante al quotidiano, diventa una strategia per rendere più reversibile il tempo, mettendolo alla prova direttamente, scavando nel tracciato dell’esperienza vissuta e trasposta in memoria testualizzata o da testualizzare. Per quanto sfuggente, o forse proprio per questo, il tempo presta il fianco vulnerabile alla forza del rito che lo rende malleabile, addomesticato – discretizzandolo nei modi consentiti dalla cultura – persino nel quotidiano. Il rito è un modo per controllare l’impalpabilità e l’evanescenza apparente della dimensione temporale: il tempo fugge, il rito lo acciuffa. E ciò avviene anche nel quotidiano, in piccolo, non soltanto negli avvenimenti della grande storia. Vale anche per me? Certo!

Se è vero «che tutti gli esseri viventi nascono, crescono, muoiono e che questo processo è irreversibile» (Leach 1973: 196), allora questo è il mio modo – attraverso il rimescolamento dei ricordi – di combattere simbolicamente la presunta irreversibilità del tempo ed essere antropologo felice rispetto alla sua apparente linearità che non sembra fare retromarcia se non attraverso una sorta di ripetizione apparentata a un rituale addomesticatore. In questa breve foto-etnografia del ricordo mi sono lasciato andare, in molti modi, al caso. L’ho fatto offrendomi all’emergere del ricordo senza impormi in nessun modo: lasciando correre. Ma non è tutto: ciò vale pure per gli studiosi menzionati da me precedentemente. Nel ricordare alcuni luoghi della mia infanzia, creando quindi dei collegamenti tra loro, mi sono avvalso di alcune ipotesi di altri studiosi, citandoli, riportandone le idee, senza aver avuto un vero e proprio piano preliminare circa il loro uso specifico o l’esatto incastro sequenziale. Ho lasciato prevalere il caso. La questione ha una valenza più generale che va oltre il contesto in questione qui. Il caso va rivalutato, così come la pianificazione non va trascurata. Il caso va rivalutato perché, nonostante la tendenza teorica sia quella di attribuire maggiore importanza a intenti e progetti, la vita individuale e sociale non procede sempre per piani preliminarmente programmati. La riflessione sulla pianificazione non va trascurata perché è parte costitutiva della vita sociale e, anche volendolo, sarebbe impossibile eliminarla del tutto. Non è dunque opportuno riassumere una vita in termini di pura casualità o di sola pianificazione: l’una o l’altra rigidamente separate. Sono ambedue presenti, sovente, sebbene per gradi diversi nella vita degli individui. Ciò che conta veramente, in sostanza, è che la pianificazione della vita non sia sempre vista in opposizione all’intervento del caso e dei suoi inaspettati suggerimenti o rischi eventuali.

Riflessi del porto (ph. Mattia Montes)

Riflessi del porto (ph. Mattia Montes)

Un altro punto va sottolineato. L’idea che si riflette sul senso del vivere soltanto allorché ci si trova alle prese con ciò che lo mette in pericolo – la morte e le malattie – è fuorviante. L’universo della ritualizzazione appartiene di diritto anche alle situazioni ordinarie, meno disastrose. L’universo della ritualizzazione appartiene pure all’ambito del ricordo. Questa è una delle critiche che muove Connerton a Halbwachs: «Halbwachs, pur collocando il concetto di memoria collettiva al centro della sua ricerca, non vede che le immagini del passato, e della conoscenza del passato legata al ricordo, vengono trasmesse e alimentate da atti (più o meno rituali)» (Connerton 1999: 45). In questa prospettiva, non è superfluo avanzare l’ipotesi che le fotografie di Mattia hanno avuto, su di me, una funzione rituale di rimando a un insieme di ricordi cristallizzati intorno ad alcuni passaggi di status e di luogo: dalla casa natale alla seconda casa; dalla dimensione del presente alla dimensione del passato; dalla mia età adulta alla proiezione nel mio passato di adolescente. Al di là dell’interrogazione sempre opportuna sul metodo, la domanda supplementare che ci si potrebbe porre è: a cosa serve tutto questo? A cosa ci porta? 

Credo che, al di sopra di tutto, l’avventura antropologica sia un modo per decentrare criticamente se stessi e gli altri, i propri posizionamenti e quelli altrui: al fine di vedere meglio se stessi e gli altri, nel va-e-vieni dinamico tra il locale e il globale, il sapere e il potere, il privato e il pubblico, il soggettivo e l’oggettivo. Ormai da tempo, l’antropologia ha fatto il suo rimpatrio a casa. Ma le condizioni di regolazione odierne relative a una antropologia dell’esistenza – proiettata nel quotidiano – sono ancora poco esplorate. Qui e altrove, io intendo farlo: parlando in prima persona, smussando quella frontiera solitamente posta tra il soggettivo e l’oggettivo. Di conseguenza, il proverbiale straniamento provato dall’antropologo non dovrebbe valere soltanto per le consuetudini cognitive e percettive di ‘tipo esotico o esotizzante’, ma anche per quelle cognitive e emotive di ‘tipo casalingo o nostrano’. E non solo! Lo sguardo esercitato sul mondo dovrebbe essere diretto anche verso l’interno di chi guarda e percepisce. Invece noi crediamo, a volte, che l’io «se ne stia affacciato ai propri occhi – come se s’affacciasse al davanzale di una finestra – e contempla il mondo là fuori. Solo che il mondo sta là fuori ma sta anche al di qua del davanzale» (Bellone 2008: 163). E ciò non riguarda soltanto la vista in sé, come se fosse l’unico organo di elaborazione del conoscere, ma anche tutti gli altri sensi e le loro commistioni: proiettati sul mondo, i sensi sono inoltre oggetto di una proiezione del mondo verso la nostra interiorità. La metafora del davanzale non è adatta a spiegare la conoscenza in generale – né tanto meno la conoscenza antropologica – e non dovrebbe quindi essere quel marchio epistemologico che alcuni studiosi usano per proporre le loro ricerche.

In questa prospettiva, volta a indagare l’esistenza nella sua complessità anche interiore, la riflessione sul ricordo è essenziale se non altro perché esso ci porta verso l’esterno – verso il mondo e i luoghi vissuti da noi e da altri – ma è anche un elemento fondante le emozioni e l’interiorità apparente. Come si è visto, i miei ricordi tendevano a mettersi in forma attraverso i luoghi richiamati nella sottolineatura del loro emergere e collegarsi. Non bisogna però dimenticare, nonostante io non abbia insistito su questo aspetto, che ricordo e oblio sono le due facce della stessa medaglia culturale. Una delle tesi portanti del volume Ricordare di Assmann è proprio che il ricordo e l’oblio sono entrambi costitutivi dei processi relativi alla memoria. L’uno non può – e non dovrebbe – essere separato dall’altro. Io ho messo qui l’accento sul ricordo e sulla proiezione del soggetto nel passato. Ciò è anche dovuto al fatto che io volevo portare a termine questa breve foto-etnografia lasciando interagire lo scritto con le foto di Mattia che mantengono, intenzionalmente, una loro sintassi narrativa delle immagini: si possono quindi leggere come rimando del mio scritto, ma, anche, come narrazione visiva vera e propria. Se non avessi dovuto etnografare i miei ricordi, naturalmente mi sarei comportato alla stregua di chiunque altro individuo che oscilla tra il tuffo nel passato, la vita presente e la pianificazione del futuro. Non dico che non ho oscillato anche in questo caso, scrivendo questa etnografia, ma l’ho fatto molto meno perché mi sono rivolto al passato per indagare i miei stessi ricordi.

Borgo Vecchio multietnico (ph. Mattia Montes)

Borgo Vecchio multietnico (ph. Mattia Montes)

La questione non riguarda più soltanto il ricordo ma la vita nella sua complessità. La domanda è allora: cosa vuol dire vivere più in generale? Come viene concepita l’esistenza in chiave antropologica e come si organizzano le dimensioni spaziali, temporali e attoriali? Propendo per un sano relativismo culturale. Di conseguenza, la questione andrebbe affrontata di volta in volta, di cultura in cultura. L’ho fatto in parte in passato. Mi pare però opportuno dare qualche indicazione supplementare in questo senso senza, per questo, prendere di petto la questione nella sua totalità. Una ottima definizione del vivere è data da Van Gennep, secondo cui «vivere significa disaggregarsi e reintegrarsi di continuo, mutare stato e forma, morire e rinascere; in altre parole, si tratta di agire per poi fermarsi, aspettare e riprendere fiato per poi ricominciare ad agire, ma in modo diverso (Van Gennep 1981: 166). L’autore pensa l’esistenza per fasi da superare secondo una progressione ritualizzata (la nascita, il fidanzamento, il matrimonio, la laurea, il colloquio di lavoro, la morte, etc.): ciò evidenzia il fatto che le varie fasi di un’esistenza richiedono riti opportuni e ben pianificati affinché queste fasi possano venire affrontate e superate con successo. In questo modo, il futuro viene addomesticato, reso meno imprevisto, grazie a riti e piani d’azione. Di conseguenza, la pianificazione delle azioni assurge a elemento centrale per il senso stesso del vivere.

Lo stile di vita fondato sulla pianificazione del futuro (ottenuta tramite la ritualizzazione delle diverse fasi del vivere) si oppone, in sostanza, allo stile di vita basato sul recupero del passato. Ovviamente, se in linea teorica pianificazione del futuro e recupero del passato si oppongono, nella pratica possono pure combinarsi variamente oppure alternarsi. Dal punto di vista delle età della vita, si può dire che prevale da giovani la pianificazione del futuro, mentre da anziani si impone un certo immobilismo vertente sul recupero del passato. Detto questo, le due modalità possono diventare strumenti variamente utilizzati nelle diverse età e, persino, prospettive artistiche su cui fondare la propria scrittura. Si pensi, in letteratura, a Proust e all’immensa opera di recupero del tempo perduto compiuta, nella Ricerca, attraverso il ricordo. In ambito antropologico si pensi a Lévi-Strauss e alla distillazione del ricordo, associato al profumo, che lo riporta in Brasile e lo aiuta a rievocare e trascrivere – in Tristi tropici – il passato trascorso in quel paese. Questi lavori confermano quanto da me detto precedentemente.

Il senso di ciò che si è, il senso di ciò che è la nostra identità proviene in parte dalla memoria, dal suo depositarsi – il suo divenire cultura – nelle varie forme codificatrici che se ne fanno carico trasponendo l’esperienza dell’individuo e della collettività: una foto, un libro, un museo, una poesia, un brano musicale, una forma di danza, una edicola votiva, etc., sono tracce della memoria che, in un modo o nell’altro, danno fondamento a storia e tradizioni. Per quanto mi riguarda, ho detto che ho insistito sulla proiezione nel passato mettendo in moto – grazie all’articolazione dei vari spazi fotografati – i ricordi e il tessuto narrativo suscitato. Ho detto che ho oscillato tra presente, passato e futuro, intenzionalmente mettendo in sospensione – il più possibile – presente e futuro. Basta rileggere il testo per rendersi conto dove queste oscillazioni hanno avuto più forza. È pur vero però che avevo scritto una lunga nota, a un certo punto, che può essere considerata una anticipazione, benché in parte, di ciò che intendevo fare nella presente foto-etnografia. Ecco la nota di seguito. Mi pare interessante rileggerla alla luce del suo sviluppo – il saggio che il lettore ha sotto gli occhi – e renderla pubblica al fine di meglio capire in che modo pianificazione – un lungo appunto lo è – e attuazione hanno effettivamente interagito: 

«È deciso: scrivo sul ricordo. Ma come? Con quale tipo di scrittura? Più convenzionale e accademica o più aderente ai flussi di coscienza? E, poi, è sufficiente scriverne? Non sarebbe meglio associare la scrittura alla fotografia? Si tratterebbe di fare dialogare l’una con l’altra. Resta il quesito: il ricordo di chi? Il ricordo è sempre un tuffo nel passato a partire dal presente. E io, invece, vorrei cedere al passato neutralizzando la mia prospettiva presente. Sarà possibile farlo? Nessuno può sradicarsi da se stesso, suppongo. Solo un buddista potrebbe pensare una cosa del genere. O no? Forse la soluzione, parziale per quanto sia, sarebbe ancorare il ricordo ad alcuni luoghi del passato – la mia infanzia, per esempio – e disincrostare le sedimentazioni mnestiche che essi hanno. Forse potrei, in questo modo, dare un ordine al susseguirsi caotico di emergenze del passato. Una volta messa mano alla questione, infatti, è difficile tenere i ricordi a bada. Forse dovrei dare priorità alle case in cui ho vissuto. E sono tante: in Italia e all’estero. Perché le case? Perché le case sono cristallizzazioni identitarie, ma sono luoghi di arrivo e di partenza, di inizio e fine di un periodo del vivere in un paese o l’altro. Dovrei partire dalla casa – dalle mie case vissute – per “pensare attraverso un argomento” (Clifford 2004: 70): l’argomento del ricordo». 
La grattatella al Foro Italico (ph. Mattia Montes)

La grattatella al Foro Italico (ph. Mattia Montes)

Per avviarmi alla conclusione, dovrei sintetizzare i punti toccati nell’insieme della foto-etnografia. Ritengo che sia poco utile, qui, farlo proprio perché si è trattato di una etnografia e voglio che rimanga l’elemento primario della riflessione mia e di Mattia: un esserci, sul campo, che ha dovuto fare i conti con la scrittura e con le immagini, ma che non vuole allontanarsi troppo dall’‘esserci’, scommettendo su questioni complesse e di vario tipo che avrebbero soltanto un valore riepilogativo e non interrogativo. Tuttavia, avendo iniziato con un riferimento al romanzo di Salinger, mi pare fertile – e provocatorio – chiudere con una riflessione sull’epilogo del romanzo. Nell’epilogo, il protagonista principale del romanzo di Salinger dice che potrebbe continuare a raccontare, che potrebbe continuare a raccontare altre cose. Ma non ne ha voglia, non gli interessa. Allo stesso tempo, altre persone – soprattutto il suo psicanalista – continuano a chiedergli cosa farà in futuro e quali sono le sue intenzioni, nonostante lui stesso sia all’oscuro di tutto e non lo sappia. Non soltanto il giovane Holden, quindi, non ha voglia di raccontare – andando a ritroso con la memoria e ricordando – ma non sa neanche cosa farà della sua stessa vita. In sostanza, il protagonista si trova in bilico su un presente che non si concede al passato e nemmeno si proietta verso il futuro. Il giovane Holden si pente persino di aver raccontato parte della sua vita – che coincide fondamentalmente con la storia del romanzo – perché il racconto consente di instaurare una relazione con altre persone che in futuro gli mancheranno: «Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, poi comincia a mancarvi qualcuno» (Salinger 2014: 251). Così dicendo, grazie all’epilogo che riconfigura il tutto, il romanzo può essere inteso al pari di una estesa metafora relativa al modo in cui la dimensione affettiva e temporale si incastrano attraverso quello strumento che è la narrazione.

In altri termini, una lezione che si può trarre è che la narrazione non è fine a se stessa ma è tale in funzione del ricordo (e dell’affetto) e, viceversa, il ricordo si instaura in stretta relazione con la narrazione (e l’affetto): insomma, non si può ricordare, richiamando il teatro degli affetti, se non narrando. La narrazione, come afferma Bateson, è strettamente connessa alle storie: pensiamo per storie che non si limitano alla semplice frasetta o alla sola lingua orale o scritta. Questa è la ragione per cui ho voluto, fortemente, che un fotografo dialogasse con me – soggetto vulnerabile che si vorrebbe decentrare – sulla valenza dei ricordi e interrogasse la mia scrittura etnografica spesso intessuta di automatismi. Ribadisco quindi, ancora una volta, la mia vulnerabilità. E termino, davvero questa volta, con una bella citazione di Tonkin: «Il fatto che il proprio Sé sia variabile e vulnerabile può essere sconcertante da pensare, ma non ne segue che i Sé siano non-esistenti. Noi abbiamo davvero una coscienza, siamo davvero agenti, fino alla morte, del passato nel futuro. Per cui è banale ma terrificante concludere dicendo che la conoscenza e la vita sociale possono sopravvivere solo se gli individui contribuiscono alla loro trasmissione. Se gli esseri umani annichiliscono ciò che è presente, annichiliscono allo stesso modo ciò che è passato, e così ostacolano un futuro» (Tonkin 2000: 185). 

Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022 
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Stefano Montes, insegna Antropologia del linguaggio e Antropologia dei processi migratori e dei contesti culturali presso l’università di Palermo. In passato, ha insegnato all’università di Catania, Tartu, Tallinn e al Collège International de Philosophie di Parigi. È stato inoltre direttore di ricerca di un team franco- estone con sede principale nell’Università di Tartu. In seguito, è stato anche direttore di ricerca per due anni di un team franco-estone con sede nell’Università di Tallinn. Ha pubblicato in diverse riviste nazionali e internazionali. I suoi temi d’interesse principale riguardano soprattutto i rapporti tra linguaggi e culture, tra forme letterarie e forme etnografiche. Più recentemente, si è interessato ai processi migratori e alle pratiche del quotidiano con particolare riguardo all’intreccio instaurato tra attività cognitive e agentive. 
Mattia Montes, viaggiatore fin dalla tenera età, prima in famiglia, poi da solo, ha sviluppato una passione di lunga data per la fotografia che ha trasformato, nel tempo e nei diversi luoghi in cui ha vissuto, in una riflessione sulle immagini e sull’immaginazione, nonché sulle modalità attraverso cui la fotografia stessa diventa sedimentazione della memoria ed elemento di soggettivazione individuale e sociale nel mondo. Oltre che alla pratica e teoria della foto, si interessa agli oggetti, al loro ruolo simbolico, e si considera appassionato collezionista di macchine fotografiche d’epoca.

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