di Antonietta Iolanda Lima
Non ho mai pensato che un volto potesse essere veritiero di sentimenti che rimandano all’interno della persona, tranne gli occhi però. Studentessa di architettura allora diciottenne, coglievo nei suoi, al di sotto di una fronte ampia al posto giusto, qualcosa di contradditorio. Sentivi la gentilezza benevola e curiosa dello sguardo e della persona tutta, signorile e di dosata eleganza, posarsi su di te e tuttavia ne coglievi il distacco, la lontananza, e in una sorta di serenità trasognata simile a certi suoi dipinti, sembrava viaggiare in orizzonti lontani. Si univa ad una competenza e a un saper comunicare che qualche volta trasformavano la topografia in mirabili percorrenze paesaggistiche e i ‘caratteri stilistici’ in linguaggi forme e spazi.
Insegnava il perché e il come dell’architettura nella sua didattica, forse era tutto questo che concorreva a donargli autorevolezza, pensavo allora. Manifesta in tutto, nella gestualità dosata, nel modo con cui parlava, si muoveva. Frequentandolo, compresi che amava la letteratura, l’arte e la musica. Lo dice bene Maria Accascina che più di una volta rifletterà su lui. Scrive: «Per altra via Epifanio conquista l’arte: per via di una estrema sensibilità musicale che lo avverte di ogni dissonanza nell’architettura e nella decorazione e gli fa musicalmente adagiare le masse in una serena distensione nello spazio e gli fa comporre vuoti, pieni, movimenti orizzontali e verticali in armoniosa concordia che nessun elemento mai giunge a turbare».
Non erano il sottofondo del suo fare architettura, ma compagne alla pari. Quando si pensi che molti dei suoi più interessanti progetti datavano agli anni del regime – qualcuno in anni più tardi e non per questo meno terribili – si resta particolarmente ‘contenti’ nel vederne l’autonomia dai dettami del medesimo e la rilevante significanza, per nulla inferiore alle opere degli architetti che Bruno Zevi, nella sua Storia dell’architettura moderna, definirà ‘maestri’. Si guardi il progetto per un auditorium del 1933 o il quartiere Ina-Casa nella borgata dell’Arenella a Palermo, per coglierne “quell’armoniosa concordia” evidenziata da Accascina. Autenticamente moderno, sicuro nel linguaggio, genera forme la cui forza espressiva si nutre di una essenzialità singolare.
Non espunge, anzi ne rafforza la rilevanza. Avviene anche nel Quartiere Littorio, costruito tra il 1927 ed il 1932 in collaborazione con Giovan Battista Santangelo per l’Istituto Autonomo Case Popolari di Palermo. Esplicitamente voluto da Mussolini, pur non riuscendo del tutto a sfuggire ai dettami dittatoriali, non perde la capacità di ‘togliere’, dimostrando, ma in modo altro da Mies van De Rohe, che con il meno può farsi anche il più. Ottenerlo dipende soltanto dalla capacità dell’architetto. È artista libero e di grande raffinatezza. Pregne di lirismo le sue architetture, e ugualmente i suoi acquarelli. Diciassette appena quelle di cui disponiamo e tuttavia dicono molto.
Con il vedutismo, plurimi i rimandi ad alcune correnti pittoriche. Tre in particolare: impressionismo, espressionismo e i macchiaioli, sia pure in parte, per la tecnica. Ma ci sono anche i paesaggi della scuola di Posillipo in Campania. E tuttavia suo è l’esito finale. Nulli i riferimenti allo scenario siciliano. Il contesto a cui guarda è l’europeo. Nulla la prospettiva. È la successione dei piani a dare la profondità dello spazio. Meditata la composizione, costruita in diagonale e sui pesi dei soggetti. Nullo l’ordine geometrico. Il suo essere architetto riverbera sui primi piani – case, abbeveratoio, costruzioni rurali, bagli. Sono loro che solitamente occupano primi piani. Protagonisti luce, colore, montagne, alberi. In loro rapide le pennellate, ma si mantiene la specificità delle forme. Diversità dei paesaggi, anche per la velatura che li copre. Uno in particolare si affratella ad un acquarello di Amoreli (Alfonso). Trasognati due paesaggi; tersi, delicati, luminosi gli altri, e in essi non la fusione, ma un’accentuata distinzione degli insiemi – le case, il verde, le montagne, i gialli rosati, il verde scuro e l’ocra dei colori.
Non c’è superfluo, ma piuttosto sapiente parsimonia. Anche l’architettura rurale da lui disegnata ne è intrisa. Frugale e incisiva, racconta forme, elementi, segni, dettagli di quella che, dopo qualche decennio successivo, Luciana Natoli farà titolo e contenuti di un libro, dotato anch’esso da parsimoniosa autorevolezza – La città paese di Sicilia. In convergenza con gli interessi di Edoardo Caracciolo, interpretano entrambi lo spirito del tempo il cui seme generativo rimanda all’Architettura rurale italiana di Giuseppe Pagano, con la collaborazione di Guarniero Daniel. La data di tale evento è il 1936. Sostenuta dalla Triennale di Milano, la VI, è nei suoi spazi che si allestisce la mostra.
In una fase tragica quale quella degli anni trenta, al disorientamento di non pochi architetti di fronte all’agire di Mussolini, il suo guardare in profondità, segnato dal concepire ineludibile il valore della dimensione sociale, lo spinge ad indagare il fare, spesso inconsapevolmente permeato d’arte, del mondo rurale, restituendo così un «immenso dizionario della logica costruttiva dell’uomo, creatore di forme astratte e di fantasie plastiche spiegabili con evidenti legami col suolo, col clima, con l’economia e con la tecnica». Guidato da un pragmatismo intelligente fondato sul lavorare in armonica concordia con la natura e con quanto da essa discende. Non sotteso, ma dichiarato l’obbiettivo finale, una imperdibile lezione la cui attualità se allora pertinente, quanto mai necessaria oggi, aggiungo. E Pagano con manifesta evidenza di questa sua inedita ricerca, presentata alla Triennale, dichiara l’obbiettivo. Che la colgano gli architetti, ci ragionino sopra, aprano confronti e dibattiti al fine di percorrere nuovi e ben più fecondi percorsi.
Accoglie e subito questo suggerimento Edoardo Caracciolo e coloro che di quella scuola fanno parte. Generazioni diverse vi convergono, spesso lavorano insieme coinvolti in progetti che interessano interventi in contesti periferici o addirittura la città nella sua interezza. Costante la presenza di Epifanio, e ripetutamente apprezzati gli esiti suoi e degli altri. Dopo circa un anno dall’aver sottolineato le loro immediate dimissioni conseguenti alla vergognosa demolizione di una delle ville tra le più significative di Ernesto Basile – la Deliella (Zevi, 1960), il 20 agosto del 1961 evidenzia «l’esemplare competenza» dimostrata nello studio del piano di risanamento del nucleo storico di Palermo (Zevi, 1961).
Scrigno di un buon senso talmente elevato da costituirsi in ‘spontanea’ sapienza, pregno di rude ma solidale umanità, è il mondo dell’architettura rurale e contadina. Ai più sconosciuto, è il 1939, tre anni dopo la mostra di Pagano che ha dimostrato l’inadeguatezza di attribuirle il titolo ‘minore’, quando poco più che quarantenne Luigi Epifanio vi entra, interessato, come scrive nella premessa, «solamente a quelle forme in cui se dalla prevalente rispondenza ad esigenze utilitarie un senso d’arte affiora, esso è il frutto spontaneo dell’animo popolare, permeato di ingenuità, espresso sovente con povertà di mezzi dalla piccola maestranza o dal contadino stesso il quale si improvvisa architetto della propria abitazione». Con l’idea di estendere lo studio a plurimi ambiti regionali, consapevole che solo in tal modo sia possibile una sintesi fondata, l’inizio avviene con il paesaggio della terra che sente sua in particolare modo perché vi nasce, vi vive, e in essa si compie la sua vicenda umana e professionale, senza iato alcuno tra pittura e architettura.
L’ho già detto: rendendo ancor più incisivo quanto vuole che si evidenzi, come nel fare contadino la frugalità ne è segno caratterizzante. La percorre tutta la Sicilia, e numerosi sono i piccoli e medi insediamenti su cui si sofferma. Con segno nitido e chiaro ne restituisce la ricchezza poetica, se per essa si intende amore e rispetto per la terra riconoscendone la prodigiosa generosità nel dare, e l’essenzialità del suo fare sintesi esplicita come la stessa intrida il vivere tutto contadino. Mi piace chiamarla frugalità – come qui più volte ho detto – e può dirsi che essa è veramente materia del costruire rurale. Da ogni cosa emerge.
Sia essa casa, singola o in insiemi, torre, noria, eremo, casale, masseria, piccola chiesa, baglio, mulino, corte, cortile, terrazze nelle loro plurime articolazioni, pozzo, pergola, balconata – e i modi con i quali si sostiene. E ‘vengono fuori’ i movimenti, i modi di disporsi e comporsi nello spazio, la ricchezza dei motivi in cui anche il più piccolo elemento ha il suo perché, come avviene con le cornici o con il modo di disporsi delle tegole o come certe protuberanze che fuoriescono dai muri – i pozzi solitamente – la ricchezza degli accostamenti, l’equilibrio tra vuoti e pieno.
Riferimenti a qualche altrove, come avviene nel cosiddetto linguaggio ‘colto’? Nessuno. Si guardi, in proposito La dimensione sacrale del paesaggio. Ambiente e architettura popolare di Sicilia. Concepito nei tardi anni Sessanta, elaborato e pubblicato nei Settanta, si vedrà in esso con chiarezza come l’universo contadino nasca solo da se stesso e guarda solo se stesso. Cambierà questa sua precipua ‘magnifica’ originalità quando negativamente inizierà la sua bastardizzazione man mano scomparendo.
Si inserisce questo piccolo brano di costruito sul quale infine mi soffermo in quella particolare fase che interessa la fine degli anni Trenta e i Cinquanta del Novecento in cui l’Ente di colonizzazione agricola promuove una politica insediativa finalizzata a contrastare un latifondo pervasivo congiunto ad un vistoso abbandono del territorio rurale. Movente di questa iniziativa, dato il periodo, è Mussolini. Sfollare la città è il suo dictat.
Breve il passaggio dalla elaborazione alla realizzazione. Pur sapendo che non può disattendere quanto stabiliscono le norme e lo stile, riesce a creare un organismo che linguisticamente si distingue. Non mancano gli archi, ma ne stempera il riferimento il rigore della forma, l’asciuttezza complessiva. La piazza ne è il cuore. Ma per quale socialità mi domando e questo interrogativo penso sia stato anche di Epifanio. Manca infatti, congiuntamente a un piano organico, ciò che dà senso compiuto al costruirsi di un qualcosa che vuole durare: il tessuto residenziale. Così, raramente quanto dei borghi programmati si costruisce innesca un processo continuativo. Accade anche a Borgo Fazio che oggi, come gran parte degli altri, ‘vive’ una desolante distruzione che addolora e indigna. Né si mantiene qualche traccia, sia pure minima, della decorazione pittorica del siracusano Alfonso Amorelli, la cui formazione deve non poco al Gianbecchina e al Tomaselli, entrambi artisti noti e apprezzati anche da critici severi.
Fatica, denaro, architettura meritevole di essere preservata: tutto perso. Chi ha portato a tale vergognosa condizione dovrebbe solo per un attimo riflettere su come, avendone cura e comprendendone quindi il valore, il loro mantenimento sarebbe preziosa testimonianza di un preciso momento storico, ma anche, come ben scrive Alessandro Brandino, «assumere un significato di risorsa ambientale, economica e culturale in relazione anche alle dinamiche che la città contemporanea, …costituendosi cardine di una pianificazione territoriale in un’ottica di programmazione di area vasta in cui il rapporto fra città e campagna potrebbe acquisire una nuova definizione e centralità».
Ci si attende, e da tempo, che la politica agisca per il bene degli umani, del resto degli animali e delle piante, avendo per questo cura delle città, del paesaggio, del territorio e della terra tutta. In tal modo riconvertendo in senso positivo il fallimento dei borghi si dimostrerebbe l’inizio di un risveglio, non dimentichi di una legge, che, pur emanata dal fascismo, nei primi suoi quattro articoli, con le ville, i parchi e i giardini stabiliva la protezione dei complessi di «cose immobili che compongono aspetto avente valore estetico».
Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022
Riferimenti bibliografici
Giuseppe Pagano, Guarniero Daniel, Architettura rurale italiana, Quaderni della Triennale, Milano 1936.
Luigi Epifanio, L’architettura rustica in Sicilia, Palumbo editore, Palermo 1939; Riedizione a cura di M. Giuffrè, P. Barbera, Torri del Vento, Palermo 2022.
Edoardo Caracciolo, Edilizia ericina, 1939.
M. Accascina, Le mostre di architettura retrospettiva e Sindacale di architettura a Palermo, in “Architettura”, anno XIX, fascicolo VIII, luglio 1940: 344.
Edoardo Caracciolo, La nuova urbanistica nella bonifica del latifondo siciliano, 1940.
Pietro Villa, Urbanistica rurale in Sicilia, estratto da “L’ingegnere”, n.1, Industrie Grafiche Milano Stucchi, Milano 1942.
Bruno Zevi, I banditi contro Ernesto Basile, in “Cronache di Architettura, 6, 258/320, 3 gennaio 1960: 295, 452
Bruno Zevi, in “Cronache di Architettura”, 7, 321/384, 20 agosto del 1961: 380, 259.
Luciana Natoli, La città paese di Sicilia, Quaderno n. 7 della Facoltà di Architettura dell’Università di Palermo, Cartografia Palermo, Palermo 1965.
Antonietta Iolanda Lima, La dimensione sacrale del paesaggio. Ambiente e architettura popolare di Sicilia, Fausto Flaccovio editore, Palermo 1978.
Antonino Saggio, L’opera di Giuseppe Pagano tra politica e architettura, edizione Dedalo, Universale diretta da Bruno Zevi, 66, Bari 1984.
Alessandro Brandino, I borghi rurali in Sicilia dal ventennio fascista alla riforma agraria: il caso della provincia di Siracusa, Convegno AISU, 2020.
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Antonietta Iolanda Lima, architetto, già professore ordinario di Storia dell’Architettura presso l’Università di Palermo. Sostenitrice della necessità di pensare e agire con visione olistica, sua ininterrotta compagna di vita, è quindi contraria a muri, separazioni, barriere. Per una architettura che sia ecologica, sollecita il rispetto per l’ambiente e il paesaggio, intrecciando nel ventennio ‘60-‘70 l’elaborazione progettuale, poi dedicandosi alla formazione dei giovani. Ad oggi continua il suo impegno a favore della diffusione della cultura e di una architettura che si riverberi positivamente su tutti e tutto: esseri umani, animali, piante, terra; perché la vita fiorisca. Promotrice di numerose mostre ed eventi, è autrice di saggi, volumi e curatele. Tra essi, qui si ricordano: L’Orto Botanico di Palermo, 1978; La dimensione sacrale del paesaggio,1984; Alle soglie del terzo millennio sull’architettura, 1996; Frank O. Gerhy: American Center, Parigi 1997; Le Corbusier, 1998; Soleri. Architettura come ecologia umana, 2000 (ed. Monacelli Press, New York – menzione speciale 2001 premio europeo); Architettura e urbanistica della Compagnia di Gesù in Sicilia. Fonti e documenti inediti XVI-XVIII sec., 2000; Monreale, collana Atlante storico delle città Europee, ital./inglese, 2001 (premio per la ricerca storico ambientale); Critica gaudiniana La falta de dialéctica entre lo tratados de historia general y la monografìas, ital./inglese/spagnolo, 2002; Soleri; La formazione giovanile 1933-1946. 808 disegni inediti di architettura, 2009; Per una architettura come ecologia umana Studiosi a confronto, 2010; L’architetto nell’era della globalizzazione, 2013; Lo Steri dei Chiaromonte a Palermo. Significato e valore di una presenza di lunga durata, 2016, voll. 2; Dai frammenti urbani ai sistemi ecologici Architettura dei Pica Ciamarra Associati, 2017 (trad.ne inglese, Londra e Stoccarda, Edit. Mengel; Bruno Zevi e la sua eresia necessaria, 2018; Giancarlo De Carlo, Visione e valori, 2020; Frugalità Riflessioni da pensieri diversi, 2021. Il suo Archivio è stato dichiarato di notevole valore storico dal Ministero dei Beni Culturali.
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movimenti orizzontali e verticale in una armoniosa concordia che