di Maurizio Ambrosini
Uno degli apporti più visibili e duraturi dell’immigrazione è il cambiamento del panorama religioso dei Paesi riceventi. Il punto è particolarmente rilevante in un Paese quasi mono-religioso come il nostro. Uno dei più visibili apporti dell’immigrazione è lo sviluppo sul territorio di un pluralismo religioso di dimensioni e caratteristiche inedite per la storia sociale italiana (Pace 2013; Ambrosini, Naso, Paravati, 2018). L’idea di un’Italia (quasi) monoreligiosa sta passando in archivio, così come quella di un confronto bilaterale limitato ai rapporti tra Stato laico e Chiesa cattolica. Nello stesso tempo, anche la tesi di una progressiva e ineluttabile secolarizzazione del Paese deve fare i conti con le novità indotte dalla fioritura di nuovi luoghi di culto e di minoranze attive che disegnano inediti paesaggi religiosi (Yang ed Ebaugh 2001). Neppure la ricerca di nuove forme di coesione sociale e di vincoli di solidarietà può prescindere dalla considerazione del contributo di minoranze religiose socialmente impegnate. Questo articolo approfondisce il tema a partire da una ricerca recentemente pubblicata (Ambrosini, Molli e Naso 2022).
Obiettivi e metodo della ricerca
La ricerca, promossa dal Centro studi Confronti di Roma, dalla Chiesa valdese-metodista e dalla Fondazione Lelio e Lisli Basso, costituisce il tentativo più ampio e organico di indagare il pluralismo religioso legato all’immigrazione in Italia e probabilmente in Europa. Pur essendo stata svolta in Lombardia, ha approfondito fenomeni che si stanno manifestando anche nelle altre regioni italiane e i suoi risultati offrono spunti significativi per una riflessione più ampia.
Il primo obiettivo del progetto è stato quello di fornire una mappa il più possibile completa, e nel contempo articolata e approfondita, delle comunità religiose minoritarie in Lombardia. L’indagine non si è però limitata alla mappatura: ha inteso approfondire sul piano conoscitivo la composizione, le dinamiche interne, le forme di leadership, le pratiche di socialità, i legami transnazionali, i servizi offerti dalle comunità religiose a base immigrata. Gli incontri con i protagonisti e le osservazioni dirette hanno consentito di sviluppare una conoscenza dei dati di realtà che arricchisce, problematizza, a volte contraddice sia le visioni dottrinali, sia gli stereotipi correnti: per esempio, per quanto riguarda il ruolo delle donne nelle comunità religiose o la chiusura settaria.
La rilevazione ha coperto anche casi di confine o di incerta collocazione, come quelli delle comunità degli immigrati cattolici, se e in quanto distinte da quelle maggioritarie, nonché le comunità protestanti a composizione mista. Non sono state incluse invece esperienze religiose minoritarie ma con un bacino di aderenti tipicamente italiano, come alcune comunità buddiste e induiste. La ricognizione ha inteso fornire alle istituzioni pubbliche, ai responsabili designati e alle persone impegnate nel dialogo interreligioso, ai ricercatori e ai cittadini interessati, un quadro esaustivo dei luoghi e delle forme di aggregazione religiosa degli immigrati in un territorio specifico, ma con più vaste implicazioni conoscitive.
La ricerca ha inoltre inteso stimolare una conoscenza maggiore e un’apertura verso queste esperienze, viste come risorse per la coesione sociale e l’incontro interculturale. Anche se non sempre, e non allo stesso modo, le comunità religiose minoritarie formano dei presidi di aggregazione e scambio sociale in contesti deprivati. Aggregano popolazioni marginali e spesso invisibili alle istituzioni pubbliche. Sviluppano servizi e pratiche di aiuto sociale che integrano il welfare pubblico. Di qui un terzo obiettivo: favorire il riconoscimento pubblico di queste comunità, integrarle nella trama dei rapporti tra istituzioni locali e società civile, coinvolgerle in iniziative di produzione di beni pubblici. In questi due ultimi difficili anni l’emergenza COVID ha dimostrato quante riserve di energie e motivazioni all’impegno sociale siano disponibili in queste esperienze.
La rilevazione è stata svolta nel 2020, in tutte le 12 province della Lombardia, prolungandosi nei primi mesi del 2021 a causa degli impedimenti e dei ritardi generati dall’emergenza COVID. Per ogni luogo di culto identificato è stata compilata una scheda di rilevazione e, laddove possibile, sono state effettuate visite in loco, colloqui con i responsabili o i ministri di culto, osservazioni non partecipanti in occasione di liturgie ed eventi comunitari. Le interviste raccolte sono state 120, hanno riguardato esponenti comunitari laici o responsabili delle attività di culto. Ad ogni intervista si è accompagnata in linea di massima una sessione di osservazione in loco. Una parte dell’indagine è stata gestita a distanza a causa dell’emergenza COVID-19. Sono state così individuate complessivamente 347 comunità religiose, così distinte per denominazione confessionale:
- 71 parrocchie ortodosse
- 127 centri islamici
- 41 chiese evangeliche a carattere etnico (su 410 intercettate)
- 85 comunità cattoliche
- 17 templi Sikh
- 6 centri buddisti
Un pluralismo che sale dal basso
La pluralizzazione religiosa sale dal basso. Nasce dal protagonismo di popolazioni immigrate con mezzi limitati, scarsa o nulla influenza politica, limitazioni giuridiche, condizione sociale marginale. Sradicate e trapiantate in nuovi contesti, pur scontando anch’esse processi di secolarizzazione, trovano nelle proprie tradizioni religiose un ancoraggio identitario, un collante sociale, una fonte di speranza e solidarietà. Il loro attivismo religioso, nel reperire spazi da destinare al culto, adattarli o talvolta edificarli ex-novo, organizzarvi attività non solo cultuali, ma anche aggregative, educative e sociali, è un segno eloquente della capacità d’iniziativa degli immigrati e dei loro sforzi per dar vita ad ambienti sociali più conformi alle loro sensibilità ed esigenze.
Questo attivismo si esplica visibilmente in ambito urbano e territoriale. Gli immigrati, quando ottengono l’appoggio delle istituzioni religiose maggioritarie, riportano a nuova vita vecchie chiese in disuso dei centri storici, rianimando settimanalmente spicchi di città pressoché desertificati e talvolta a rischio di degrado. Altre volte, soprattutto nel caso di nuove confessioni religiose, trovano nelle periferie popolari l’ambiente propizio al loro insediamento sul territorio. Vecchi magazzini, spazi commerciali, laboratori artigianali, o semplici appartamenti sono trasformati in luoghi di culto e spazi di aggregazione. Non sempre con il favore dei vicini e delle amministrazioni locali, a volte contrastati dalle norme vigenti, come nel caso della legge lombarda sull’argomento, ma in forme sempre più visibili e organizzate. Altre volte ancora sono le aree industriali e artigianali extra-urbane i contesti in cui trova sbocco la ricerca di luoghi adattabili per le necessità cultuali e d’incontro delle comunità religiose minoritarie. Qui sono i capannoni dismessi a essere riconvertiti in templi, sale di preghiera e ambienti comunitari.
La religione, infatti, non è mai soltanto religione, e questo è particolarmente vero nel caso degli immigrati. La libertà religiosa implica libertà di culto e quindi di aggregazione. Storicamente è uno dei primi diritti che gli immigrati all’estero hanno rivendicato e potuto esercitare, almeno nei contesti occidentali. Intorno ai luoghi di culto si sviluppano attività comunitarie, reti di mutuo aiuto, servizi educativi (Ambrosini, Bonizzoni, Molli, 2021a). Frequentandoli, gli immigrati incontrano connazionali, recuperano la lingua ancestrale, riattualizzano la propria identità culturale, si sforzano di trasmettere la loro eredità spirituale ai figli. Trapiantano devozioni (Roldán 2019) e sviluppano nuove pratiche religiose e sociali. Con un termine oggi di moda, le comunità religiose degli immigrati si caratterizzano come spazi di resilienza, contro i rischi dell’assimilazione e dell’anomia.
Anche per questo motivo, tuttavia, le istituzioni religiose e i luoghi di culto degli immigrati hanno incontrato una ricezione contrastata nelle società ospitanti: negli ultimi decenni soprattutto in Europa, ma nel passato anche gli Stati Uniti hanno dovuto fare i conti con campagne anti-cattoliche e anti-ebraiche che non esitavano a ricorrere alla violenza (Hirschman 2004). L’ insediamento dell’Islam è il maggiore terreno di contrasto tra società europee e alterità religiosa, già prima degli attacchi terroristici degli ultimi vent’anni. Ma anche gli evangelici africani o latino-americani subiscono divieti e discriminazioni, e neppure i sikh hanno sempre trovato porte aperte nelle società riceventi, soprattutto quando le loro tradizioni religiose entravano in tensione con i sistemi normativi vigenti.
Oggi il pluralismo religioso indotto dall’immigrazione rappresenta una pietra d’inciampo sia per le maggioranze secolarizzate e religiosamente indifferenti, sia per i sostenitori di religioni storiche svuotate di significato spirituale e riconvertite in simulacri di appartenenza culturale. Per gli uni le religioni importate dagli immigrati rappresentano un ritorno del religioso nello spazio pubblico, per gli altri un cuneo piantato nella pretesa di fare dell’omogeneità religiosa la base della cultura condivisa.
A loro volta le religioni degli immigrati vanno incontro a cambiamenti più o meno visibili stabilendosi in luoghi diversi e lontani da quelli di origine (Chafetz ed Ebaugh 2000). Nell’organizzare la propria vita religiosa all’estero, gli immigrati non si limitano infatti a riprodurre le istituzioni religiose a loro familiari, ma sviluppano processi adattivi e imitativi che ne modificano le forme organizzative e i rapporti con i partecipanti. Per esempio, l’istituzionalizzazione di appuntamenti settimanali, la nomina di ministri di culto stabili e qualificati mediante idonei percorsi formativi, l’organizzazione di forme di aiuto sociale, la condivisione delle responsabilità nella conduzione delle attività comunitarie, l’impegno nell’educazione religiosa delle nuove generazioni, sono tutte implicazioni dell’istituzione di nuovi centri religiosi in terra di immigrazione che spesso non esistevano nei luoghi di origine o erano organizzate diversamente.
Quasi necessariamente, e talvolta discostandosi dalle forme tradizionali di aiuto verso il prossimo nella dottrina e nella prassi delle confessioni religiose, le religioni reinsediate al seguito degli immigrati si trovano a sviluppare, secondo le loro possibilità, attività di soccorso sociale verso i propri aderenti e altri bisognosi, soprattutto connazionali. Dalla ricerca del lavoro al rimpatrio delle salme, dalla fornitura di cibo e medicine alla consulenza nelle pratiche burocratiche, le comunità religiose producono flussi di aiuti in risposta ai molti bisogni degli immigrati. L’emergenza COVID-19 ha posto poi in rilievo una diffusa e sorprendente capacità di promuovere azioni di solidarietà nei confronti della stessa società ricevente. Possiamo parlare a questo riguardo di un “welfare dal basso” che affonda le radici nei precetti religiosi di aiuto verso il prossimo (Ambrosini, Bonizzoni, Molli, 2021b).
Il rapporto tra immigrazione e partecipazione religiosa si inscrive inoltre in un dinamismo che travalica i confini, connettendo patria d’origine e luoghi di approdo, fedeltà identitaria e nuove istanze, visioni persistenti e valori rielaborati. Non senza tensioni e contraddizioni, tra quanto si vorrebbe conservare del mondo di ieri e quanto si assorbe, anche inconsapevolmente, nel nuovo contesto di vita: basti pensare alle concezioni della famiglia, ai ruoli femminili e maschili, all’educazione dei figli. Le comunità religiose e i loro leader spirituali sono spesso chiamati a ricomporre questi attriti, reinterpretando codici morali e consuetudini tramandate in forme capaci di fornire delle risposte alle sfide poste dall’emigrazione in Occidente.
Le religioni sono poi un terreno privilegiato di costruzione e rinnovamento di legami transnazionali (Levitt 2003). Il fenomeno è tutt’altro che inedito, se si pensa alle missioni cattoliche e protestanti all’estero e all’assistenza religiosa agli emigranti di un tempo, ma assume oggi nuove e pervasive connotazioni grazie agli sviluppi della comunicazione digitale e del sistema dei trasporti. Ospitalità di leader religiosi, invii di ministri in missione all’estero, circolazione di messaggi su vari canali, pellegrinaggi, collette per le necessità delle comunità religiose in patria, compongono una rete di fili che connettono le società di origine con quelle di destinazione. Le religioni sono coinvolte in processi di internazionalizzazione che non derivano soltanto da strategie istituzionali, ma salgono dall’esperienza dei fedeli trapiantati all’estero.
Il rapporto tra partecipazione religiosa e integrazione sociale
Una questione agita molti dibattiti sull’appartenenza religiosa degli immigrati: se questa contribuisca alla loro integrazione nella società ricevente o favorisca piuttosto la persistenza di un’identità separata e persino contrapposta a quella maggioritaria (Foner, Alba 2008). La risposta dipende dalla concezione dell’integrazione, un concetto certamente composito e controverso (Penninx 2013). Sulla base della letteratura internazionale, si può sostenere che l’integrazione ha anzitutto una dimensione strutturale: riguarda la possibilità di condurre una vita dignitosa e indipendente, grazie a una condizione giuridica sicura, un’abitazione adeguata, un lavoro sufficientemente stabile e remunerativo. La partecipazione alle comunità religiose, grazie alla circolazione di risorse informative, reputazionali e di sostegno pratico, contribuisce a raggiungere questo obiettivo.
Una seconda dimensione dell’integrazione fa riferimento al benessere personale (Connor 2012): anche da questo punto di vista il senso di appartenenza, il conforto morale, la conferma dell’identità personale, la partecipazione a reti di socialità comunitaria, inducono a vedere nella partecipazione religiosa un sostegno all’integrazione.
Più problematica può risultare una terza dimensione, quella delle relazioni con la società ricevente, a loro volta correlate con l’accettazione sociale. La partecipazione ad aggregazioni religiose formate da altri immigrati favorisce una socialità intra-comunitaria, un capitale sociale bonding nei termini di Putnam (2004), ad apparente detrimento della coltivazione di legami con la popolazione autoctona e quindi dell’accumulazione di un capitale sociale bridging. Tuttavia, è tutt’altro che scontato che un’apertura ai rapporti interetnici da parte degli immigrati riscuota un’accettazione sociale corrispondente da parte della componente maggioritaria della popolazione. L’alternativa alla partecipazione comunitaria può essere l’isolamento, anziché l’inserimento in reti sociali più ricche e variegate.
In secondo luogo, non necessariamente la partecipazione religiosa implica chiusura e arroccamento identitario. Anzi, se la partecipazione religiosa favorisce l’integrazione sotto il profilo strutturale, anche l’immagine dell’immigrato tende a migliorare, così come l’accettazione sociale e la possibilità di ampliare la gamma dei rapporti sociali.
L’idea che l’integrazione nella società ricevente richieda l’abbandono delle appartenenze comunitarie e dei riferimenti culturali appare tributaria di una visione in cui l’integrazione, in realtà, non si discosta molto dalla vecchia nozione di assimilazione: gli immigrati per integrarsi dovrebbero abbandonare legami, memorie e appartenenze, per confondersi con la società ricevente. Una certa polemica contro il “comunitarismo”, francese ma non solo, sembra discendere da questo retropensiero. Il rischio è poi quello di rappresentare l’appartenenza comunitaria secondo lo stereotipo del settarismo, che ne rappresenta semmai una degenerazione.
Tra i temi scomodi, e sfruttati da chi vede con sospetto le religioni degli immigrati, rientrano le dinamiche di genere, e in modo particolare i ruoli attribuiti alle donne. In termini generali, le religioni viste dal basso, nel loro funzionamento effettivo, quelle che Cadge ed Ecklund (2007) chiamano le “religioni vissute”, differiscono dalle religioni scritte sui libri, ovvero dalle loro rappresentazioni ufficiali (e dagli stereotipi relativi). Questo è ancora più vero nei contesti di emigrazione, in cui le forme d’insediamento, la storia e la composizione della comunità, le pressioni delle necessità quotidiane e dell’ambiente esterno, influiscono sull’organizzazione e sui ruoli interni. In altri termini, se la dottrina e la prassi tradizionale nella maggior parte delle religioni attribuiscono i ruoli di guida e le principali responsabilità ai maschi, in emigrazione le carte si rimescolano, anche in conseguenza del fatto che la composizione della popolazione immigrata da diversi Paesi è storicamente e demograficamente molto femminilizzata. La gestione effettiva delle attività comunitarie può dare luogo quindi a delle sorprese.
Le comunità religiose sono inoltre organismi sociali in continua evoluzione. Entrano qui in gioco i passaggi generazionali. Quei luoghi che rappresentavano porti sicuri e ambienti familiari per le prime generazioni, rischiano di non esserlo più per le seconde, e tanto meno per le terze (Jacob, Kalter 2013; Ricucci 2017). L’uso della lingua madre, che nel primo caso rinsaldava l’identità e facilitava la comunicazione, diventa un inciampo e un potenziale fattore di estraneità per generazioni abituate ormai a comunicare più fluidamente nella lingua in uso nei Paesi riceventi. L’abbandono non è però scontato, anche perché le seconde generazioni sono diversificate: per i ragazzi arrivati da poco, le comunità hanno una forza attrattiva simile a quella che sperimentano gli immigrati di prima generazione. Per chi è nato qui o arrivato da piccolo, possono rappresentare luoghi dell’identità e delle celebrazioni familiari. Per i più consapevoli, luoghi in cui approfondire la conoscenza dei testi sacri e il loro rapporto con l’esistenza quotidiana in Occidente.
Le religioni degli immigrati si confrontano poi sia con il modello rappresentato dalle religioni storicamente insediate, nel nostro caso quella cattolica, con parrocchie, oratori, associazioni collegate, sia con le domande delle istituzioni locali, che chiedono di disporre di interlocutori rappresentativi, di referenti per l’assistenza religiosa nelle carceri e negli ospedali, di voci da convocare nelle istanze del dialogo interreligioso. Si spiegano così fenomeni come l’investitura di responsabili religiosi simili a quelli cristiani – e in modo particolare cattolici – in religioni che nei luoghi di origine non dispongono di un clero, la cadenza settimanale degli appuntamenti, l’individuazione della domenica come il giorno consacrato agli appuntamenti comunitari, l’organizzazione di attività caritative sconosciute o diversamente condotte in patria, il desiderio di aggiungere al culto attività educative e socializzanti simili a quelle parrocchiali, lo spazio che i laici assumono nella gestione delle attività comunitarie. In altri termini, nel fare degli imam musulmani, o dei loro simili in altri culti, un equivalente funzionale dei parroci cattolici, convergono sia le esigenze interne delle comunità, sia le domande esterne.
Come funziona il “welfare dal basso” delle comunità religiose
Va poi approfondito il concetto di “welfare dal basso” prima introdotto, e i suoi rapporti con altri fenomeni di aiuto sociale per nulla o poco formalizzato. Un immediato termine di confronto è quello del volontariato a bassa soglia e delle donazioni nell’ambito parrocchiale o di analoghe istituzioni religiose. Può sembrare che gli aiuti forniti nell’ambito delle comunità religiose degli immigrati non se ne discostino molto. Eppure una differenza esiste, ed è importante: nel volontariato religioso convenzionale s’incontrano dei soggetti socialmente ben integrati, perlopiù di classe media, che soccorrono delle persone in condizioni di bisogno, solitamente di condizione sociale più bassa, spesso oggi immigrate. L’aiuto viene fornito in un contesto di relazioni sociali asimmetriche.
Nel caso delle comunità religiose degli immigrati, la solidarietà prodotta s’inscrive invece principalmente nei canoni del mutuo aiuto, pur non escludendo nel tempo lo sviluppo di pratiche più specializzate e istituzionalizzate. Sono persone di condizione sociale simile che ne aiutano altre di pari livello, nella consapevolezza fra l’altro che un domani potrebbe verificarsi il contrario. Le asimmetrie sociali tra donatori e beneficiari si attenuano, e l’idea che l’aiuto volontario rafforzi disuguaglianze e gerarchie perde quota.
Il mutuo aiuto a base religiosa si differenzia altresì dalle reti etniche. Queste sono di solito particolaristiche: si aiutano dei parenti, forse dei compaesani, più raramente e in forme più limitate dei semplici connazionali (Engbersen, Van San, Leerkes 2006). Verso questi ultimi, possono insinuarsi forme di prevaricazione o di sfruttamento della loro debolezza: l’informazione o la raccomandazione per un posto di lavoro può essere scambiata con una contropartita in denaro, il posto letto, quando non si tratti (forse) di una disponibilità occasionale, è normalmente affittato, l’aiuto nelle pratiche burocratiche concesso dietro compenso. Non è detto che nelle comunità religiose non si verifichino fenomeni analoghi, ma è più probabile che l’aiuto sia disinteressato e allargato oltre la rete di parenti e amici stretti.
La capacità d’iniziativa e il protagonismo che gli immigrati mettono in campo in ambito religioso rivelano due implicazioni importanti. La prima è di carattere psico-sociale e ha a che fare con l’integrazione subalterna che gran parte di loro sperimentano in Italia. Relegati perlopiù nelle occupazioni meno remunerative e più sgradite, sperimentano una discesa sociale rispetto al loro status pre-migratorio. Pochi riescono a reagire e a risalire la china della stratificazione sociale (Fellini e Guetto 2019). L’attivismo in ambito religioso e l’assunzione di responsabilità comunitarie (presidente dell’associazione che gestisce il luogo di culto e le attività connesse, componente del direttivo, tesoriere, direttore del coro, animatore di un gruppo, responsabile di un servizio) forniscono delle opportunità di riscatto, tanto da diventare a volte oggetto di dispute e conflitti interni. Sono delle occasioni per acquisire visibilità, riconoscimento, reputazione, per rafforzare l’autostima e il prestigio nella cerchia dei connazionali.
Da questo fatto discende la seconda implicazione. L’immigrazione in Italia ha mostrato finora uno scarso protagonismo pubblico, una difficoltà a sviluppare solide reti associative, una debole presenza sociale e politica (Ambrosini 2020). Anche i diritti degli immigrati sono difesi soprattutto da attori italiani. Il maggiore attivismo delle seconde generazioni non è sufficiente a ribaltare questo quadro complessivo. In rapporto a un panorama del genere, le comunità religiose costituiscono la più visibile e pervasiva eccezione. Sono luoghi in cui gli immigrati sviluppano forme di protagonismo, mostrano capacità d’iniziativa, si organizzano con modalità ampiamente autonome sia rispetto alla società ricevente, sia a quella di origine.
Il protagonismo per ora è prevalentemente interno, sebbene le collette e le iniziative solidaristiche sviluppate durante l’emergenza COVID e in occasione di altre calamità ne abbiano dimostrato un’attenzione verso la dimensione della responsabilità sociale. L’impegno politico è ancora scarso, al pari della partecipazione a dibattiti pubblici su temi come la riforma del codice della cittadinanza o l’accoglienza dei rifugiati. Le comunità religiose degli immigrati nell’insieme appaiono più preoccupate di difendere l’immagine pubblica dei loro fedeli e di favorire la loro accettazione sociale insistendo sulla dimensione morale, predicando obbedienza alle leggi, coesione familiare e buon comportamento personale: qualcosa di simile a quella che Guzman Garcia (2018) ha chiamato “cittadinanza spirituale”. Si può parlare più precisamente di una “cittadinanza etica”, cogliendone le implicazioni pubbliche: anzitutto quella di proporre un’immagine sociale ineccepibile degli immigrati, smentendo con i fatti molti stereotipi negativi (Scrinzi 2016). Le comunità religiose sono inoltre incubatrici di risorse pre-politiche, come la capacità di organizzare eventi, di gestire assemblee, di parlare in pubblico, di costruire reti, di allenare alla leadership, che potranno nel futuro essere trasferite nell’ambito politico.
Oltre i contenuti etici e la dimensione pre-politica, la cittadinanza espressa per via religiosa sta assumendo nuovi profili. Come osservato, le comunità sono sede di numerose attività; quelle di aiuto e di orientamento spiccano in termini di servizi autoprodotti che rafforzano una dimensione importante della cittadinanza: quella sociale. In pochi casi, ma significativi, i leader laici cercano poi di portare all’attenzione dei fedeli nuovi temi. Nel caso di alcune chiese evangeliche etniche, giovani rappresentanti hanno sviluppato ed avviato progetti sia per diffondere la conoscenza dei diritti (come nel caso della regolarizzazione) sia per il tema controverso della violenza di genere: hanno infatti promosso corsi di formazione per responsabili e pastori al fine di individuare i casi. In due cappellanie, sempre dei giovani sono impegnati in progetti associativi per il riconoscimento dei titoli di studio, per il supporto ai ricongiungimenti e l’orientamento scolastico, per la tutela sanitaria degli irregolari con attori ed enti locali.
Nei centri musulmani, rappresentanti di seconda generazione si sono fatti protagonisti di differenti attività civiche, compresa la candidatura alle elezioni comunali. Infine, alcune comunità hanno via via stabilito rapporti più continuativi con alcune amministrazioni comunali: un percorso opposto a quello delle politiche di esclusione condotte da varie amministrazioni locali nei confronti dei musulmani. Seppur in modo frammentato, attività civiche, come quelle portate avanti nel periodo Covid, ed eventi culturali sono momenti di incontro in occasione dei quali le comunità emergono e si presentano come attori sul territorio. Rispetto ad un quadro dipinto come immobile, attività guidate spesso dai giovani e centrate su temi specifici stanno introducendo nuovi significati e modi nei quali le religioni possono informare la cittadinanza.
Dialoghi Mediterranei, n. 59, gennaio 2023
Riferimenti bibliografici
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Maurizio Ambrosini, docente di Sociologia delle migrazioni presso l’Università di Milano, insegna da diversi anni anche nell’università di Nizza. È responsabile scientifico del Centro studi Medì di Genova e dirige la rivista “Mondi migranti” e la Scuola estiva di Sociologia delle migrazioni. Fa parte del CNEL, dove è responsabile dell’organismo di coordinamento delle politiche per l’integrazione dei cittadini stranieri. Autore di diversi studi, ha pubblicato recentemente L’invasione immaginaria (Laterza 2020) e Altri cittadini. Gli immigrati nei percorsi della cittadinanza (Vita e Pensiero, 2020).
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