di Benedetto Coccia e Antonio Ricci
Introduzione
Per molti, in settant’anni, la Convenzione di Ginevra del 28.7.1951 [1] e il Protocollo di New York del 31.12.1967 [2] hanno fatto la differenza tra la morte e la vita, tra il pericolo e la sicurezza, tra la disperazione e la speranza. La comunità internazionale non è riuscita ad assicurare la cessazione di guerre e persecuzioni, tanto che i migranti forzati nel mondo non sono mai stati tanti come oggi, che se ne contano 100 milioni. Un’affollata nazione di senza diritti, in balia di sfide che si fanno sempre più globali e complesse, acuite dalla pressione demografica, dalle sperequazioni mondiali, dal climate change, dalle difficoltà di accesso alle risorse (acqua, cibo, terre, energie, ecc.) e, non ultimo, dalla pandemia da Coronavirus.
Esaminare 70 anni di storia del diritto d’asilo è un po’ come ripercorrere una parabola discendente che, dopo una fase di grande espansione e convergenza tra gli Stati aderenti, uniti dalla volontà di tutelare i rifugiati europei prodotti dalla Seconda guerra mondiale, oggi ne mette in scena il progressivo declino e svilimento. Di questa parabola discendente ai giorni nostri si trova un riscontro fattuale nella crescente resistenza nei confronti dell’accoglienza dei rifugiati, che ha fatto dell’asilo una delle questioni più controverse del processo decisionale interno all’Unione Europea.
Le politiche dell’asilo sono ormai contraddistinte dal sospetto nei confronti dei richiedenti e da dubbi sistematici sulla loro credibilità. Il varo nel 2004 del sistema Frontex e i successivi sviluppi, all’insegna della missione ufficiale di contrastare l’“immigrazione irregolare”, hanno di fatto contribuito a limitare ulteriormente gli arrivi di rifugiati, che generalmente non dispongono di canali d’ingresso alternativi a quelli utilizzati dai cosiddetti “migranti economici”, e rafforzato la “retorica dell’abuso” [3], ossia il timore che il canale dell’asilo sia sfruttato indebitamente per ottenere un titolo di soggiorno.
Da qui deriva un cambiamento sostanziale dell’immagine dei richiedenti asilo e dei rifugiati, sul piano culturale e politico: da soggetti meritevoli di protezione, come era avvenuto all’epoca della promulgazione della Convenzione di Ginevra, a migranti internazionali non autorizzati, insomma degli “ospiti indesiderati” [4].
Un fenomeno globale
Il 2021 – come purtroppo anche la prima metà del 2022 – si è contraddistinto per il riacutizzarsi di vecchi conflitti e l’accendersi di nuovi in varie parti del mondo. Nel rapporto Alert 2022!, i ricercatori dell’Università Autonoma di Barcellona nel 2021 hanno censito 32 conflitti armati nel mondo, di cui 17 ad alta intensità [5]. Inevitabile il portato di distruzioni, violenze contro i civili e migrazioni forzate, il cui impatto è stato amplificato dalla diffusione della pandemia e dalla sovrapposizione con altre crisi preesistenti come l’emergenza climatica.
Stimati dall’Unhcr pari a 20,7 milioni nel 2000, negli ultimi due decenni il numero dei migranti forzati nel mondo è inesorabilmente quintuplicato, raggiungendo i 100 milioni a maggio del 2022 [6], trainato dai grandi flussi di persone in fuga da varie aree del mondo, in particolare Siria, Venezuela, Afghanistan, Sud Sudan, Myanmar e, non ultimo, Ucraina.
Già alla fine del 2021 Unhcr contava nel mondo 89,3 milioni di migranti forzati, così suddivisi:
- 27,1 milioni i rifugiati, di cui 21,3 milioni sotto il mandato Unhcr e 5,8 milioni rifugiati palestinesi sotto il mandato Unrwa;
- 4,6 milioni i richiedenti asilo;
- 4,4 milioni i venezuelani fuggiti all’estero;
- 53,2 milioni gli sfollati interni stimati dall’Idmc.
L’83% dei rifugiati (inclusi gli sfollati all’estero venezuelani) è accolto in Paesi a reddito medio-basso e quasi i tre quarti (72%) vivono ora in uno dei Paesi confinanti col proprio Paese di origine. Più nello specifico, la Turchia ha accolto 3,8 milioni di rifugiati, il numero più elevato su scala mondiale, seguita da Uganda (1,5 milioni), Pakistan (1,5 milioni) e Germania (1,3 milioni). La Colombia invece ha accolto 1,8 milioni di venezuelani fuggiti all’estero. A livello pro-capite, il primato spetta al Libano (1 su 8), seguito da Giordania (1 su 14) e Turchia (1 su 23). Sempre in rapporto alle proprie popolazioni nazionali, l’isola di Aruba ha accolto un numero di venezuelani fuggiti all’estero pari a 1 ogni 6 cittadini, seguita da Curaçao (1 in 10). Più dei due terzi dei rifugiati (69%) è fuggito da soli cinque Paesi: Siria (6,8 milioni), Venezuela (4,6), Afghanistan (2,7), Sud Sudan (2,4) e Myanmar (1,2).
Risultano 4,6 milioni i richiedenti asilo la cui posizione non è ancora definita alla fine del 2021; di questi solo una parte limitata ha presentato domanda nell’anno in corso (1,4 milioni). Gli Stati Uniti hanno ricevuto il numero più elevato di domande individuali (188.900) e detengono il maggior numero di domande da esaminare (ben 1,3 milioni).
Secondo le stime dell’Unhcr, a fine 2021 il 42% dei rifugiati e venezuelani sfollati all’estero è costituito da bambini, con significative differenziazioni da regione a regione (si va dal 55% dell’Africa subsahariana al 38% dell’Europa o il 26% delle Americhe).
Di pari passo al crescere dei flussi forzati, nel corso del 2021 sono modesti i risultati degli interventi internazionali miranti ad assicurare le condizioni necessarie per un rimpatrio o un reinsediamento. Nel corso dell’anno, infatti, solo 5,7 milioni di migranti forzati sono riusciti a tornare sani e salvi nel loro Paese di origine (di questi 5,3 milioni sfollati interni e 429.300 rifugiati) e 57.500 sono stati portati in salvo in un Paese terzo.
La “Magna Charta” dell’asilo
Approvata il 28 luglio 1951 sulle ceneri della Seconda guerra mondiale, la Convenzione di Ginevra rappresenta ancora oggi una vera e propria “Magna Charta” dell’asilo, aperta a tutti soprattutto dopo che il Protocollo di New York del 1967 ha permesso di superare sia la clausola temporale (che fissava la data del 1° gennaio 1951 come limite temporale ex ante degli eventi potenziali cause di rifugiati), sia la clausola geografica, che limitava all’Europa gli obblighi degli Stati contraenti. Essa ha primariamente il merito di fornire una definizione universale di rifugiato, ovvero:
«“Colui che, (…) temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese, di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese: oppure che, non avendo la cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra» [7].
Una definizione particolarmente moderna perché – da 70 anni – permette di superare la logica dell’appartenenza a specifici gruppi etnici o nazionali bisognosi di protezione o ad altre categorie di persone minacciate, che aveva invece caratterizzato l’approccio tra le due guerre, per mettere a fuoco i concetti di “persecuzione individuale” (subìta o anche temuta) e di “giustificato timore di essere perseguitato”. Non si esplicita neanche il riferimento all’“agente” della persecuzione, che quindi non può essere limitato al solo soggetto statale, anche se negli anni successivi le prassi sembreranno favorire questa interpretazione.
La Convenzione, inoltre, afferma che potranno essere riconosciuti al rifugiato gli stessi diritti dei cittadini dello Stato in cui si risiede, a eccezione dei diritti politici. In ogni caso il rifugiato godrà quanto meno dei diritti previsti per gli stranieri residenti. Inoltre, l’Art. 31, Par. 1 esplicita che gli Stati non assumeranno sanzioni penali in merito a ingresso e soggiorno irregolari. Nel testo, invece, non si danno indicazioni sulle procedure da seguire per la determinazione dello status di rifugiato, lasciando mano libera agli Stati. Solo nel 1977 il Comitato Esecutivo del Programma dell’Unhcr [8] è intervenuto per proporre una serie di condizioni e requisiti da osservare per garantire un esame appropriato delle domande di asilo.
Da un’analisi complessiva sembra pertanto derivare un sistema che, lungi dal riconoscere un vero e proprio “diritto di asilo”, si limita a disciplinare il regime giuridico applicabile a chi ha ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato, senza trattare specificamente della sua concessione (come del resto chiaramente desumibile dalla stessa denominazione convenzionale).
La Convenzione non concede al rifugiato un diritto internazionale all’ammissione nel Paese ospitante né impone un obbligo per gli Stati firmatari ad ammettere rifugiati sul proprio territorio; tuttavia, l’ammissione dei richiedenti asilo alla frontiera si presenta come un corollario del principio di non-refoulement, che impone a tutti gli Stati l’obbligo di «non espellere o respingere (refouler) un rifugiato verso le frontiere di Paesi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale, o delle sue opinioni politiche» (Art. 33), il che significa di fatto accogliere coloro che fuggono la persecuzione e istituire procedure eque e affidabili per determinare quali richiedenti asilo abbiano titolo alla protezione internazionale (fatta salva l’eventualità che sussista una delle clausole di esclusione all’Art. 1).
La Convenzione di fronte alle sfide globali
Evitando di regolamentare il diritto di asilo, lasciando ampia discrezionalità agli Stati e non prevedendo il diritto soggettivo a ottenere lo status di rifugiato, la Convenzione del 1951 appare dunque, oggi, come uno strumento che si conforma a fatica alle nuove problematiche del presente. Le sfide globali che segnano l’attualità, come il cambiamento climatico, la pandemia, ma anche la ricerca di materie prime, risultano sempre più difficili da affrontare con gli strumenti tipici degli Stati-nazione, e le stesse migrazioni internazionali rimettono in discussione il principio della loro sovranità.
La prima questione che si pone è proprio quella dell’attualità della definizione di rifugiato. Nel corso degli anni, diversi gruppi di studio sono stati creati sulla base della Convenzione del 1951 per individuare una definizione più obiettiva. La Convenzione del 1969 dell’Organizzazione dell’Unità Africana (Oua) [9], che regola aspetti specifici dei problemi dei rifugiati in Africa, per esempio, oltre a prevedere i motivi fondanti già enunciati dalla Convenzione di Ginevra (razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale, opinioni politiche), ha ampliato la categoria di rifugiato arrivando a comprendere elementi nuovi come «aggressione esterna, occupazione, dominio straniero, gravi turbamenti dell’ordine pubblico in tutto o in una parte del Paese di origine o di cittadinanza». Sulla stessa scia la Dichiarazione di Cartagena del 1984 sui rifugiati in America Latina [10] ha incluso anche «la violazione massiccia dei diritti dell’uomo».
A livello Ue, l’istituto della protezione sussidiaria introdotto con la Direttiva 2004/83/Ce [11] (inclusa la successiva “rifusione” effettuata con la Direttiva 2011/95/Ue del dicembre 2021 [12]) ha permesso di soddisfare i bisogni di protezione diversi dalle ipotesi previste dalla Convenzione di Ginevra del 1951 (p.e. fondati motivi di ritenere che, tornando nel Paese di origine, si correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno). Oltre alla protezione sussidiaria, inoltre, coesistono nell’Ue altre 20 forme di protezione disciplinate dal diritto interno degli Stati, complementari e aggiuntive alla protezione internazionale, che non afferiscono a generici motivi caritatevoli bensì risultano basate su tradizioni giuridiche e culturali nazionali che tutelano diritti fondamentali non contemplati dalla protezione internazionale.
È il caso anche del cosiddetto Decreto Lamorgese (D.L. 130/2020) [13], convertito con modificazioni nella Legge 18 dicembre 2020 n.173 [14], che in Italia ha compiuto una riforma profonda in materia di asilo affiancando ai due status di protezione internazionale una terza forma di protezione disciplinata dal diritto interno detta “speciale”, che conferma l’impianto previsto dalla previgente normativa sulla protezione umanitaria, ma nello stesso tempo si espande inglobando il diritto fondamentale di ogni persona al rispetto della sua vita privata e familiare.
Il diritto d’asilo in Europa
Secondo l’Unhcr [15] alla fine del 2021 i rifugiati e i richiedenti asilo presenti nell’Ue-27 sono quasi 3,5 milioni, provenienti da oltre 140 Paesi. Il numero è cresciuto del +4,7% annuo dopo essere diminuito dell’1,7% nel 2020, anche a causa delle restrizioni alla mobilità internazionale imposte dall’emergenza Covid-19.
Un milione e mezzo vive in Germania e 576mila in Francia. L’incidenza pro-capite a livello Ue non raggiunge il punto percentuale (0,8%), con alcune significative eccezioni. È maggiore negli Stati di frontiera più piccoli (Cipro 3,3%, Malta 2,5% e Grecia 1,5%), così come nei Paesi tradizionalmente più aperti (Svezia 2,4%, Austria 2,0% e Germania 1,8%). Al contrario, essa è più bassa nei nuovi (Spagna 0,5%, Italia 0,3%) e nei nuovissimi Paesi di immigrazione (non supera lo 0,1% in tutti i nuovi Stati membri dell’Europa centro-orientale, con l’eccezione dello 0,4% riferito alla Bulgaria).
Sulla base degli archivi Eurostat [16], alla fine del 2021 risultano ancora non definite 747.435 domande (-2,4% rispetto al 2020), mentre quelle presentate nel corso dell’anno sono complessivamente 632.655 (di cui 537.630 per la prima volta), con un aumento del 33,8% rispetto al 2020, ma nello stesso tempo un calo del 9,5% rispetto al 2019, cioè prima che la mobilità umana venisse stravolta dalla pandemia. Se si considerano a parte i quasi 4 milioni di ucraini beneficiari di protezione temporanea registrati tra marzo e agosto 2022, i trend dei primi 5 mesi del 2022 contano circa 300mila richieste di asilo, l’85% in più rispetto allo stesso periodo del 2021. Circa la metà delle richieste fa riferimento a due soli Paesi: Germania (190.615) e Francia (120.705). Al terzo posto si colloca la Spagna (65.315), seguita da Italia (53.610) e Austria (39.930). Per quanto riguarda i Paesi di origine, al primo posto si conferma ancora una volta la Siria (116.110), seguita da Afghanistan (99.775), Iraq (29.915), Pakistan (24.770) e Turchia (22.205).
I minorenni richiedenti asilo sono nel 2021 183.720, cioè 1 ogni 3 richiedenti asilo (29,0% del totale). Di questi, 23.335 sono risultati non accompagnati da genitori o altre figure adulte di riferimento. Il 93,4% di essi è costituito da maschi e il 67,7% ha già compiuto i 16 anni. Provengono da 74 Paesi del mondo, tra cui innanzitutto Afghanistan (52,8%), Siria (16,2%) e Bangladesh (5,8%), e vivono ora in Austria (24,0%), Germania (13,9%), Bulgaria (13,6%), ecc. L’Italia, con 1.495 minori non accompagnati richiedenti asilo si colloca solo al settimo posto, preceduta anche da Grecia, Belgio e Romania.
Nel 2021, i Paesi dell’Ue hanno adottato 524.470 decisioni di primo grado, di cui il 38,5% positive: 112.660 con riconoscimento dello status di rifugiato, 61.385 protezione sussidiaria e 27.845 status umanitario. Quasi i due terzi delle decisioni positive riguardano tre soli Paesi: Germania (29,6%), Francia (16,8%) e Italia (10,8%). Il primo gruppo nazionale per numero di decisioni positive sono i siriani (61.390), seguiti da afghani (35.905) e venezuelani (14.285). Tassi di riconoscimento tra il 70 e l’80% si registrano nel caso di richiedenti in fuga da Siria, Afghanistan, Venezuela, Bielorussia, Eritrea, Yemen, ecc. Alle decisioni di primo grado si aggiungono 207.820 decisioni finali, cioè a seguito di ricorso, di cui il 34,8% positive: 26.440 con riconoscimento dello status di rifugiato, 26.510 status umanitario e 19.310 protezione sussidiaria. Complessivamente, nel 2021, i Paesi dell’Ue hanno perciò concesso protezione a circa 274.145 persone.
La mancanza di sistematicità nella raccolta dei dati sull’inserimento sociale dei migranti forzati e l’indisponibilità di indicatori appropriati inficiano le possibilità di monitoraggio delle tendenze in corso e lasciano intravedere l’assenza di una visione di insieme.
Le debolezze intrinseche del sistema europeo
In assenza di vie di accesso regolare dedicate ai richiedenti asilo, i profughi sono costretti a ricorrere agli attraversamenti irregolari delle frontiere offerti dai trafficanti di esseri umani. L’analisi dei dati statistici raccolti da Frontex [17] sul numero degli attraversamenti irregolari rintracciati dalle autorità di frontiera degli Stati membri (che non necessariamente corrispondono al numero delle persone coinvolte, poiché la stessa persona può essere responsabile di attraversamenti plurimi) prende come punto di riferimento l’anno 2015, quello della cosiddetta “crisi migratoria europea”, quando gli attraversamenti irregolari delle frontiere Ue sono stati 1.822.102, livello record a cui hanno corrisposto 1.283.075 richiedenti asilo. Da lì ha fatto seguito una progressiva normalizzazione dei flussi, anche se con andamenti differenziati e improvvise riacutizzazioni a seconda delle rotte. Tra il 2015 e il 2020, per effetto dell’intesa Ue-Turchia del marzo 2016 [18], il traffico lungo la rotta marittima del Mediterraneo orientale è diminuito di oltre 80 volte e di quasi 30 volte quello relativo ai Balcani occidentali; mentre un contenimento di 4 volte è stato favorito nel Mediterraneo centrale dallo spregiudicato memorandum italo-libico del febbraio 2017 [19].
Nel 2021, si sono registrati 199.898 attraversamenti complessivi e per oltre l’80% dei casi hanno riguardato l’area mediterranea e i Balcani occidentali. La rotta principale è tornata a essere il Mediterraneo centrale, insieme a quella dei Balcani occidentali. Con 22.351 attraversamenti rintracciati, la rotta dell’Africa occidentale ha confermato l’exploit del 2020 (23.029 attraversamenti). Quote intorno a 20mila attraversamenti si sono infine registrate sia nell’ambito della rotta del Mediterraneo occidentale che in quella del Mediterraneo orientale. La Siria si conferma il primo Paese di origine (46.395, soprattutto lungo le rotte dei Balcani occidentali e del Mediterraneo orientale), seguita da Afghanistan, Tunisia e Marocco.
Nei primi sei mesi del 2022, i 120.464 attraversamenti irregolari rintracciati hanno lasciato prefigurare per la stagione estiva un’ulteriore ripresa dei flussi, concentrata soprattutto lungo le rotte dei Balcani occidentali e nel Mediterraneo orientale, che già a metà anno contavano numeri prossimi a quelli registrati nell’intero 2021. Per chi, invece, riesce a raggiungere l’Unione Europea e a presentare la richiesta di asilo, l’analisi dei dati Eurostat sopra commentati mostra diverse debolezze operative che minano strutturalmente il funzionamento del sistema europeo, che appare ingolfato da:
a) l’accumulo esagerato di pratiche in arretrato, fenomeno strettamente collegato all’eccessiva durata dell’esame delle domande di asilo, aggravatasi nell’ultimo biennio in diversi Stati membri a causa delle restrizioni anti-Covid-19 (secondo l’Agenzia Ue per l’Asilo circa la metà delle domande in primo grado pendenti alla fine dell’anno sarebbero state presentate da più di sei mesi);
b) la disparità dei tassi di riconoscimento, estremamente variabili tra i singoli Paesi dell’Ue (si va dall’8,6% della Slovenia al 84,6% dell’Irlanda), come anche rispetto a singole collettività (per esempio, nel 2021, il tasso di riconoscimento dei cittadini afghani in primo grado variava dal 9% della Bulgaria al 100% di Spagna e Portogallo);
c) il peso sproporzionato assunto dai ricorsi (207.820, di cui il 34,8% con esito positivo), aspetto che lascia intravedere un sistema di valutazione incapace in primo grado di valutare efficacemente le domande di asilo e destinato a rimanere congestionato dalla mole dei ricorsi;
d) il numero enorme di richieste di trasferimento Dublino (126mila il dato Eurostat provvisorio al 2021) che danno luogo a procedure lente e complesse, aggravate dalla mole delle richieste (1 ogni 5 richiedenti). Il regolamento di Dublino è per questo divenuto un dispositivo che di fatto paralizza il sistema e dove l’onere della protezione viene rimpallato da uno Stato membro all’altro;
e) l’esame dei 510.696 set biometrici riguardanti i richiedenti asilo depositati nel 2021 presso la banca dati Eurodac, che mostra come 315.217 tra di essi avessero già presentato una domanda negli ultimi 10 anni (61,7%) e 93.284 fossero stati già respinti alle frontiere negli ultimi 18 mesi (18,3%)[20].
Tra la chimera di una solidarietà intra-Ue e le spinte verso l’esternalizzazione
Già in occasione della cosiddetta “crisi europea dei rifugiati” del 2015, il Sistema Europeo Comune di Asilo (Ceas) [21], volto a stabilire politiche e regole uniformi da osservare da parte di tutti gli Stati membri, è apparso insufficiente per far fronte all’arrivo improvviso di oltre un milione di richiedenti asilo provenienti principalmente dalla Siria. Come risposta, l’Unione ha adottato due diverse linee d’azione. Da un lato, prevenire gli arrivi di richiedenti asilo nell’Ue attraverso accordi multilaterali o bilaterali con i Paesi di transito o di primo rifugio come la Turchia (marzo 2016) o la Libia (febbraio 2017). Dall’altro, riformare sostanzialmente il Ceas attraverso nuovi provvedimenti legislativi.
Dopo diversi anni di annunci e rinvii, la Commissione Europea ha pubblicato il 23 settembre 2020 il Nuovo Patto su Migrazione e Asilo [22], un documento inteso a riunire tutti gli aspetti della migrazione: gestione e controllo delle frontiere, asilo e integrazione, rimpatrio e relazioni con partner esterni. Il Nuovo Patto si basa in parte sulle sette proposte legislative della Commissione del 2016. Su cinque di queste proposte era già stato raggiunto un accordo politico, in particolare per quanto riguarda i regolamenti sui titoli di protezione internazionale; il potenziamento dell’Agenzia europea di sostegno per l’asilo (Easo) ad Agenzia dell’Ue per l’Asilo; la revisione del sistema Eurodac per l’istituzione di una banca-dati delle impronte digitali dei richiedenti asilo; un accordo-quadro per il reinsediamento e l’ammissione umanitaria dei rifugiati; e, non ultimo, la riforma della direttiva sull’accoglienza dei richiedenti asilo. Tuttavia, a livello di policy-making, l’intero processo di riforma del Ceas si è ancora una volta bloccato su due questioni sostanziali: le proposte di regolamento sulle procedure di asilo e sulla “solidarietà e condivisione degli oneri”.
In linea generale, però, le soluzioni proposte dal Nuovo Patto Immigrazione e Asilo di settembre 2020 per superare le debolezze del sistema hanno suscitato perplessità molto serie, evitando di affrontare la questione principale, cioè l’ampliamento dei canali di migrazione legale. Da una parte si punta sulla solidarietà intra-europea, minata però dall’indisponibilità ad accantonare il regolamento Dublino [23], tanto inefficiente in generale quanto penalizzante per i Paesi di frontiera, e dalla mancata compensazione che sarebbe dovuta provenire dai fallimentari piani di relocation [24]. Secondo la proposta, la ricollocazione dei richiedenti asilo dal primo Paese di arrivo in altri Stati membri dovrà essere non obbligatoria, se non come ultima ratio e attraverso un meccanismo estremamente complicato che si attiva in situazioni di pressione straordinaria su un determinato Paese; inoltre questa rappresenta solo una delle possibili opzioni di condivisione delle responsabilità. Un’altra opzione è la “sponsorizzazione per il rimpatrio”, con cui uno Stato membro diverso da quello di primo arrivo sostiene il rimpatrio dei richiedenti respinti nei Paesi di origine. Non sorprende quindi l’opposizione degli “Stati in prima linea”, come il gruppo Med-5 composto da Cipro, Grecia, Malta, Italia e Spagna, che invece rivendicano un meccanismo di redistribuzione dei richiedenti asilo pro quota come misura concreta di solidarietà.
Dall’altra parte si colloca la politica di rafforzamento delle frontiere e di esternalizzazione, rilanciata dallo stesso Nuovo Patto nella veste di una rinnovata strategia di solidarietà con i Paesi terzi. Questa viene realizzata attraverso accordi bilaterali o multilaterali con i Paesi terzi che, a fronte di determinate condizionalità generalmente di carattere economico, sono obbligati a farsi carico dello screening dei cittadini di Paesi terzi richiedenti asilo alle frontiere esterne, della loro accoglienza e gestione, permettendo così ai Paesi europei di eludere il dovere di osservanza della normativa internazionale sull’asilo (primo fra tutti il principio di non-refoulement stabilito nell’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951).
Paradigmatico è il caso dell’esternalizzazione delle frontiere italiane in Libia che, a seguito della citata “crisi migratoria” del 2015 e del successivo memorandum italo-libico, ha permesso la creazione di centri di detenzione e di una guardia costiera, gestiti entrambi dal governo di accordo nazionale guidato da Al-Sarraj. Nonostante le prove schiaccianti di torture e sfruttamento di migranti e rifugiati, condizioni definite dalla missione indipendente del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite dell’ottobre 2021 come “crimini di guerra e crimini contro l’umanità” [25], negli ultimi anni l’Italia e l’Ue hanno continuato a finanziare le forze libiche per intercettare le barche dei migranti: solo nell’anno passato, 32.450 persone sono state intercettate in mare e riportate alla detenzione arbitraria e agli abusi in Libia.
Il susseguirsi di crisi umanitarie di portata mondiale nel 2021 e nel primo semestre 2022 non lascia presagire cambiamenti di rotta. Il ritorno dell’Afghanistan sotto il regime dei talebani nell’agosto 2021 ha dapprima impegnato gli Stati membri nell’evacuazione di 22mila afghani e alcune migliaia di cittadini europei; ma subito dopo li ha visti coesi a impedire violentemente l’ingresso a quei profughi afghani, siriani e iracheni che avevano raggiunto il confine tra la Bielorussia e l’Ue (pesanti violazioni dei diritti dei migranti sono state documentate in Polonia, Lituania e Lettonia).
Ultimo episodio è l’esodo in massa di profughi ucraini a seguito dell’invasione russa del 24 febbraio 2022 (secondo le stime di Unhcr, 1 milione di profughi già dopo la prima settimana e circa 7 milioni alla fine di agosto 2022 [26], rispetto al quale gli Stati membri si sono invece prodigati ad aprire le porte di casa, approvando il 4 marzo 2022 [27] – all’unanimità e per la prima volta – l’attivazione della Direttiva 55/2001 sulla protezione temporanea [28]. Anche in questo caso, però, la limitazione dei benefici ai soli residenti permanenti ha di fatto escluso (e bloccato in Ucraina) una parte consistente dei circa 5 milioni di stranieri presenti nel Paese (lavoratori, studenti, richiedenti asilo e altre categorie di migranti a breve termine), istituzionalizzando una divisione tra profughi di “serie A” e profughi di “serie B”, di fatto eseguita alla frontiera su criteri prettamente discriminatori. La possibilità, inoltre, per i beneficiari di protezione temporanea di circolare all’interno dell’Ue e di godere dell’assistenza dei Paesi membri in cui sceglieranno di vivere, offre agli Stati membri confinanti (Polonia, Ungheria, Slovacchia e Romania) un’inedita opportunità di esimersi dagli obblighi di accoglienza previsti dal regolamento Dublino in quanto Paesi di primo approdo.
Conclusioni
Il “sistema Dublino” e il rifiuto di intraprendere un vero approccio europeo, ovvero un’equa distribuzione dei richiedenti asilo, riflette gli egoismi individuali degli Stati, il che è dannoso per i veri interessi dei rifugiati e per lo stesso futuro dell’Unione. Tuttavia il problema a monte è la completa chiusura ai rifugiati delle vie di accesso regolare, che ha come inevitabile conseguenza quella di costringerli a fare affidamento su reti criminali di smuggler note per le loro pratiche di sfruttamento. Il linguaggio anodino della “deterrenza”, che viene utilizzato per giustificare i regimi di polizia di frontiera, maschera la realtà inquietante che questi regimi sono progettati per infliggere il maggior danno possibile a chiunque li sfidi. Di conseguenza, centinaia di migliaia di persone muoiono durante il viaggio o nel tentativo di entrare nelle democrazie liberali o languono in condizioni spaventose nei campi di detenzione gestiti e/o finanziati da esse.
Contestualmente si è sviluppata una vera e propria industria della frontiera, con le compagnie del border industry complex che del processo di militarizzazione diventano parte attiva, influenzando i provvedimenti governativi da cui poi traggono profitti miliardari. Dietro la crescente ostilità delle istituzioni statali nei confronti dei rifugiati sembra palesarsi la stessa crisi dello Stato-nazione, per il quale la normalità si fonda proprio sull’appartenenza a uno Stato attraverso la cittadinanza. Il rifugiato – in quanto persona perseguitata dallo Stato (anche se straniero) – viene inevitabilmente identificato come un elemento portatore di diritti soggettivi che contraddice la sovranità dello Stato-nazione. Da qui l’implementazione di misure sempre più restrittive, anche in contraddizione con il combinato disposto delle diverse Convenzioni internazionali sottoscritte in merito alla protezione dei diritti umani. Un approccio che, tra l’altro, si è ulteriormente accentuato dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001.
Eppure, delle politiche diverse sarebbero possibili e a dimostrarlo, ancora una volta, è proprio la società civile che, mentre l’Europa va abdicando ai suoi principi fondanti, ha continuato a sperimentare e proporre strade alternative e decisamente più efficaci, per ora realizzate a titolo volontario e per lo più gratuito, come i corridoi umanitari e l’accoglienza in famiglia. Si spiega così l’impegno profuso lungo i confini più esposti a rischi, sia per mare che per terra: per mare con le navi umanitarie, per terra con gli aiuti portati nelle zone di frontiera (Polonia, Brennero, Val di Susa, Bosnia, Croazia, Ungheria, Grecia, e ovunque ve ne sia bisogno).
Dialoghi Mediterranei, n. 59, gennaio 2023
Note
[1]https://treaties.un.org/pages/ViewDetailsII.aspx?src=TREATY&mtdsg_no=V-2&chapter=5&Temp=mtdsg2&clang=_en.
[2] https://treaties.un.org/pages/ViewDetails.aspx?src=IND&mtdsg_no=V-5&chapter=5.
[3] L. Schuster, “Dublino II ed Eurodac: esame delle conseguenze (in)attese”, in Mondi Migranti, 3 (3), 2009: 37-56.
[4] B. Coccia, A. Ricci (a cura di), Ospiti indesiderati. Il diritto d’asilo a 70 anni dalla Convenzione Onu sui rifugiati/ Undesired Guests. The Right of Asylum 70 years after the UN Refugee Convention, IDOS, Roma, 2022.
[5] Ecp, Alert 2022! Report on conflicts, human rights and peacebuilding, Universitat Autònoma de Barcelona, 2022.
[6] Nei primi mesi del 2022, 11,8 milioni di persone sono state forzate a lasciare le proprie case, soprattutto a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina avvenuta il 24 febbraio 2022, ma anche del deterioramento della situazione dei Rohingya in Myanmar e delle violenze interne al Burkina Faso. https://www.onuitalia.com/2022/05/23/unhcr-15/.
[7]https://treaties.un.org/pages/ViewDetailsII.aspx?src=TREATY&mtdsg_no=V-2&chapter=5&Temp=mtdsg2&clang=_en.
[8] https://www.unhcr.org/excom/exconc/3ae68c6e4/determination-refugee-status.html.
[9]https://www.unhcr.org/about-us/background/45dc1a682/oau-convention-governing-specific-aspects-refugee-problems-africa-adopted.html.
[10]https://www.unhcr.org/about-us/background/45dc19084/cartagena-declaration-refugees-adopted-colloquium-international-protection.html.
[11] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/en/TXT/?uri=CELEX%3A32004L0083.
[12] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/HTML/?uri=CELEX:32011L0095.
[13] https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2020/10/21/20G00154/sg.
[14] https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2020/12/19/20G00195/sg.
[15] Unhcr’s Refugee Population Statistics Database (update: 16 June 2022).
[16] https://ec.europa.eu/eurostat/data/database.
[17] https://frontex.europa.eu/we-know/migratory-map/.
[18] https://www.consilium.europa.eu/en/press/press-releases/2016/03/18/eu-turkey-statement/.
[19] https://www.governo.it/sites/governo.it/files/Libia.pdf.
[20] Eu-Lisa, Eurodac. 2021 Statistics, June 2022.
[21]https://home-affairs.ec.europa.eu/policies/migration-and-asylum/common-european-asylum-system_en.
[22]https://ec.europa.eu/info/strategy/priorities-2019-2024/promoting-our-european-way-life/new-pact-migration-and-asylum_en.
[23] Sistema di fatto invariato nella proposta di “Regolamento sulla gestione dell’asilo e della migrazione” Ramm.
[24] Si vedano al riguardo le sentenze del 2017 della Corte di Giustizia n. 715, 718 e 719 contro i Paesi inadempienti.
[25]https://view.officeapps.live.com/op/view.aspx?src=https%3A%2F%2Fwww.ohchr.org%2Fsites%2Fdefault%2Ffiles%2F2021-11%2FA-HRC-48-83-AEV-EN.docx&wdOrigin=BROWSELINK.
[26] https://data.unhcr.org/en/situations/ukraine.
[27]https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=uriserv%3AOJ.L_.2022.071.01.0001.01.ENG&toc=OJ%3AL%3A2022%3A071%3ATOC.
[28] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX:32001L0055.
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Benedetto Coccia, primo ricercatore dell’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” presso il quale è Coordinatore scientifico dell’Area Sociale, Umanistica e Linguistica, ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Storia Contemporanea presso l’Università “Sapienza” di Roma, è autore di numerosi saggi, articoli e recensioni. È presidente dell’Associazione di stuti umanistici Leusso e direttore responsabile della rivista Leussein.
Antonio Ricci, dottore di ricerca in Storia d’Europa all’Università “Sapienza” di Roma. Vicepresidente e ricercatore senior presso il Centro Studi e Ricerche IDOS, ha co-curato la realizzazione di importanti ricerche sul tema dell’asilo, come il Dossier Statistico Immigrazione (edizioni 2000-2022), Ospiti indesiderati. Il diritto d’asilo a 70 anni dalla Convenzione di Ginevra (2022), Sponsoring integration. Impact Assessment of the primary achievements of the Humanitarian Corridors Program in Italy and France (2020), Unaccompanied minors. Assisted return. International protection (2010), Diritti Rifugiati in Europa. Politiche e prassi di integrazione (2005).
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