Il modo con cui pensiamo e rappresentiamo l’altro è un processo di costruzione della conoscenza che prende forma dall’esperienza personale, a sua volta corroborata dalle rappresentazioni collettive. Il contatto con la diversità culturale prende le sue mosse da un complesso apparato di mediazioni approssimativamente costituito da quanto denominiamo “senso comune” o “stereotipo”, ovvero da categorie mentali negativamente connotate come “pregiudizio”. Sappiamo anche, però, che una conoscenza più approfondita dell’altro ha bisogno necessariamente che siano entrambe le parti ad intrattenere un dialogo e una negoziazione dei rispettivi significati culturali, altrimenti quello che resta non è altro che un profilo tracciato da una sola mano.
Cosa accade, esattamente, quando viene meno una simile interazione? È la domanda che mi sono posta al principio della ricerca che ho svolto nel territorio di Misilmeri, un comune della provincia di Palermo distante poco più di una decina di chilometri dal capoluogo siciliano, esattamente quando ho pensato che fosse possibile raccogliere informazioni sulla costruzione di un discorso collettivo sull’altro…in sua assenza.
Nel contesto di una ricerca antropologica dal respiro contemporaneo, è sempre auspicabile concentrarsi sulle relazioni, altrettanto importanti delle rappresentazioni. L’intento non è quello di presumere che si possa fare a meno della voce dell’altro – nel nostro caso, gli immigrati presenti sul territorio misilmerese – ma che fornire una descrizione e analisi della rappresentazione collettiva possa essere di qualche interesse e possa condurre ad una riflessione sulla portata comunicativa dei contatti – siano essi sporadici o a carattere continuativo – che gli autoctoni intrattengono con gli immigrati.
La faccenda, inoltre, si complica proprio quando osserviamo che gli immigrati in questione sono di origine maghrebina e il luogo in cui si consumano discorsi prevalentemente intolleranti nei loro confronti deve la propria esistenza geografica e linguistico-culturale in modo particolare al suo periodo arabo. Il contesto immediatamente visibile è quello di un luogo storicamente debitore alla cultura araba ma che è altrettanto refrattario ad essa, nella sua espressione contemporanea.
Precisiamo sin da principio che saremmo colpevoli di cecità analitica, nel momento in cui dovessimo compiere il passo maldestro di accomunare le due sfere di contatto e voler trovare forti punti di incoerenza: se da una parte abbiamo l’attenzione per la testimonianza storica, coltivata particolarmente nei contesti dell’istruzione, dall’altra si dispiega una realtà quotidiana la cui rappresentazione prende le distanze dal fatto storico e fa riferimento esclusivo alla condizione di minaccia comunemente avvertita in presenza di immigrati dal Marocco (in misura minore da altri paesi del Maghreb); le due sfere di costruzione simbolica prendono le mosse da elaborazioni analitiche collettive fondate su vicende assai differenti e con nessun punto in comune. Partendo da una simile premessa, potremmo considerare inopportuno avvicinare le due vicende, ma il punto della questione risiede proprio in questa distanza tra le due percezioni e sulla pregnanza emotiva di una coscienza autoctona che dichiara con orgoglio le proprie radici arabe in una categoria immaginativa più vicina alle retoriche da mito di fondazione che alla realtà intrinseca ad una vicenda storica. Ovvero più incline alla conferma identitaria che alla sua rinegoziazione alle prese con la presenza straniera, dalle medesime origini, ma percepita come una sorellastra indesiderata.
Il tratto iconemico - il simbolo, cioè, che caratterizza sinteticamente un luogo – di Misilmeri (da “Menzel el Emir”, in arabo: villaggio dell’Emiro) è il Castello dell’Emiro Giafar II, situato sulla sommità della rocca che domina l’abitato. Salvo i primi insediamenti rurali sparsi, l’avvento dell’urbanizzazione vera e propria risale a cavallo dell’anno Mille, sotto la dominazione dell’Emiro Giafar II, che volle costruire la sua residenza proprio sul punto da cui si domina tutta la vallata del fiume Eleutero. Oggi, questa storia si racconta nelle scuole del luogo, insieme allo studio dell’origine di toponimi che risuonano di lingua araba in tutto il comprensorio misilmerese. Il cartello stradale situato all’ingresso della cittadina reca il nome Misilmeri e la sua traslitterazione araba “Menzelelemir”. La storia è tenuta in vita.
Ma se tanta è la ricerca delle origini e la volontà filologica degli storici locali e degli insegnanti nelle scuole, risulta, d’altro canto, piuttosto carico di diffidenze e ostilità il contatto con i “nuovi arabi” arrivati nel territorio: migranti economici che hanno eletto Misilmeri a terra di passaggio o di approdo, forse per evitare la saturazione del mercato del lavoro nella città di Palermo.
A detta dell’informatore M., la maggior parte degli immigrati a Misilmeri vive nella zona del quartiere San Vincenzo, denominata dai locali “i Rocchi”. Lo stesso M. mi racconta che spesso vivono in gruppo dentro dei garage, sono uomini e svolgono lavori stagionali nelle campagne che circondano il paese. La loro attività è descritta così da M: «si nni stanno a un fari nenti nna’ chiazza e ogni tanto, quando serve, ‘i chiamamu» (stanno in piazza a non fare niente, e ogni tanto, quando serve, li chiamiamo). È noto che la prestazione giornaliera degli immigrati nelle campagne costituisca una risorsa importante per i proprietari terrieri che ottengono il vantaggio economico di manodopera a basso costo e un sicuro aiuto nei campi e nell’arboricoltura, a dispetto della forza lavoro locale che tende a spostarsi verso la città, alla ricerca di impieghi più “moderni”. La dignità del lavoro, nonostante ciò, sembra non induca l’informatore M. a valutare positivamente gli immigrati, che descrive come rozzi e pericolosi.
Gli abitanti di Misilmeri hanno pochi contatti con gli immigrati. Una di queste occasioni è quella della distribuzione di vestiario usato all’interno di una missione religiosa, mediata unicamente dall’intento della pietà nei confronti degli indigenti: «Lo facciamo per la gloria di Dio», afferma C., una volontaria della missione. M., proprietaria di un negozio di tessuti, sostiene di non avere donne immigrate tra le proprie clienti e di vederle passare dalla strada di tanto in tanto. T., insegnante, reputa i bambini, figli degli immigrati marocchini, chiusi e indottrinati.
La sensazione è quella di un luogo dove non esista alcuna commistione, alcuno spazio di reale incontro tra autoctoni e immigrati che vada al di là di un mero sguardo sull’individuo etnicamente connotato e mai considerato nelle sue qualità multisituate come quelle di uomo, donna, lavoratore, lavoratrice, madre, moglie, cliente, e così via.
Anche il commento di L., negoziante, è positivo soltanto all’apparenza: si tratta dell’informatore che più degli altri testimonia di aver avuto modo di conoscere una famiglia marocchina e di considerarla con simpatia. Dice L. : «Sì, sono bravi, sono marocchini, però sono bravi. Non lo so…forse perché è più di vent’anni che sono qua, sono…diciamo come noi. Hanno due figli che vanno all’università. Sono riservati, molto chiusi, hanno le loro tradizioni, ci tengono molto, pure quando loro hanno il periodo del digiuno…no, ci tengono, ci tengono». Il commento rivela una percezione positiva unicamente nella misura in cui l’altro cominci a somigliare al “noi”, attraverso il riconoscimento di attitudini e comportamenti che non si risolvano unicamente nella propria origine geografica. Che la famiglia in questione sia “chiusa nelle proprie tradizioni”, è un tratto pertinente di una caratterizzazione puramente etnicizzante. Nessuno, a mio modesto parere, adopererebbe una simile definizione per chi si rechi ogni domenica in chiesa. Ma, tornando alla famiglia di cui L. mi racconta, un fatto ha colpito molto la mia immaginazione: il rapporto del capofamiglia col simbolo del Castello di Misilmeri. Tra L. e quest’uomo, è nato un discorso a proposito della bellezza del castello e della pregnanza transnazionale di quel simbolo che, a ben guardare, tutto misilmerese non è. L’uomo racconta di aver visto l’immagine del castello sui libri di scuola, in Marocco, e si ritiene fortunato ad abitare in una casa da cui poterne godere la vista, ogni giorno: è per lui motivo di orgoglio e vanto, nei confronti dei parenti e dei vicini,rimasti in Marocco.
Potremmo leggere una simile considerazione come un inedito elemento di congiunzione tra diversità che si incontrano nel cuore di una stessa storia, da punti di vista diversi, da terre tra loro lontane. Il ruolo della storia ha, in una esperienza individuale condivisa tra pochi, realizzato il potenziale che la retorica delle origini deve ancora, probabilmente, scrivere.
Dialoghi Mediterranei, n.4, novembre 2013
Riferimenti bibliografici
Francesco Romano, La storia di Misilmeri. Dalle origini ai nostri giorni, tip.ed. Fiamma Serafica, Palermo, 1983,
L’articolo é interessante ma pone e privilegia una prospettiva di tipo multiculturale che, come appare evidente, esalta la separazione. L’autrice stigmatizza il fatto che fra le righe si evidenzi la opportunità del somigliare “a noi” e ne fa quasi oggetto di scandalo. Direi che, al di là della retorica, nel somigliare a noi si debba leggere la necessità di una convivenza fondata sulla integrazione e non sulla chiusura identitaria come sembrano invece provocare questi extracomunitari residenti.
Desidero ringraziarla per l’interesse che ha riservato al mio scritto e, al contempo, concentrare l’attenzione sugli aspetti che lei stessa ha ritenuto importanti.
Il punto di vista adottato non fa riferimento alla multiculturalità, ma ad una prospettiva che, come enunciato nella premessa, tiene a considerare l’elicitazione degli attori -nel nostro caso, gli autoctoni – quale base per la costruzione di un discorso collettivamente condiviso sulla presenza straniera e sul contatto con essa.
La separazione non è frutto di una finzione letteraria, ma un dato, esito di una ricerca che ha raccolto la viva voce delle testimonianze.
Quanto all’emersione di un discorso edificato sul “noi” e sui significati attribuiti a tale espressione, sarebbe doveroso fare riferimento ad una intera tradizione di studi sulla modernità che delle sinusoidi sociali e soggettive, situate tra globale e locale, ha fatto un fecondo campo di discussione che in questa sede non potremmo certamente esaurire. Mi limito a ricordare che nella relazione tra storia e genealogie locali, il “noi” è de-costruito; non perché perda un valore identitario intrinseco, ma in ragione del contatto tra soggettività multisituate e transnazionali, non prive di confini, anzi: sconfinatamente caratterizzate.
Se, come suggerisce Arjun Appadurai in “Modernità in polvere”, occorre ridiscutere il trattino che separi l’espressione “stato-nazione”, il concetto di “integrazione” non trova alcun sostegno analiticamente fondato.