di Giuliana Fugazzotto, Mario Sarica [*]
I canti tradizionali della Settimana Santa in Sicilia e il repertorio di Barcellona Pozzo di Gotto
La Settimana Santa in Sicilia è caratterizzata dalla presenza, in molti casi ancora vitale, di repertori tradizionali di canto liturgico o para-liturgico dalle peculiari caratteristiche. Buona parte dell’intero repertorio è costituito da brani a due o a tre voci caratterizzati da una struttura cosiddetta “ad accordo”. Accanto ad essi, di appartenenza quasi esclusivamente maschile perché quasi esclusivamente maschili erano le confraternite laicali che avevano il compito di eseguirli e tramandarli, esiste però un filone monodico, principalmente femminile che, pur adottando, a volte, i medesimi testi dei canti polivocali, si sviluppa nei toni più intimi della “razioni”.
Questi repertori monodici, proprio perché non appartenenti ai più vistosi contesti rituali processionali o liturgici che si ripetono in precise e obbligate scadenze temporali e che sono legati alla professionalizzazione degli esecutori, hanno subìto un più grosso processo di decadimento e sono oggi in gran parte andati perduti.
In generale, per quanto riguarda la polivocalità, i modelli propri del repertorio liturgico e paraliturgico legato ai riti della Settimana Santa in Sicilia sono ascrivibili a modelli secenteschi anche se «gli elementi che confluiscono a disegnare il repertorio, lo stile, la pratica esecutiva, l’atteggiamento degli esecutori e i modi di fruizione della comunità operano fra loro in modo sostanzialmente conflittuale»[1]. È frequentissima, nei canti polivocali, l’adozione di testi latini che facevano parte, prima del Concilio Vaticano II, della liturgia cattolica ufficiale; altri, polivocali o monodici, non sono altro che volgarizzazioni di testi latini o narrazioni di episodi centrali della Passione e morte di Cristo secondo una tradizione spesso riscontrabile nei Vangeli apocrifi e conservata in culture anche assai distanti tra loro. È il caso, ad esempio, del canto U Venniri di Mazzu gluriusu che compare nelle diverse lezioni locali in pressoché tutti i repertori polivocali o monodici della Settimana Santa in Sicilia. Lo stesso canto, con i medesimi riferimenti testuali e lessicali, si riscontra anche in molti altri repertori paraliturgici non isolani e del nord Italia.
All’interno della tipologia della polivocalità “ad accordo”, alla quale appartiene la gran parte dei canti della Settimana Santa siciliana possiamo operare, però, una ulteriore differenziazione: brani solistici, con accompagnamento “ad accordo” – ai quali appartengono quei canti in cui anche due o tre voci solistiche si alternano all’esecuzione – e canti bivocali con accompagnamento “ad accordo”, in cui le voci soliste svolgono parallelamente la propria linea melodica, come nel repertorio di Cerami in provincia di Enna.
Le linee melodiche, in molti casi, ricordano procedimenti gregoriani e, a volte, ne sono l’esatta riproduzione, come il Manciati, ‘mbiviti, apostuli mei di Alcara Li Fusi (ME) che rispecchia fedelmente il V tono salmodico. I canti di Tusa (ME), inoltre, prima ancora di essere studiati nelle loro componenti strutturali, si evidenziano per la globalità dell’effetto sonoro, vuoi per l’uso della voce, che ricorda le banniate dei venditori ambulanti, vuoi per il grande uso di glissati fra i suoni o per l’adozione di una scala non diatonica o ancora per gli inconsueti rapporti intervallari che vengono a crearsi fra le parti.
I testi dialettali
Molti dei canti della Settimana Santa siciliana appartengono a quel genere di componimenti di argomento religioso che si ispirano a episodi della Passione e Morte di Cristo secondo il racconto dei Vangeli ivi compresi quelli apocrifi.
Paolo Toschi [2], tentandone una classificazione, li distingue in due grandi tipologie: “Passione e Orologio della passione”. Alla prima appartengono quei canti narrativi che, in vario metro e secondo modalità esecutive le più diverse a seconda della zona geografica di appartenenza e dell’occasione di canto, trattano più o meno in maniera discorsiva episodi della Passione. Alla seconda appartengono quei canti che, pur narrando gli stessi avvenimenti della Passione, li seguono ora per ora. Questa caratteristica, che può sembrare a prima vista alquanto inusuale, non solo rispecchia quanto di sovrannaturale e magico la credenza popolare vede nei numeri ma testimonia sicuramente origini molto antiche [3] per le importanti analogie che vi si possono riscontrare nella comparazione con la poesia latina medioevale. Assimilabili a quest’ultima tipologia sono quei canti che enumerano i giorni della Settimana santa [4].
All’interno della tipologia delle Passioni il Toschi riesce a individuare, a seconda dell’argomento, dei modi di sviluppo e della zona geografica in cui sono documentate, quattro sottotipi: la “Passione Siciliana I e II”, la “Passione Italia Centrale I-V” e la “Passione Epico-Lirica”.
Le Passioni siciliane appartengono alla forma delle “storie” e narrano interamente il fatto, dal distacco di Gesù dalla Madre fino al lamento di Maria ai piedi della Croce. In realtà questo contenuto è diviso fra le due Passioni: la seconda inizia il suo racconto là dove la prima lo conclude. Il Pitré è propenso a considerare le due come parti di un unico componimento, resta però il fatto che esse sono state sempre raccolte separatamente e soltanto la “Passione II” si è diffusa nell’Italia meridionale e centrale.
Alla “Passione Italia Centrale I” appartiene il canto Lu Vennaddì di mazzu gluriusu, ampiamente documentato in Sicilia. Di essa si conoscono in Italia più di sessanta diverse lezioni, dall’Abruzzo al Piemonte, dalle Calabrie alla Puglia, alla Toscana, alle Venezie. A questa tipologia di canti è comune la segmentazione in tre episodi:
a) Madre Maria ha perduto il figlio presole dai Giudei e muove a cercarlo;
b) Maria contrasta col mastro che fabbrica gli strumenti della crocefissione;
c) Maria giunge ai piedi della Croce: breve dialogo fra il figlio e la madre.
La tipologia Orologio della Passione, che qui esemplificheremo con il canto Chist’è n’ura di notti (v. oltre), è anch’essa nella forma della “storia” siciliana. In essa è caratteristica la metrica detta a ottavi ‘ncruccati o anche ‘ncruccatura per l’incatenamento della rima dell’ultimo verso con il primo verso della strofa successiva.
Pare che la nascita di questi canti si possa collocare in Sicilia nei primi anni del XVI secolo e che essi costituiscano perciò le più antiche “storie”. Per analogia di composizioni potremmo accostarli alle Passioni siciliane I e II. Ma frammenti somiglianti o addirittura identici sono riscontrabili in molte storie e devozioni in ottave e sestine del Tre e Quattrocento. Ciò non dimostra la diretta derivazione di un testo dall’altro ma piuttosto ci suggerisce la loro filiazione da un’unica matrice, forse qualche storia in ottave sulla Passione appartenente ai secoli XIV e XV: «… uno dei tanti adattamenti popolari di storie, in cui la ragione della brevità o meglio dell’abbreviazione può essere dovuta all’uso che se ne doveva fare: ché è facilissimo che la Passione II fosse strettamente connessa con feste drammatiche sacre o tradizioni popolari della Settimana Santa» [5].
I testi latini
I testi latini adottati nei canti della Settimana Santa provengono dalla liturgia cattolica ufficiale precedente i dettami del Concilio Vaticano II. L’utilizzo di questi testi rimanda a quella parte della storia del cattolicesimo riguardante l’istituzione delle Confraternite laicali e i rapporti che con esse la Chiesa di Roma intesseva. È chiaro che all’epoca la comprensione lessicale assumeva aspetti di una certa vaghezza visto che la lingua latina era sconosciuta alla stragrande maggioranza dei fedeli.
«L’impressione è che ciò che contava erano le parole chiave dei testi, perfettamente comprese, e che su di esse si sviluppava con forza l’intenzione comunicativa. Questi testi, in gran parte misteriosi, in una lingua lontana e quindi più “sacra”, erano la base ideale per lo sviluppo di una realizzazione musicale di profonda intensità, capace di rendere evidente in un contempo, e la misteriosità della parola e il riconoscimento individuale (e collettivo) nei valori religiosi e soprattutto umani dei testi, nel contesto di eventi rituali fortemente emozionali» [6].
I testi maggiormente ricorrenti nei repertori siciliani della Settimana Santa sono il Popule meus, il Vexilla regis, lo Stabat Mater, il Miserere (salmo 50).
Il Popule meus fa parte degli Improperia, ovvero di una serie di lamenti che Gesù muove al suo popolo per l’ingratitudine dimostrata a Dio per i benefici da lui concessi. Nonostante i contenuti del testo siano senza dubbio di ispirazione scritturale, esso sembra derivato dall’apocrifo di Esdra 13-14. Gli Improperi vengono cantati il Venerdì Santo durante la celebrazione della Passione del Signore al momento dell’Adorazione della Croce unitamente al trisagio bizantino. La più antica redazione degli Improperia risale al Pontificale Romano di Prudenzio di Troyes (861). I testi furono raccolti con le loro varianti dal benedettino Edmond Martène all’inizio del ‘700 ma oggi gli studiosi concordano sul fatto che gli Improperia apparvero intorno al VII secolo e pervennero in Occidente dalla Chiesa di Gerusalemme. In 12 proposizioni vengono presentati i benefici di Dio: alle prime 3 segue il trisagio in greco, alle successive il Popule meus, dopo l’ultima ripetizione del ritornello seguono le antifone per l’Adorazione della Croce.
Il Vexilla Regis fa parte, invece, dell’Antiphonarium Missae ed è un Inno per il Vespro della Ia Domenica di Passione. Nell’uso liturgico oggi l’inno viene utilizzato durante i Vespri della Settimana Santa e nella festa della Santa Croce. In passato era cantato anche il Venerdì Santo durante la processione con cui il Santissimo Sacramento era portato dall’Altare della Reposizione all’Altare.
Il testo fu composto da Venanzio Fortunato (530-600), vescovo di Poitiers, in occasione del trasporto di alcune reliquie offerte da Santa Redegonda alla Chiesa del monastero da lei fondato. Lo Stabat Mater, il cui testo poetico è attribuito a Jacopone da Todi, è una delle cinque sequenze latine rimaste nel Graduale.
«Il testo consta di 20 strofe tristiche (dimetri trocaici, di cui il terzo incompleto; il primo e il secondo rimanti fra loro); esso rievoca il dolore della Madonna presso la croce. La melodia, nel II modo, risale al sec. XIII, e consta di 10 motivi, di cui ciascuno serve per 2 strofe consecutive. Fino al 1960, lo S.M., con diversa melodia, nel VI modo, era destinato come inno (introdotto ufficialmente da Benedetto XIII nel 1727) anche all’ufficio del venerdì dopo la prima Domenica di Passione, per il primo vespro (strofe 1-10), il mattutino (strofe 11-14) e le laudi (strofe 15-20)» [7].
Il Miserere (salmo 50) può essere considerato uno dei testi biblici più diffusi nella liturgia e nella vita religiosa cristiana [8]. Esso è il quarto dei sette salmi penitenziali, il Salmo L della Vulgata.
«Il testo del Miserere consta di 21 strofe, e [nella liturgia ufficiale] viene normalmente intonato mediante una formula salmodica seguita da un’antifona che si ripetono identiche in ciascuna strofa. A partire dal XVI secolo i compositori cominciarono a dare al Miserere una veste polifonica: negli archivi della Cappella Sistina si trova una antologia MS contenente 12 M., il primo dei quali è quello di Costanzo Festa (1517), che è il più antico M. polifonico che ci sia pervenuto» [9].
Il repertorio di Barcellona Pozzo di Gotto (ME)
A Barcellona Pozzo di Gotto, grazie all’importanza che rivestono ancora oggi i riti della Settimana Santa, i canti Visilla (Vexilla Regis) e Lu Vennaddì di mazzu gluriusu non sembrano aver subito interruzioni nel processo di tradizione e la padronanza del linguaggio musicale è diffusa e consapevole sia fra i cantori che fra gli abitanti del paese. Lo stesso non è avvenuto con altri canti, come il Miserere e l’Orologio della Passione per i quali, e per differenti motivi, rimane il ricordo solo nella popolazione più anziana.
Fino agli anni 40 del secolo scorso gli impegni rituali avevano inizio il Lunedì Santo, principalmente in Chiesa, ma oggi è solo il Giovedì Santo che fanno la loro prima apparizione i cantori della Visilla. A Pozzo di Gotto, infatti, gli “Apostoli” che hanno appena preso parte alla Missa in Coena Domini e al rito della Lavanda dei piedi, iniziano a girare per le vie del paese “alla ricerca di Gesù preso prigioniero” accompagnati da un gruppo di cantori che eseguono il canto, con precise modalità rituali, all’ingresso delle diverse Chiese visitate.
I riti della settimana santa raggiungono il loro culmine il Venerdì Santo quando le due solenni processioni, distinte per le località di Barcellona e di Pozzo di Gotto, si incontrano a metà percorso in una rappresentazione rituale di grande impatto spettacolare ed emozionale. A Barcellona all’itinerario processionale del Venerdì Santo partecipano diversi gruppi di Visillanti, mentre a Pozzo di Gotto all’unico gruppo esistente fino a qualche anno fa se ne è aggiunto recentemente un altro. Nella processione di Barcellona è possibile ascoltare Lu Vennaddì di mazzu gluriusu, un canto polivocale eseguito in passato solo dalle donne che seguivano il fercolo della Madonna Addolorata e oggi eseguito da uomini e donne insieme.
Chist’è n’ura di notti
(Orologio della Passione)
Canto: Francesca Cutropia (a. 70)
Reg. G. Fugazzotto, Pozzo di Gotto, 27 dicembre 1985
Il canto Chist’è n’ura di notti (dur. 1:50), ha una struttura monodica e una melodia rigorosamente sillabica. L’andamento ritmico, semplice e preciso, ripete costantemente la formula
La frase musicale è costruita sulla struttura verbale del distico ed è formata da due semifrasi melodiche, una per ogni verso. Alla fine del canto, per l’introduzione di pause e il conseguente spezzettamento della frase, la melodia si allontana dal modulo ritmico prefissato e dal suo tranquillo divenire.
La linea melodica si svolge in ambito tonale intorno ai due poli FA# e DO# (I-V) con qualche sospensione sul SI (IV). Se ne schematizziamo il disegno, inoltre, risulta evidente la predilezione per un modulo melodico discendente.
Chist’é n’ura di notti intra ‘ntrasennu
dicì a la cena Giuda ‘nvicinannu
U nostru Diu du tuttu sapennu
chi la so motti ‘ndava ‘nvicinannu
A li ddu’ uri si lavò li pedi
a li tri uri si cuminicau
A li quattr’uri all’ottu si nn’annau
e a li cinc’uri appò si ritirau
A li se’ uri un anciulu calau
lu calici e la cruci cci scinniu
A li sett’uri la trumma sunau
Gesuzzu a li so’ mani s’arrindiu
Li ottu c’appi u scaffu spiegatu
li novi chi du tuttu sfracillatu
Li deci chi di jancu fu vistutu
pi ppacciu fu trattatu u nostru Diu
All’undici fu misu cacciaratu
comu piccati avissi cummittutu
Li dudici fu ‘ncasa di Pilatu
Tridici a ‘na culonna fu battutu
Fu ‘ncurunatu a li quattoddici uri
spini puncenti comu un maffatturi
Li chìnnici di russu fu vistutu
furì e li vistitti e forasei
Li sidici si mossinu a tirruri
dicennu Crucifissu li Giudei
Diciasett’uri ‘ncruci fussi missu
vidennu la so matri ‘ntanti affanni
Sula sutta lu pedi di la cruci
mamma pi ffigghiu vvi lassu a Giuvanni
O chi duluri ch’a la mamma dasti
quannu a Giuvanni mi raccumannasti
Li vinti chi priau so mamma duci
mi piddunassi a tutti li tiranni
A vintun’uri acqua dumannau
appi feli c’acitu e tracuddau
A li vintiddu’ uri si ‘nchiuvau
supra un puntu di cruci santu e piu
Sintistu tutti boni scutaturi
la passioni chi Gesù patìu
Ha patutu pi nnui li piccaturi
supra un puntu di cruci santu e piu
Sapuccu visitusu e visitatu
chi di sangu fustu lavatu
fustu misu ‘nquarant’uri
pi nniautri piccaturi.
TRADUZIONE:
Questa è un’ora di notte che sta entrando/ dice, mentre Giuda si avvicina alla Cena/ il nostro Dio, del tutto sapendo/ che la sua morte stava avvicinandosi./ Alle due ore si lavò i piedi/ alle tre ore si comunicò/ alle quattro ore se ne andò all’orto/ e alle cinque ore, dopo, si ritirò./ Alle sei ore scese un angelo/ gli porse il calice e la croce./ Alle sette ore suonò la tromba/ Gesù si arrese nelle loro mani./ Le otto: che ricevette uno schiaffo/ le nove: che (fu) del tutto sfracellato/ Le dieci: che di bianco fu vestito/ per pazzo fu trattato il nostro Dio./ Alle undici fu carcerato/ come se avesse commesso dei peccati./ Le dodici: fu in casa di Pilato/ Tredici: a una colonna fu battuto./ Fu incoronato alle quattordici ore:/ spine pungenti come a un malfattore./ Le quindici: di rosso fu vestito/ furì e li vistitti ai farisei./ Le sedici: si mossero come un terremoto/ dicendo – “Crocifisso!” – i Giudei./ Diciassette ore: in croce fu messo./ Vedendo sua madre in tanti affanni/ sola ai piedi della croce:/ “Mamma, come figlio vi lascio Giovanni”./ “O che dolore che desti alla mamma/ quando mi raccomandasti a Giovanni”./ Le venti: che pregò la sua dolce madre/ perché perdonasse tutti i tiranni./ A ventun’ore acqua domandò,/ ebbe fiele con aceto e tracollò./ Alle ventidue ore si irrigidì/ su un punto di croce santo e pio./ Avete sentito tutti buoni ascoltatori/ la passione che Gesù ha patito./ Ha patito per noi peccatori/ su un punto di croce santo e pio./ Sepolcro da visitare e visitato/ che di sangue foste lavato/ foste messo in quarant’ore/ per noialtri peccatori.
Miserere (Salmo 50)
Canto: Carmine Italiano (a. 80)
Reg. G. Fugazzotto, Pozzo di Gotto, 28 dicembre 1985
Il Miserere, eseguito da una sola voce (dur. 0:47), aveva, un tempo, la stessa struttura polivocale, detta a’ nota, della Visilla. Purtroppo il decadere dell’uso già dalla fine degli anni ‘60 del secolo scorso non ha permesso il ricambio dei cantori e l’unico a ricordarlo ancora era, al momento della registrazione, Carmine Italiano, forse la più apprezzata fra le prime voci dei visillanti di Pozzo di Gotto.
Come ci racconta lo stesso cantore il Miserere, oltre ad essere legato alla Visilla per averne la stessa struttura formale, veniva eseguito dagli “Apostoli” il Giovedì santo durante la visita ai Sepolcri. Al contrario della Visilla, essendo la sua esecuzione legata ai riti del Giovedì santo, quindi in periodo di mutulenza, non veniva mai accompagnato dal suono dell’organo.
Miserere mei Deus
Secundum magnam misericordiam tuam
Et secundum multitudinem miserationum tuarum,
Dele iniquitatem meam.
Lu Vennaddì di Mazzu gluriusu
1a voce: Carmelo Calarco (a. 52); 2a voce : Luigi Accetta, (a.45); alto: Angelo Molino (a.59); Coro: Andrea Scarpaci (a. 25), Giuseppe Calarco (a.54), Nuccio Calarco (a.30), Fortunato Stracuzzi (a.51), Giuseppe Foti (a.47), Vittorio Giunta (a.52)
Reg. G. Fugazzotto, Messina, Chiesa di S. Eustochia, 14 aprile 1992
Lu Vennaddì di mazzu gluriusu, (di cui qui proponiamo il 7° e l’8° distico: dur. 0:55), viene eseguito ancora oggi durante la processione del Venerdì Santo a Barcellona da un gruppo di cantori che segue la varetta dell’Addolorata. Un tempo si cantava in chiesa durante la Quaresima, ma anche in casa al di fuori di specifiche occasioni.
Il canto, conosciuto nel barcellonese in diverse ma simili varianti, ha fatto parte insieme alla Visilla del repertorio degli spiritara, i lavoratori che fino agli anni Cinquanta del secolo scorso estraevano gli oli essenziali dalle bucce delle arance amare per l’industria profumiera.
La struttura formale è la medesima della Visilla: due voci soliste A, B, ‘u iautu C e il coro. Diversa è invece la distribuzione del testo nelle varie parti: la voce A canta la strofa per intero, raddoppiata nel finale da C all’ottava superiore; subito dopo entra B che riprende sullo stesso disegno melodico la seconda metà del secondo verso della strofa. La struttura ritmica è molto libera, soprattutto nella parte finale di ogni verso quando la melodia si scioglie in ampi procedimenti melismatici.
Lu Vènnaddì di mazzu gluriusu
la matri santa si misi ‘ncaminu.
Pi strata cci scuntrò san Giuvannuzzu
ci dissi o matri matri chi aviti?
Vaiu ciccannu lu me caru figghiu
chi ll’aiu pessu e non l’aiu ‘ntruvatu.
Andati in casa di Pilatu
chi ddà lu truviriti ‘ncatinatu.
- Tuppi, tuppi – cu ieni chi batti?
Sarà dda svinturata di me matri.
O matri, matri, nonvi pozzu aprìri
chi m’ànnu ‘ncatinatu li giudei.
Andati andati unn’i mastri fatturi
faciti fari un pàruzzu di chiova
Non tanti rossi e non tanti puntuti
ch’ annu a passari sti cannuzzi fini
Arrispunderu li malifatturi
rossi e puntuti li vulemu fari
Rossi e puntuti li vulemu fari
chi ll’ànnu a passari sti canni di cani.
Maria sintennu diri sta nuvella
fici trimari lu cielu e la terra.
TRADUZIONE:
Il venerdì di marzo glorioso/ la Madre Santa si mise in cammino./ Per strada le incontrò San Giovannuzzo;/ le disse: “O madre, madre, dove andate?”/ “Vado a cercare il mio caro figlio/ perché l’ho perso e non l’ho (ancora) trovato”./ “Andate in casa di Pilato/ che là lo troverete incatenato”./ -Toc, toc- “Chi è che bussa?”/ “Sarà quella sventurata di mia madre./ O madre, madre, non vi posso aprire/ perché i giudei mi hanno incatenato./ Andate dal mastro dei chiodi/ (e) fatene fare alcuni per me, / né tanto grossi, né tanto appuntiti/ perché devono trapassare queste carni delicate”./ Risposero i malfattori:/ “Grossi e appuntiti li vogliamo fare./ Grossi e appuntiti li vogliamo fare/ perché devono trapassare queste carni di cane”./ Maria sentendo dire questa novella/ fece tremare il cielo e la terra.
Visilla
(Vexilla regis)
Canto processionale del Venerdì Santo
1a voce: Carmelo Calarco(a. 52); 2a voce (si alternano): Fortunato Stracuzzi (a.51) e Nuccio Calarco (a.30); Alto: Andrea Scarpaci (a. 25); Controcanto: Luigi Accetta (a.45). Coro: Giuseppe Calarco (a.54), Angelo Molino (a.59), Giuseppe Foti (a.47), Vittorio Giunta (a.52)
Reg. G. Fugazzotto, Messina, Chiesa di S. Eustochia,14 aprile 1992.
Il canto della Visilla, che qui ascoltiamo nell’esecuzione di uno dei più apprezzati gruppi di cantori barcellonesi del passato (dur. 1:40) è l’elemento musicale principale di tutto il periodo della Quaresima a Barcellona Pozzo di Gotto. Anch’esso, come il Vassillo di Bronte (CT) o il Vexilla di Augusta (SR) utilizza il testo latino del Vexilla Regis di Venanzio Fortunato. Si tratta, come già detto, di un canto polivocale “ad accordo”, avente la stessa struttura di quei canti non religiosi o liturgici che, nel messinese, vengono chiamati canti “a nota”.
La voce che fa di prima intona la prima parola del verso (Vexilla) e ad essa risponde la voce che fa di seconda (regis); segue ancora la prima voce e, su essa, entra il coro che accorda. Alla fine del verso interviene brevemente una voce acuta, chiamata ‘iautu (alto), che raddoppia la melodia della prima voce all’ottava superiore.
Così come per altri canti, un ruolo importante nella trasmissione della Visilla dalla fine dell’Ottocento fino agli anni Cinquanta del Novecento, è stato svolto dagli spiritara, gli operai addetti all’estrazione degli oli essenziali dagli agrumi. Il repertorio degli spiritara comprendeva stornelli, canti a nota, serenate e, da dicembre in poi, il canto del Vexilla Regis. Lo stile di canto degli spiritara era contrassegnato da un’emissione molto forte e dalla marcatura degli attacchi a “lanciare il suono”, modalità che risentiva probabilmente delle sfide vocali che spontaneamente si tenevano fra gruppi di lavoratori dei “magazzini” vicini.
Nonostante il canto del Vexilla Regis sia documentato già nel 1880, quando, cioè, ancora non erano in attività i magazzini, gli spiritara hanno svolto un ruolo importante nella formazione dello stile ancora in uso a Barcellona. Essi, infatti, assumendo il canto e collocandolo in un contesto del tutto differente da quello liturgico, facendone anche “un canto di sciampagnata”, lo hanno modificato in modo sensibile. Anche se le caratteristiche dello stile di canto sembrano oggi molto simili fra i cantori di Barcellona e quelli di Pozzo di Gotto, fino agli anni Novanta del secolo scorso non era così e la Visilla di Barcellona a’ spiritara era un canto molto più ricco di ornamentazioni, di abbellimenti, di vibrato, di procedimenti cromatici, di colorazioni timbriche, di colpi di voce e di coloriture, assai diverso da quello di Pozzo di Gotto.
La Visilla, come si può vedere nella trascrizione allegata [10], viene eseguita da tre voci soliste A, B, C e da un coro che alla fine dei versi e di ogni strofa accorda. Il testo viene ripartito fra le voci soliste. È caratteristico di tutte le esecuzioni il salto di 4a ascendente fra la fine della prima parola e l’inizio della seconda (risposta di B ad A), che fa quasi pensare ad un classico procedimento dominante – tonica.
Ancora elementi tonali alla fine di ogni brano, quando, chiamando I la nota finale e VII quella immediatamente precedente nella scala diatonica, si verifica un movimento cadenzale I – VII – VII – I (dove fra il I e il VII c’è un semitono discendente e dal successivo VII si raggiunge il I con un lento glissato ascendente).
Vexilla regis prodeunt,
Fulget crucis mysterium
Qua vita mortem pertulit
Et morte vitam protulit.
Quo vulnerata lanceae
Mucrone diro, criminum
Ut nos lavaret sordibus
Manavit unda et sanguine.
Impleta sunt quae concinit
David fideli carmine,
Dicendo nationibus:
Regnavit a ligno Deus.
Arbor decora et fulgida,
Ornata regis purpura ,
Electa digno stipite
Tam sancta membra tangere.
Beata cujus brachiis
Pretium pependit saecli,
Statera facta corporis,
Tulitque praedam Tartari.
O crux, ave, spes unica,
Hoc passionis tempore [11]
Piis adauge gratiam
Reisque dele crimina.
Te fons salutis, Trinitas,
Collaudet omnis spiritus;
Quibus crucis victoriam
Largiris, adde praemium.
Amen.
Venerdì Santo a Novara di Sicilia: i canti dei confrati
Ricolma di segni e simboli, ormai in gran parte indecifrabili e svuotati di quell’energia sacrale che si impastava con il dolore umano, in cerca del significato e del senso del vivere e del morire, la grande scena rituale della Settimana Santa in Sicilia ritorna e resiste al degrado del mondo, rivendicando radici storico-identitarie profonde. Lo spazio cerimoniale e rappresentativo della Passione, Morte e Resurrezione del Cristo invade piazze e strade, alimentando un codice rappresentativo, figurativo, sonoro, vocale e gestuale, dai mille riflessi e colori, avvolgendo in maniera inestricabile il sacro e il profano. Di colpo siamo proiettati in una dimensione altra, fuori dal tempo ordinario, in una “realtà aumentata” estraniante, che ci interroga, inquieti come siamo, sulla memoria del passato che ritorna prepotente e implode nella nostra contemporaneità, sorpresi ancora una volta dai divini e inestricabili misteri.
Al ricco catalogo dei riti isolani della Settimana Santa aggiungiamo un nuovo racconto, quello di Novara di Sicilia. Siamo sulle propaggini settentrionali dei Peloritani, dove d’improvviso si erge svettante al cielo la splendida guglia di roccia di Rocca Salvatesta, il “Cervino di Sicilia”. Un’isola nell’isola, Novara di Sicilia, fiera delle sue radici normanne, dove sembra aleggiare uno spirito di comunità e un sentimento di appartenenza ad una storia millenaria d’altra tempi, mai rinnegata o peggio barattata come prodotto turistico di consumo dei nostri giorni. La comunità novarese, soprattutto attorno alle scadenze festive religiose (dal Festino dell’Assunta, al Santo Patrono cistercense Ugo, a Sant’Antonio Abate) nutrite da una devozione di tradizione autentica e palpabile, non ostentata o esibita come feticcio, ritrova sé stessa, mostrandosi agli sguardi altrui vera e diversa. E la Settimana Santa, e in particolare il corteo penitenziale del Venerdi Santo, si configura, su questo versante di osservazione, rivelatore.
Affidandosi ai canti penitenziali di tradizione dei confrati e ai suoni delle marce funebri della banda musicale – tipici ed esclusivi della comunità novarese – ecco prendere forma lungo il reticolo del borgo medievale un vero e proprio teatro sacro. Le azioni rituali con al centro i simulacri dei Misteri, si affidano alle fonti narrative e di drammatizzazione del Miserere e del “O Dulcissimu Jesu”, confermando – come scrive puntualmente Giuliana Fugazzotto – la centralità del canto polivocale attestata in tantissime comunità siciliane.
A Novara di Sicilia è davvero palpabile la ricerca collettiva consonante di uno spazio di spiritualità riflesso dai misteri della passione, dove i calchi della storia e della tradizione si riempiono di un vissuto e di sentimenti di religiosità autentici, custoditi con naturalezza e discrezione, sulla soglia dell’indicibile. A raccontare il Venerdì Santo di Novara di Sicilia ci si affida non solo alla scrittura ma anche al racconto filmato che ha consentito la pubblicazione, per i titoli editoriali di Tracce del Museo Cultura e Musica Popolare dei Peloritani di villaggio Gesso-Messina, di un DVD “Ecce Lignum Crucis -Venerdì Santo a Novara di Sicilia, unito ad un booklet.
Sullo sfondo della tela Quaresimale di epoca ottocentesca del monumentale Duomo di Novara di Sicilia, – “a Matrici” secondo la parlata locale, intitolato alla Santissima Maria Assunta – davvero rara da osservare in altri centri della provincia messinese e dell’intera Isola, sulla quale domina il Cristo crocifisso sul Golgota, si mette in scena il dramma della Passione, Morte e Resurrezione del figlio di Dio. Un evento, questo, che cambia il corso della storia dell’uomo secondo il credo cristiano, rivissuto nel centro peloritano, replicando fedelmente un copione di azioni rituali, liturgiche e paraliturgiche di antica memoria, ricolme di sacralità e intrise di una drammatizzazione fortemente partecipata.
Un’esperienza catartica collettiva per rivivere da testimoni oculari, nella drammaturgia sacra del Triduo Pasquale, l’ingiusta crocifissione del figlio di Dio, necessaria nel disegno divino per sconfiggere la morte e giungere alla Pasqua di rinascita, consegnando all’uomo la promessa della vita eterna.
Dopo la Coena Domini e la visita ai sepolcri del Giovedì Santo, la comunità dei fedeli e le confraternite si ritrovano il Venerdì Santo nel tardo pomeriggio ancora una volta nella chiesa “a Matrici” per dare vita alla lettura a più voci del Passio, ovvero della Passione e morte di Gesù Cristo, secondo il racconto evangelico di S. Giovanni.
Alle drammatiche sequenze narrative delle ultime ore di vita del figlio di Dio, segue l’esposizione, l’adorazione, il bacio devozionale e, dunque l’esaltazione collettiva della Santa Croce, tra i gesti di pietà popolare, che ci ricollegano all’epoca medievale, fonte sorgiva delle espressioni di religiosità popolare, così com’ è attestato dai versi gregoriani dell’antiphona Ecce lignum Crucis.
A confermare ulteriormente la centralità del culto e devozione della Santa Croce, ecco l’ascesa, di grande forza rituale e pieno coinvolgimento emozionale dell’intera comunità dei fedeli, del Cristo crocifisso sulla sommità del Golgota, che domina il paesaggio della tela quaresimale. Dopo il precetto eucaristico, le confraternite, quelle di Sant’Antonio da Padova, detta della “Taccia”, della Madonna della Cintura o Consolazione, meglio conosciuta come quella dei “Mastri”, e le consorelle dell’Addolorata, si avviano a dare vita alla processione penitenziale del Venerdì Santo.
Ed ecco, dalla sacrestia uscire l’antico baldacchino, assieme alle lanterne, sotto il quale prenderà posto il parroco, in passato l’arciprete, esponendo al culto collettivo il reliquiario d’argento contenente frammenti della Santa Croce. Ad accogliere all’uscita del Duomo il fercolo della figura dolente della Madre del figlio di Dio, le meste cadenze musicali di una marcia funebre eseguita dallo storico corpo bandistico novarese, istituito nel 1800, intitolato dal 1999 al benemerito M° Giuseppe Caruso, diretto dal 2015 dal M° Fortunato Porcino.
A proposito delle marce funebri intonate lungo il corteo penitenziale, annotiamo tra le altre, “Quiete eterna” del M° Carmelo Fazio, direttore della banda novarese tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, oltre la celebre “Una lacrima sulla tomba di mia madre” di A. Vella. Suoni strumentali di cordoglio che si irradiano nello spazio immobile e attonito del centro storico urbano, trasfigurato in uno spazio sacralizzato.
Il corteo penitenziale, che vede sfilare i confrati e le consorelle con gli stendardi a lutto pain, secondo l’antica lingua gallo-italica della comunità novarese di origine normanna, accompagna il fercolo dell’Addolorata e il reliquario della Santa Croce, fin sul corso Nazionale, sostando in prossimità della chiesa di San Nicolò.
Da questo antico luogo di culto, detto “Santa Nicoa”, edificato tra Cinque e Seicento, prendono forma altri Misteri della Passione e morte di Cristo. A quello di “Gesù alla colonna”, segue il Crocifisso ligneo, oggi raggiunge un’altezza di quattro metri, mentre un tempo superava i dodici. A suscitare un cordoglio collettivo tangibile è l’urna con il Cristo morto, portato a spalla dai confrati dell’Immacolata, la confraternita più antica, fondata nel lontano 1613, chiamata volgarmente “Sciabbica”.
Nel rispetto di un percorso e gerarchia di sfilata, che si replica da tempo immemorabile, il corteo penitenziale, completo ora in tutte le sue figure-simbolo della Passione e Morte di Cristo, si avvia lungo le stradine medievali di Novara. Ad aprire il corteo i confrati di Sant’Antonio da Padova, assieme al fercolo di “Gesù alla Colonna”. A seguire il fercolo della “Madre trafitta”, accompagnato dalle consorelle dell’Addolorata, come donne fra donne unite dalla stessa drammatica esperienza. Poi è la volta dei confrati della Madonna della Cintura, con la vara del Crocifisso.
A chiudere la processione funebre del Venerdì Santo, l’urna del “Cristo morto”, portato a spalla dai confrati dell’Immacolata Concezione, e il reliquario della Santa croce esposto dal sacerdote, alla venerazione dei fedeli, cui si accompagna il gruppo dei cantori.
Temi narrativo-musicali e vocali del dramma vissuto dal figlio di Dio fatto uomo, che scandiscono l’itinerario penitenziale, le marce funebre eseguite dal complesso bandistico e un singolare canto della comunità novarese. O dulcissime Jesu, questo il titolo del testo intonato dai cantori-confrati, nel più vasto panorama dei canti polivocali di tradizione popolare, a parti e ad accordo, ancora intonati in molti centri del Messinese e in altri siciliani, ha dei caratteri propri ed esclusivi, sia sul piano verbale, che riguardo lo stile vocale interpretativo. Il canto si configura come un tipico montaggio, meglio una giustapposizione, di versi assunti da almeno tre testi di antica tradizione liturgica.
O Jesu mi dulcissime vanta infatti una lunga tradizione di canto, anche polifonico, con firme di autori di musiche di assoluto valore, come quelle di Felice Anerio e di Giovanni Gabrieli, fra Cinque e Seicento. Nel caso di Novara di Sicilia, dal canto originario si utilizza solo il primo verso in una formula melodica vocale originale replicata dopo aver intonato il racconto della Via Crucis in brevi sequenze in latino, alternate dall’intonazione del Miserere nobis. Quest’ultimo testo devozionale lo si rintraccia in altri repertori popolari, anche del Messinese, come nel caso di Longi.
Il Miserere Nobis è attestato da un’antica memoria interpretativa devozionale, fra colto e popolare, che prende ispirazione dal salmo 50 della Bibbia, ed è storicamente prescritto dalla liturgia romana come parte integrante dell’ufficio delle Tenebre, da eseguire a luci spente durante la funzione del Mattutino. Il profilo melodico del canto del Venerdì Santo di Novara richiama lo stile monodico gregoriano, configurandosi come un caso di conservazione interpretativa unico, ben lontano dalla prassi polivocale popolare, oscillante fra testi in latino, spesso liberamente reinterpretati, e quelli in siciliano più narrativi, con voci sforzate, quasi gridate, per accentuare lo strazio del martirio e identificarsi nel dramma patito da Gesù Cristo, agnello sacrificale per la salvezza dell’uomo.
È interessante osservare che sulla scena della Settimana Santa siciliana, tra i tanti eventi di drammatizzazione rituale e teatrale, ricolmi di tracce di antica memoria di pietà popolare, sulla soglia del Mistero pasquale fra morte e vita, quello di Novara di Sicilia, si configura tra i più esemplari e fortemente identitari, perché ha custodito meglio di altre comunità, replicandoli nella purezza e verità fino ad oggi, le antiche espressioni di religiosità popolare, unite sincreticamente alle prescrittive forme liturgiche, avvicinando così la terra al cielo, in cerca di un’armonia andata in frantumi.
I due orizzonti cerimoniali, quello gerarchico-clericale, con le sue regole vincolanti, e quello sedimentato nel corso dei secoli dalla pietà popolare, custodita e replicata dalle confraternite, chiamate a dare vita a quel teatro della passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo, necessario all’uomo perché si riconosca nel figlio di Dio crocifisso e nella Madre addolorata, a differenza di altri centri isolani, segnati da cesure, o peggio, da contaminazioni e spettacolarizzazioni ad uso turistico, a Novara di Sicilia conservano uno spirito antico, che ti avvolge e coinvolge, in un tempo sospeso, proiettando l’intera comunità in una dimensione altra, con sguardo di stupore sull’eternità.
Il linguaggio dei segni e dei simboli, incarnato da azioni rituali, gesti penitenziali, figure evocative, davvero esemplari, si alimenta poi di un codice musicale nella forma del canto del dolore e del pianto, dall’energia spirituale contagiosa, per l’ingiusta morte del Salvatore, e dei suoni strumentali del cordoglio sommesso delle marce funebri, che danno forma all’invisibile, rendendo percepibile emozionalmente la koinè popolare.
Altra singolarità del lungo corteo penitenziale di Novara di Sicilia, e che, a metà percorso, rientra nel Duomo, da dove, dopo l’omelia del sacerdote, riprende l’itinerario processionale nel reticolo di stradine a valle del centro, per poi concludersi con il rientro dei Misteri nella chiesa di San Nicolò, mentre l’Addolorata prosegue mestamente in solitudine fino al rientro nella chiesa Madre.
A confortare lo strazio di Maria Addolorata si intona, seconda una versione locale di tradizione, lo Stabat Mater. Composto nel XIII secolo dal beato Jacopone da Todi, la preghiera-sequenza è stata nei secoli musicata da grandi autori, penetrando anche nei repertori polivocali popolari siciliani del Venerdì Santo, così com’è attestato dall’ampia diffusione in area nebroidea, con pratica del canto attiva ancora oggi a Santo Stefano di Camastra e Caronia.
Dopo la dolorosa esperienza del Venerdì di dolore per l’ingiusta morte del figlio di Dio, che vede la comunità unità dagli stessi sentimenti ed emozioni forti di cordoglio e di rigenerazione spirituale, il Sabato Santo celebra nelle ore serali l’attesa Veglia pasquale di rinascita a nuova vita, un deus ex machina unico e singolare che richiama gli effetti speciali spettacolari del teatro barocco. Al canto del Gloria in excelsis Deo, ecco dischiudersi il sepolcro, ricolmo di fiori primaverili, dal quale sorge imperioso e luminoso, sconfiggendo la morte, il Cristo risorto, offrendo all’uomo un nuovo orizzonte di vita ed eternità.
Dialoghi Mediterranei, n. 60, marzo 2022
[*] Giuliana Fugazzotto è l‘autrice di I canti tradizionali della Settimana santa in Sicilia e il repertorio di Barcellona Pozzo di Gotto; Mario Sarica è l’autore di Venerdì Santo a Novara di Sicilia: i canti dei confrati
Note
[1]R. Leydi, L’altra musica. Etnomusicologia, Giunti-Ricordi, Firenze 1991:182
[2] P. Toschi, La poesia popolare religiosa in Italia. Firenze, Olscki, 1935.
[3] Remy de Gourmont, Le latin mistique, Paris, Crès, 1913: 287 e M.P. Giardini, “I canti religiosi in Italia” in Lares XXXII, 1966: 31 e segg.
[4] Cfr. I doli du Signuri. Canti della settimana santa in Sicilia (CD con booklet), a cura di M. Sarica e G. Fugazzotto. Ethnica 10. 1994.
[5] P. Toschi, op. cit.: 83.
[6] R. Leydi in: Booklet allegato ai dischi Albatros ALB 21 Canti liturgici di tradizione orale a cura di P. Arcangeli, R. Leydi, R.Morelli, P. Sassu: 21.
[7] Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti, UTET, Torino, 1984; v. Stabat Mater
[8] B. Baroffio in: Booklet allegato ai dischi Albatros ALB 21, op.cit.: 30.
[9] Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti, UTET, Torino, 1984; v. Miserere.
[10] La trascrizione che qui pubblichiamo non si riferisce all’esempio audio inserito, ma ad un’altra esecuzione, precedente, dello stesso gruppo di cantori.
[11] Nella festa dell’Invenzione della Croce nel tempo pasquale si dice: Paschale quae fers gaudium. Nella festa dell’Esaltazione: In hac triumphi gloria. Negli altri tempi: Gentis redemptae gloria.
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Giuliana Fugazzotto, dottore di ricerca in “Studi audiovisivi: cinema, musica e comunicazione”, è stata docente di Etnomusicologia presso l’Università di Udine-Gorizia e di Informatica musicale presso l’Università di Bologna. Negli anni Novanta, in seguito alla sua collaborazione con il Centro di Sonologia Computazionale di Padova, ha pubblicato lavori pionieristici di analisi etnomusicale con l’uso di tecnologie informatiche. Ha svolto un’intensa attività di ricerca sul campo in Sicilia e in Sardegna e ha raccolto, studiato, restaurato e ripubblicato per le etichette Ethnica e Phonè le fonti storiche dei repertori siciliani-italiani registrate su dischi a 78 giri, di cui possiede una delle più importanti collezioni private. Fra i suoi ultimi lavori ricordiamo: “Sta terra nun fa pi mia”. I dischi a 78 giri e la vita in America degli emigranti italiani del primo Novecento (Udine, Nota); I quattro siciliani. La straordinaria vicenda di Rosario Catalano e del suo quartetto nell’America degli anni Venti (Udine, Nota); Ethnic Italian Records. Analisi, conservazione e restauro del repertorio dell’emigrazione italo-americana su dischi a 78 giri (Cargeghe, Editoriale Documenta).
Mario Sarica, formatosi alla scuola etnomusicologica di Roberto Leydi all’Università di Bologna, dove ha conseguito la laurea in discipline delle Arti, Musica e Spettacolo, è fondatore e curatore scientifico del Museo di Cultura e Musica Popolare dei Peloritani di villaggio Gesso-Messina. È attivo dagli anni ’80 nell’ambito della ricerca etnomusicologica soprattutto nella Sicilia nord-orientale, con un interesse specifico agli strumenti musicali popolari, e agli aerofoni pastorali in particolare; al canto di tradizione, monodico e polivocale, in ambito di lavoro e di festa. Numerosi e originali i suoi contributi di studio, fra i quali segnaliamo Il principe e l’Orso. Il Carnevale di Saponara (1993), Strumenti musicali popolari in Sicilia (1994), Canti e devozione in tonnara (1997); Orizzonti siciliani (2018).
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