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Dispositivi ed eccezioni nel processo migratorio. La storia di Odette

piazzetta Sette fate, ottobre 2009 di  Daria Settineri

In questo articolo, tramite la narrazione degli eventi di un periodo della vita di Odette, una donna ivoriana che conobbi a Palermo nel 2009, intendo sottolineare due aspetti che mi sembrano rilevanti. Il primo riguarda il modo in cui i dispositivi di sicurezza e di controllo sociale messi in atto di volta in volta dallo Stato nei confronti delle persone migranti si esprimono in riorganizzazioni delle traiettorie di vita di molti esseri umani. Il secondo concerne il fatto che la difficoltà ad accedere sostanzialmente, e non solo formalmente, a un corpo di norme limita la poiesi umana. In particolare, nel caso di Odette, questi due aspetti si concretizzano in due conseguenze fondamentali: una concerne la decisione di cambiare luogo in cui abitare, con tutti gli effetti che ciò comporta in termini di percezione del sé nello spazio e di riorganizzazione delle proprie reti; la seconda riguarda la sua sensazione di aver subìto un’ingiustizia nel momento in cui non è riuscita a tradurre, in un universo di significato per lei accessibile, il motivo per cui il suo ristorante era stato dichiarato non a norma.

Odette ha un grande spirito imprenditoriale e una forte volontà di riuscire a affermarsi con il suo lavoro, ma l’incapacità che talvolta ha avuto nell’incorporare correttamente le norme, giuridiche e sociali, da un contesto a un altro ha comportato per lei grave dispendio di energia e perdita di capitali. C’è da dire, però, che tale incapacità non è tanto riconducibile al fatto che Odette sia una migrante quanto al fatto che la sua esperienza della normatività è passata attraverso le esperienze vissute a Ballarò (mercato popolare sito nel più ampio quartiere dell’Albergheria, nella prima delle quattro circoscrizioni in cui è diviso il centro storico di Palermo), un luogo in cui la frattura fra accessibilità formale e sostanziale al diritto è un’impasse con cui molti gruppi sociali fanno i conti giornalmente. Inoltre, quelle reti di solidarietà  dell’associazionismo che erano riuscite a trovare per lei un impiego come badante, nel momento in cui Odette ha scelto per se stessa una strada che non corrispondeva all’offerta lavorativa proposta, non sono state in grado di aiutarla a districarsi all’interno dell’iter burocratico che le avrebbe garantito la regolarità dei permessi e, probabilmente, la sua realizzazione come imprenditrice.

 

Nel 2009, quando la conobbi, Odette aveva trentasette anni di cui gli ultimi otto vissuti in Italia. Era stata prima a Brescia, dove aveva vissuto con il marito e tre figli, due nati proprio negli anni della sua permanenza nella città lombarda. Era madre anche di altri due figli che, però, vivevano in Ghana con la nonna materna che è risposata a un uomo ghanese. Il marito è un uomo violento ma, dopo aver perso il lavoro, questo tratto del suo carattere si era talmente esasperato da aver indotto Odette a separarsene. I primi mesi successivi alla fine del suo matrimonio, Odette aveva vissuto con un’amica con cui condivideva le spese della casa e la gestione dei figli. Quando, però, seppe che non le avrebbero rinnovato il contratto nella fabbrica in cui lavorava, accompagnati i figli in Ghana dalla madre, al ritorno in Italia, temendo di non  riuscire a rinnovare il permesso di soggiorno, si trasferì a Palermo dove sapeva che avrebbe avuto più facilità a vivere senza i documenti in regola. Nel capoluogo siciliano, come in tante altre zone dell’Isola, infatti, ci sono spazi che, per una molteplicità di motivi legati alle zone d’ombra create dalla convivenza tra Stato e mafia (intesa come modello di criminalità organizzata), garantiscono più che altrove la permanenza dei migranti privi di permesso di soggiorno.

A Palermo Odette trovò subito un lavoro che le diede la possibilità di rinnovare il permesso di soggiorno e, successivamente, nel 2011, con lo scoppio della guerra in Costa d’Avorio, di convertirlo in permesso di soggiorno per protezione umanitaria temporanea. L’affermazione personale tramite il lavoro, lo si evince dalla sua storia, è sempre stata una priorità di Odette che ha mostrato anche grandi capacità imprenditoriali. Dal suo arrivo a Palermo al 2011, infatti, aveva lavorato come badante tutta la settimana mentre il sabato dalle quindici e trenta alle ventitre e la domenica dalle nove alle ventitre, essendo libera, si era dedicata alla gestione di un punto di ristorazione a Ballarò,  prima in piazzetta Sette Fate, poi in via Casa Professa. A piazzetta Sette Fate, adiacente a piazza Santa Chiara dove si trova l’omonima struttura centro di incontro di tutti i migranti palermitani, Odette aveva installato un grande fornello da campeggio alimentato da una bombola e due barbecue. Si era attrezzata con bacinelle e bidoni dell’acqua, stoviglie di plastica, rotoloni di carta; aveva anche organizzato un paio di tavoli con qualche sedia. Con un investimento minimo aveva organizzato un ristorante all’aperto in un luogo, peraltro, in cui fino a qualche tempo prima vi era stato anche un locale che era un importante punto di riferimento per gli immigrati, soprattutto ivoriani. Poiché nessun ivoriano, in quel periodo, era nelle condizioni di potersi dedicare esclusivamente alle gestione di un locale o era in grado di investire abbastanza da riuscire a farle concorrenza,  Odette da questa attività potè ricavare un discreto introito. La posizione, però, pur avvantaggiandosi della presenza della struttura di Santa Chiara e delle persone che richiama, nonché dell’utenza del precedente locale, non poteva competere con gli esercizi gravitanti attorno alla piazza di Ballarò; inoltre, aveva lo svantaggio di rivolgersi a un preciso target etnicamente connotato ed era destinata a esaurirsi con la fine della bella stagione.

Odette meditava, perciò, sulla possibilità di abbandonare il suo lavoro di badante, che, pur vincolato alla durata della vita della persona che assisteva le garantiva nel frattempo uno stipendio sicuro, e progettava di dedicarsi esclusivamente alla gestione di un locale. Soprattutto, aspirava ad avere un locale il cui target potesse essere il più ampio possibile e, per questo, sapeva di aver bisogno di risparmiare una certa somma da investire. Un magazzino che si trova nella medesima piazza, affittato in comune con altri ivoriani, le permetteva di tenere un frigorifero dove poteva refrigerare le bevande e i cibi e di conservare tutta la sua attrezzatura alla fine della giornata. Quando, con l’arrivo dell’autunno, decise di trasferirsi in via Casa Professa, pagava un canone mensile di quattrocento euro a un ivoriano che aveva affittato il locale (una stanza di 20 mq.circa) per allestire un bar e in cui, nel fine settimana, si poteva anche ballare. In quel periodo Odette cucinava dentro il magazzino di piazza Sette Fate e poi, caricate tutte le pietanze su un carrello per la spesa del supermercato, si trasferiva nel locale per la vendita.

Messo da parte un po’ di denaro, però, Odette tentò di aprire un proprio locale, in via Chiappara al Carmine, e per questo, alla vigilia dell’inaugurazione, nel maggio 2011, abbandonò il suo lavoro di badante. D’altronde i rapporti con i figli degli anziani di cui si occupava erano molto tesi, perché lamentavano il fatto che Odette usasse la casa dei loro genitori come deposito per la merce che raccoglieva e comprava e che, stipata in grossi sacchi neri della spazzatura o in scatoloni di cartone, periodicamente inviava in Ghana alla madre grazie a container  ciclicamente affittati da gruppi di persone per spedire merce nei Paesi d’origine. Odette conosceva tutte le offerte dei centri commerciali e, quando un prodotto era particolarmente vantaggioso, lo acquistava in serie per poi farlo rivendere alla madre. Il locale in via Chiappara al Carmine consisteva di un vano stretto e lungo che per un periodo era stato gestito, per la vendita di prodotti alimentari africani e per la ristorazione, da una coppia di ghanesi, Dana e Bismark, che avevano deciso di trasferirsi in una sede più grande, con una cucina e uno spazio per i tavolini, a piazza del Carmine e di dedicarsi esclusivamente alla ristorazione.

Odette investì molte energie per curare l’inaugurazione del suo locale preparando inviti, acquistando un gran numero di alcolici e cucinando molte pietanze. Il costo dell’affitto, la scarsa ampiezza dello spazio interno e la posizione decentrata rispetto alla piazza principale di Ballarò, però, non determinarono mai un flusso tale da generare guadagni e nemmeno da recuperare totalmente l’investimento iniziale. Decise, dunque, con uno sforzo economico molto grande (si fece anche prestare dei soldi) di trasferirsi in un posto ubicato in un cortile da cui si accede da via Casa Professa. L’ambiente era decisamente più grande e, inoltre, c’era anche la corte esterna da poter utilizzare. In effetti, da quando, aveva cambiato luogo, gli affari cominciavano di nuovo ad andare bene; inoltre, in estate lo spazio esterno attraeva molte persone, alcune delle quali organizzarono là feste di battesimo e di matrimonio.

Dopo aver quasi terminato di pagare i debiti, quando finalmente stava per guadagnare, un intervento dei Nas che, ovviamente, trovarono tutto fuori norma, decretò la chiusura della sua attività apponendo i sigilli al locale dal quale Odette non riuscì a recuperare neanche quanto vi aveva conservato. Tutte le volte che ne abbiamo parlato, lei mi ha sempre sottolineato il sentimento di frustrazione che derivava dalla chiusura del suo ristorante e la sensazione di aver subìto una profonda ingiustizia perché l’accusa di assenza delle norme igieniche secondo lei era infondata, in quanto nessuno dei clienti aveva mai lamentato di aver mangiato male o di aver avuto un’indigestione. Nello stesso periodo, inoltre, Odette aveva anche cambiato casa e il vecchio proprietario, con cui non aveva stipulato nessun contratto, non intendeva restituirle i mesi che aveva pagato come caparra. Costretta, per le ristrettezze economiche, a lasciare anche la nuova casa in cui si era trasferita, decise di andare a convivere con il nuovo fidanzato, separato da poco, da cui, però, fu lasciata dopo qualche mese perché l’uomo decise di riconciliarsi con la moglie. A quel punto Odette ripiegò per andare a vivere con la sorella nel catoio dove questa abitava, ma poiché i rapporti con la sorella erano abbastanza tesi, decise di ritrasferirsi a Brescia per cercare un nuovo lavoro. Dopo un mese, però, non trovando nulla, tornò a Palermo, sempre ospite della sorella, e iniziò nuovamente a cucinare montando la sua cucina fuori dal locale ivoriano di via Casa Professa.

Il fatto di essere tornata a cucinare per strada era vissuto da Odette come una sconfitta e, perciò, quando le fu offerta la possibilità di tornare a fare la badante, decise di accettare e smise di cucinare, anche solo nel fine settimana. Essendo libera, la domenica iniziò a far parte del coro della chiesa di cui è membro, convinta di trovare nel canto il conforto che la vita da troppo tempo le stava negando. Il fallimento dei suoi obiettivi lavorativi, dunque, hanno rappresentato per lei il fallimento di un preciso progetto di vita che aveva compreso sia la scelta di migrare sia quella di separarsi dal marito, sia, infine, quella di affidare tutti i figli alla madre per avere più tempo da dedicare ai suoi progetti lavorativi. Per Odette la separazione dal marito e la rottura con il fidanzato sono sempre stati considerati episodi marginali, per i quali non era opportuno investire troppe energie; ha sempre dedicato, invece, una grande attenzione a tessere relazioni amicali profonde e l’idea di staccarsi prima dalle sue reti bresciane, poi, per il mese di lontananza, da quelle palermitane le ha reso, in entrambi i casi, difficile la scelta di partire.

Il discorso pubblico, quando parla di migrazione, si concentra sugli apparati normativi che, non tenendo conto della pluralità e della complessità del fenomeno da calmierare, mortificano gli esseri umani riducendoli a mere presenze da controllare, o attua un processo di riconoscimento di un’ipotetica identità del migrante (che diviene «identico» a tutti gli altri immigrati) culturalizzando la differenza  e tracciando una spaccatura (non solo simbolica) tra immigrati e non immigrati. Demonizzato o vittimizzato, dunque, l’essere umano deterritorializzato vive una sorta di riduzione a unica entità (“il migrante”) che non tiene conto della sua singolarità e della sua pluralità in quanto essere umano. Stretto nella morsa di questa rappresentazione aprioristica, ogni qualvolta si svincola con atti non riconducibili all’una o all’altra rappresentazione, mette in crisi un sistema. In realtà il migrante, in quanto essere umano, vive appieno la comune dimensione incoerente e molteplice del sé, non tenendo conto delle costruzioni che gli sono attribuite attorno; queste, d’altro canto, pur essendo costruzioni, vengono agite come vere e, dunque, hanno conseguenze sul piano sociale. Concentrandosi, invece, sulle storie di vita, ci si rende conto quanto il tentativo di reificare uno status costruito aprioristicamente sia dovuto a precise strategie politiche e sociali e non tenga conto della soggettività del migrante.

Odette è stata lasciata sola nel momento in cui ha scelto per sé stessa una strada che non corrispondeva all’offerta lavorativa proposta dalle associazioni. Concretamente, invece, la si sarebbe potuta guidare nel complesso mondo della burocrazia e delle norme riguardanti la ristorazione, così come la si sarebbe potuta sostenere aiutandola a pretendere un contratto d’affitto registrato che la garantisse. Una compartecipazione di questo tipo, con molta plausibilità, avrebbe assicurato a Odette la possibilità di riuscire nel suo progetto lavorativo e, nel contempo, avrebbe iniziato a scardinare un sistema per cui tutti gli eventi riguardanti alcune zone della città o sono palesemente e teatralmente in opposizione a cosmologie criminali o sono conniventi, nella certezza che le forze dell’ordine, per un gioco di equilibrio fra poteri, eccezionalmente intervengono in determinati territori. La vicenda di Odette ha rappresentato una di quelle eccezioni.

Dialoghi Mediterranei, n.4, novembre 2013
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