Papa Bergoglio non poteva prevedere che la Roma, nella quale converranno masse di fedeli per il Giubileo della misericordia da lui convocato, sarebbe stata una città quasi certamente privata del suo governo cittadino democraticamente eletto. Potrebbe non essere grave, perché ordine pubblico e viabilità saranno gestiti, forse meglio, da un rappresentante diretto del governo centrale, ma lo diventerà perché sarà coinvolta in una campagna elettorale prevista molto conflittuale.
Le dimissioni del Sindaco, a tutt’oggi non ritirate, sono state imposte proprio dal governo che ha assecondato, di fatto, settori del sistema istituzionale ed economico danneggiati dalla sua azione nella loro consolidata gestione parassitaria del potere. Anche gli ambienti malavitosi romani, mafia e non, dopo la sua elezione sono stati chiamati, per la prima volta, a rispondere in tribunale dei loro “affari”. Perfino per il partito democratico è stato necessario un commissariamento per spezzare negligenze e/o compromissioni con l’uno e l’altro dei due ambienti politico-sociali emerse in seguito alle sue iniziative.
All’indomani delle sue dimissioni forzate mentre dal mondo è arrivata per Ignazio Marino la solidarietà di alcuni colleghi di altre grandi città, in Italia, nonostante l’appello di parecchi romani a non mollare, sono stati in molti a rallegrarsene. Fra questi anche il cardinale vicario di Roma e i clericali organizzati, che da tempo per motivi diversi, nobili o inconfessabili, si erano impegnati contro di lui: prima, per impedirne la candidatura e, poi, nell’osteggiarne la gestione. Emblematico il comunicato della Cei nell’ottobre scorso che ha duramente condannato la trascrizione di sedici coppie omosessuali operata dal sindaco Ignazio Marino, bollandola come «arbitraria presunzione, messa in scena proprio a Roma», per di più proprio mentre si concludeva la precedente sessione del Sinodo. «Scelta ideologica, che certifica un affronto istituzionale senza precedenti» ha sentenziato il Vicariato di Roma!
Confermano questa ostilità la soddisfazione, con cui le gerarchie ecclesiastiche (Cei e Vicariato di Roma, più che Vaticano) e l’associazionismo cattolico romano hanno accolto la notizia delle sue dimissioni, e il loro coinvolgimento nella guerra degli scontrini, mossa dai 5Stelle e dalla destra capitolina contro Marino, elogiando la scelta di Renzi di utilizzarla per saldare i conti con lui e imporne l’allontanamento. In questa prospettiva va interpretata la tempestività con cui la Comunità di Sant’Egidio ha smentito che suoi rappresentanti abbiano partecipato ad una delle cene contestate al Sindaco, come lui aveva invece dichiarato. Una Lettera alla città, elaborata dal Consiglio pastorale perché Roma in vista del Giubileo sia «stimolata a rinascere, ad avere una scossa», è stata, per l’occasione, tempestivamente divulgata dal cardinale vicario Agostino Vallini e trasformata in una sorta di “manifesto” elettorale, quasi ad auspicare prossime elezioni, perché si possa «ripartire dalle molte risorse religiose e civili presenti a Roma», in vista anche della «formazione di una nuova classe dirigente nella politica».
Estranea a questo coinvolgimento resta, invece, la pur contestuale risposta di papa Francesco alla domanda di un giornalista in conferenza stampa sull’aereo di ritorno dall’America: «io non ho invitato il sindaco Marino a Philadelphia, chiaro?». Non è solo questa la diversità fra Francesco e l’apparato ecclesiastico i cui organismi oppongono tenace resistenza al suo impegno nel condurre la difficile azione per riformare la Curia romana e per imprimere un’impronta missionaria al clero e ai laici. Il progetto di riforma e di ideazione di nuove strutture e ordinamenti, per il quale aveva costituito un Consiglio di otto Cardinali scelti fuori della Curia nei diversi continenti, non riesce, infatti, a decollare. Anche nell’impegno a valorizzare il principio della collegialità nel governo della Chiesa sta sperimentando difficoltà nello svolgimento dei lavori del Sinodo dei vescovi in corso in questi giorni. Convocato per la seconda volta da questo papa, è chiamato a proporre una pastorale adeguata ai profondi mutamenti, intervenuti nelle società occidentali, nella concezione della sessualità, dei rapporti fra i sessi e della famiglia e, di conseguenza, nella valutazione delle leggi che li regolano.
In verità, indipendentemente dal carattere, innovativo o conservatore, della proposta che emergerà dal documento conclusivo e dall’interpretazione che ne darà il papa, l’evento ha un valore epocale per l’Istituzione ecclesiastica: la gestione sinodale della Chiesa ha avuto un’ulteriore e più radicale conferma. L’Assemblea discute liberamente senza la preoccupazione di nascondere le diversità profonde che ci sono fra i vescovi e nella consapevolezza che il papa dovrà tener conto delle opinioni emerse anche se, a quanto sembra, un voto su un documento conclusivo sarà evitato.
Nella prospettiva di questo processo avviato a stabilire un diverso rapporto fra papa e vescovi può essere letto un recente episodio di indiscutibile gravità. Durante la seconda settimana dei lavori del Sinodo è stata divulgata una lettera riservata indirizzata al papa da una dozzina di cardinali, padri sinodali di rango, per contestare merito e metodo circa i lavori del Sinodo, ma in verità per disapprovare, senza appello, la direzione impressa alla Chiesa da papa Francesco. La lettera gli era stata consegnata il 5 ottobre, primo giorno del Sinodo, rivelandosi quindi frutto di un’iniziativa ben organizzata. Ad essa il pontefice ha risposto il giorno successivo nell’aula sinodale con un discorso, non previsto, in cui, per rintuzzare l’accusa di manipolare l’assemblea dei vescovi, ha denunciato il prevalere di una «ermeneutica cospirativa», che darebbe gli esiti del Sinodo già predeterminati o almeno pilotati. Al di là degli sviluppi dell’iniziativa, grave non per il fatto che dei cardinali non siano d’accordo col Papa, ma perché lo accusano di manipolare l’assemblea dei vescovi, essa rappresenta un’espressione della volontà di mettere in discussione il suo modo di intendere il primato papale, già manifestata anche in altre occasioni, di minore rilievo mediatico, in cui è emerso dissenso nei confronti della gestione del Sinodo. Della necessità di ripensare il primato e il suo esercizio ha nei giorni scorsi fatto cenno lo stesso papa, parlando al Sinodo per la celebrazione dei cinquant’anni dalla sua fondazione, ma in ben altra direzione da quella proposta dai suoi oppositori nostalgici del dirigismo dei suoi predecessori, ispirato al dogma della infallibilità sancito al Vaticano I: si è dichiarato disponibile a ridimensionarlo con affermazioni molto impegnative.
Francesco, muovendo dalla premessa che «si deve potenziare il decentramento», ha annunciato di essere pronto a «integrare e aggiornare» l’ordinamento ecclesiastico. «Non è opportuno che il pontefice sostituisca gli episcopati locali sulle questioni territoriali». Questi a loro volta devono restare «connessi col basso e partire dalla gente, dai problemi di ogni giorno». In questa Chiesa sinodale «anche l’esercizio del primato petrino potrà ricevere maggiore luce. E questa linea – sottolinea ancora Bergoglio – potrà portare frutti nel dialogo ecumenico con le comunità ortodosse». È urgente perciò una «conversione del papato» in modo che «il Papa non stia, da solo, al di sopra della Chiesa; ma dentro di essa come battezzato tra i battezzati e dentro il collegio episcopale come vescovo tra i vescovi». Anche nel Sinodo, quindi, l’impegno ad agire sub Petro e non solo cum Petro, non deve essere considerato «una limitazione della libertà, ma una garanzia dell’unità».
A questo progetto di riforma si oppongono, in realtà, i firmatari della lettera, fra i quali emergono tre ministri del Papa in quanto Prefetti di importanti Congregazioni – Gerhard Müller della Dottrina della Fede, George Pell dell’Economia e Robert Sarah del Culto – in grado di provocare un’autentica crisi nel governo centrale della Chiesa. La loro azione non solo rende più difficile per papa Francesco ottenere nel Sinodo il consenso su proposte innovative da vescovi, scelti dai suoi predecessori diversamente orientati e inamovibili prima del settantacinquesimo anno di età, ma si inserisce in una campagna di delegittimazione di Jorge Mario Bergoglio alias papa Francesco resa evidente da un altro episodio di eccezionale gravità.
Alla vigilia della conclusione del Sinodo su un giornale italiano è stata pubblicata la notizia che il papa avrebbe un tumore, seppur benigno al cervello. «È una notizia fatta uscire con cattive intenzioni, perché parlare in questo modo di qualcuno indica la precisa volontà di destabilizzarlo» – ha dichiarato un arcivescovo argentino– «cioè solo un maldestro tentativo di condizionare i lavori del Sinodo», aggiunge il cardinale Walter Kasper, che del Sinodo è stato fin dall’inizio un fervente promotore. Dopo successive e categoriche smentite del portavoce papale, padre Federico Lombardi, è intervenuto lo stesso l’Osservatore romano che, nel confermare la smentita, ha aggiunto: «Il momento scelto (il Sinodo, ndr) rivela l’intento manipolatorio del polverone sollevato», confermando il sospetto dell’esistenza di un complotto per far fallire il Sinodo. prospettandolo gestito da un papa delegittimato perché malato di mente.
Non per questo il papa abbandona il suo intento di avviare concretamente la collegialità nella gestione del potere nella Chiesa consolidando la sinodalità, pur senza rinunciare all’esercizio della sua autorità, come ha dimostrato con l’indizione di un Giubileo straordinario, strumento da sempre riconosciuto espressione del Primato. Esso potrà certo costituire un contesto favorevole a rendere accettabile l’esito del Sinodo, quale dovesse essere, alla comunità dei fedeli divisa fra il timore di gravi fratture con la Tradizione e speranza che vengano invece create delle discontinuità. Lo sperano le molte coppie di divorziati risposati che attendono di vedersi riconosciuti la pienezza della loro condizione matrimoniale e il diritto ad accostarsi alla eucarestia. Molti anche gli omosessuali: solo da poco riconosciuti “normali”, che attendono di essere “autorizzati” a vivere pienamente a loro sessualità “diversa”. L’increscioso spettacolo offerto dal prete che proprio alla vigilia del Sinodo ha messo in piazza la sua “diversità” e rivendicato il diritto alla convivenza con il suo compagno, ha rilanciato il problema, già all’odg del Sinodo, ma in forma deviante perché per un prete, anche se eterosessuale, il diritto alla convivenza è in contrasto con l’obbligo del celibato.
A rendere meno favorevole il contesto potrà contribuire, invece, la campagna elettorale prevista e nella quale, come si è detto, vicariato e associazionismo intendono non restare estranei, confermando l’impressione che per entrare in Campidoglio si debba passare dalla Porta Santa. È pur vero che Roma si può conquistare senza il Vaticano, ma non si governa senza il suo appoggio.
Dialoghi Mediterranei, n.16, novembre 2015
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Marcello Vigli, partigiano nella guerra di Resistenza, già dirigente dell’Azione Cattolica, fondatore e animatore delle Comunità cristiane di base, è autore di diversi saggi sulla laicità delle istituzioni e i rapporti tra Stato e Chiesa nonché sulla scuola pubblica e l’insegnamento della religione. La sua ultima opera s’intitola: Coltivare speranza. Una Chiesa altra per un altro mondo possibile (2009).
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