di Sergio Todesco
Il recente, interessante, libro di Massimo Recalcati (La luce delle stelle morte. Saggio su lutto e nostalgia, Feltrinelli 2022) stimola ancora una volta una riflessione sui meccanismi che sovrintendono alla costruzione della memoria. Meccanismi che non sempre giungono alla consapevolezza di coloro nella cui psiche essi hanno svolgimento.
Il tema è quello del lutto, inteso come perdita di una persona cara ma anche come stato di privazione derivante da una frattura, un allontanamento, la fine di qualcosa che per chi lo patisce ha rappresentato un valore, si tratti della persona amata, di un’amicizia o di un luogo domestico dal quale si sia stati costretti ad allontanarsi. In tutti questi casi la sensazione luttuosa si accompagna alla nostalgia, al dolore proveniente dall’assenza accompagnato dalla speranza di potersi prima o poi ricongiungere all’oggetto del proprio desiderio:
«Perdere chi dava senso alla nostra vita significa perdersi. Sono i due lati del trauma della perdita: l’oggetto sprofonda nel nulla e il soggetto lo segue. La perdita del senso è anche la perdita dell’essere del bambino. Questo significa che la scomparsa di chi abbiamo amato è innanzitutto la scomparsa di un luogo familiare: non è più dove io lo incontravo, là dove sapevo che viveva, non è più nella nostra casa, nel nostro letto, non è più qui, non frequenta più quel posto dove lo attendevo sempre….» (Recalcati, 2022: 27)
«Lutto e nostalgia appaiono come una coppia di termini profondamente legati. Eppure non si possono confondere. Se è vero che, per un verso, la nostalgia porta sempre con sé una cifra melanconica, uno sguardo rivolto al passato, non possiamo, per un altro verso, identificare la nostalgia con la struttura clinica della melanconia. In quest’ultima, infatti, come abbiamo visto nella prima parte, il lavoro del lutto diviene impossibile a causa della cronicizzazione della reazione luttuosa: il soggetto resta identificato inconsciamente all’oggetto perduto. È morto tanto quanto è morto chi lo ha lasciato [……]. Con la nostalgia entriamo invece in un mondo diverso, sebbene al centro di questa esperienza emotiva, come accade per il lutto, vi sia comunque il grande tema della perdita. Ma se il lavoro del lutto, almeno come lo intende Freud, nel suo esito finale dovrebbe liberarci dall’oggetto perduto siglando la sua scomparsa definitiva, nel vissuto nostalgico chi scompare non scompare mai del tutto. In questo senso si tratta di un sentimento la cui presenza nella nostra vita convalida l’idea che non esiste compimento possibile del lavoro del lutto, poiché l’esperienza della nostalgia è innanzitutto l’esperienza dell’essere visitati da chi è scomparso; dai ricordi, dalle sensazioni, dalle immagini che ci vincolano a ciò che abbiamo irreversibilmente perduto» (Recalcati, 2022: 89-90)
I temi del libro di Recalcati sono proprio il lavorìo del lutto, un’attività destinata a non avere mai fine, e la nostalgia che ad esso si accompagna. L’autore ci suggerisce che esiste una prassi reintegrativa “sana”, consistente nell’elaborare la sensazione luttuosa attraverso il recupero dell’oggetto o del soggetto assenti assumendoli e interiorizzandoli come “care memorie”, facendoli in tal modo entrare a far parte del proprio bagaglio affettivo ed esistenziale senza però farsene irretire in un circuito malsano fatto di nostalgia ossessiva, che ripropone sempre di nuovo quanto manca come causa di dolore permanente. Ciò che è scomparso dal nostro orizzonte affettivo, ci suggerisce l’autore, deve continuare a brillare ai nostri occhi esattamente come fa la luce delle stelle morte, delle stelle che non esistono più ma il cui chiarore, attraversando migliaia di anni luce, giunge ancora a essere da noi percepito:
«Le due versioni della nostalgia riflettono in modi profondamente diversi l’esistenza della luce senza stella. Mentre la nostalgia-rimpianto resta impigliata in un atteggiamento luttuoso – non dimentica mai la morte della stella e quindi trascura la bellezza della luce –, la nostalgia-gratitudine sa contemplare lo splendore dell’apparizione della luce come resto del corpo morto della stella, della luce come presenza viva di un’assenza» (Recalcati, 2022: 105).
Recalcati sviluppa la propria analisi attingendo all’ampia casistica offerta dalla sua pratica professionale, e sotto tale profilo le sue proposte ermeneutiche risultano ampiamente condivisibili. Rimane però il rammarico che il nostro autore – per misconoscenza o per voluta (e in tal caso colpevole) trascuratezza – abbia omesso di utilizzare opere che gli sarebbero state utili per trasferire il tema del suo studio dalla dimensione meramente individuale, da esaminare solo in una prospettiva psicoanalitica, a una dimensione comunitaria, collettiva, passibile di analisi antropologiche di più ampio respiro.
Ernesto de Martino al tema dell’evento luttuoso e delle varie e articolate strategie volte a fronteggiare la crisi della scomparsa di una persona cara, fornendo a tale crisi un orizzonte rituale valevole a riscattarla dal rischio di “passare con ciò che passa”, ha dedicato un’opera di capitale importanza, rimasta tutt’oggi pietra miliare negli studi antropologici non solo italiani, Morte e pianto rituale, nella quale lo studioso dimostra come la crisi del cordoglio possa essere superata e inserita in un sistema coerente di recupero mnestico solo a condizione che di essa si faccia carico non già una sola persona bensì un gruppo solidale partecipe dei medesimi orizzonti mitico-rituali.
Nelle pagine iniziali di tale opera de Martino cita un brano di Benedetto Croce (I trapassati), tratto da Frammenti di etica (1922), che avrebbe anch’esso aiutato Recalcati a incardinare il proprio discorso per entro una linea di pensiero che, con tutta evidenza, era già sviluppata molto tempo prima che lui affrontasse tali tematiche. Ecco il lungo brano di Croce:
«Che cosa dobbiamo fare degli estinti, delle creature che ci furono care e che erano come parti di noi stessi? “Dimenticarli” risponde, se pure con vario eufemismo, la saggezza della vita. “Dimenticarli”, conferma l’Etica. “Via sulle tombe”, esclamava Goethe, e a coro con lui altri spiriti magni. E l’uomo dimentica. Si dice che ciò è opera del tempo; ma troppe cose buone, e troppe ardue opere, si sogliono attribuire al tempo, cioè a un essere che non esiste. No: quella dimenticanza non è opera del tempo; è opera nostra, che vogliamo dimenticare e dimentichiamo. [...] Nel suo primo stadio, il dolore è follia o quasi: si è in preda a impeti che, se perdurassero, si conformerebbero in azioni come quelle di Giovanna la Pazza. Si suol revocare l’irrevocabile, chiamare chi non può rispondere, sentire il tocco della mano che ci è sfuggita per sempre, vedere il lampo di quegli occhi che più non ci sorrideranno e dei quali la morte ha velato di tristezza tutti i sorrisi che già lampeggiarono. E noi abbiamo rimorso di vivere, ci sembra di rubare qualcosa che è di proprietà altrui, vorremmo morire con i nostri morti: codesti sentimenti, chi non li ha, purtroppo, sofferti, o amaramente assaggiati? La diversità o la varia eccellenza del lavoro differenzia gli uomini: l’amore e il dolore li accomuna; e tutti piangono a un modo. Ma con l’esprimere il dolore, nelle varie forme di celebrazione e culto dei morti, si supera lo strazio, rendendolo oggettivo. Così cercando che i morti non siano morti, cominciamo a farli effettivamente morire in noi. Né diversamente accade nell’altro modo col quale ci proponiamo di farli vivere ancora, che è di continuare l’opera a cui essi lavorarono, e che è rimasta incompiuta» (Croce, 1922: 22-24).
Sulla scorta della suggestione crociana l’etnologo napoletano sviluppa una teoria del superamento della crisi luttuosa che non fa che riprendere e ulteriormente sviluppare alcuni degli esiti teorici presenti ne Il mondo magico, in cui pratiche eccentriche rispetto alla cultura moderna quali la magia giovavano a riscattare la persona dalla crisi della presenza originata da ciò che successivamente lo stesso de Martino definì «l’eterna potenza del negativo quotidiano». Analogamente, in Morte e pianto rituale la lamentazione funebre e le varie e articolate tecniche del pianto (e del corpo) attivate presso le plebi rustiche lucane in occasione di eventi luttuosi hanno l’eguale finalità di superare la condizioni patologiche – e tendenzialmente autodistruttive – di ebetudine stuporosa, di depressione melanconica o di atteggiamenti di vitalità irrelata e violenta.
De Martino non fa insomma che ricordarci come il compito dell’umana cultura consista sostanzialmente nel «far passare nel valore ciò che in natura corre verso la morte», e che proprio tale meccanismo di plasmazione del negativo, che attraverso determinate forme di fictio mitica-rituale riportano tutto quanto rischia di sfuggire al controllo umano nell’alveo rassicurante di una regola culturale, compartecipata e condivisa all’interno di una tradizione in un tempo storico determinato. Già in quell’opera de Martino avvertiva – alquanto pioneristicamente dato l’anno in cui il libro fu pubblicato, il 1958 – tutti i limiti di quanto alcuni psicoanalisti avevano teorizzato in tema di cordoglio:
«Le teorie psicoanalitiche del cordoglio hanno in comune il limite fondamentale di restare essenzialmente al di fuori della grande tradizione culturale che riconduce il lavoro del cordoglio al “far morire i nostri morti in noi”, cioè al far passare i morti nel valore, trascendendo con ciò la situazione luttuosa. La vicenda della libido oggettuale che nel cordoglio sarebbe impegnata a distaccarsi dall’oggetto perduto e ad impiegarsi in un nuovo oggetto parrebbe adombrare in qualche modo ciò che abbiamo chiamato “trascendimento della situazione luttuosa”: ma in realtà la libido (o vitalità) non va oltre la polarità del piacere e del dolore e delle corrispondenti reazioni, e l’oggettivazione secondo forme di coerenza culturale non è opera della vitalità, ma dell’ethos del trascendimento. Anzi il chiudersi della vitalità in se stessa, la sua recessione dialettica, costituisce il rischio del cordoglio e la minaccia di una crisi nella quale possono apparire, degradati sul piano meramente vitale e in una vicenda impropria e irrisolvente, i compiti ai quali l’ethos del trascendimento sta venendo meno: una crisi in cui il far morire ideale e interiore può scadere nell’impulso materialmente distruttivo, l’interiorizzazione del morto smarrirsi nel mangiare il morto, la necessità della ripresa e della liberazione degradarsi nello scoppio irrefrenabile di riso, nell’erotismo e nella fame, e infine il complesso degli scacchi del trascendimento essere avvertito come estrema abiezione e come colpa radicale». (de Martino, 2021: 55)
Egli non perdeva infatti mai di vista la necessità di collocare sempre ogni realtà da investigare entro le tre fondamentali coordinate di spazio, tempo e struttura sociale:
«Il dispiegarsi delle forze naturali ciecamente distruttive, la morte fisica della persona cara, le malattie mortali, le fasi dello sviluppo sessuale, la fame insaziata senza prospettiva, racchiudono – in date circostanze – l’esperienza acuta del conflitto fra la perentorietà di un “dover fare qualche cosa” e il funesto patire del “non c’è nulla da fare”, da intendersi non già come rassegnazione morale (nel qual caso sarebbe una forza) ma come crollo esistenziale» (de Martino, 2021: 21-22).
«La verità è che l’ampiezza della crisi davanti al cordoglio è il riflesso di una fondamentale precarietà esistenziale per cui la presenza dispone di una povera memoria retrospettiva e di una angusta coscienza prospettica di comportamenti culturalmente efficaci. L’ethos della presenza non è una grazia che scende dall’alto (anche se così può apparire ai singoli individui nei momenti in cui si innalza improvvisa la loro iniziativa risolutrice), ma sta salda nella misura in cui si viene realizzando nel viver civile, e in un mondo in cui l’uomo è uomo per l’uomo. Quando questa realizzazione è angusta la realtà della presenza è labile, e quando si accumula soltanto la memoria dei propri scacchi e si ha esperienza soltanto della irrazionalità delle forze naturali e della schiacciante oppressività delle forze sociali, ogni momento critico in cui si manifesta un passare ostile all’uomo può, nella carenza di forze culturali da mobilitare, scatenare la crisi. Le plebi rustiche, e particolarmente le donne, delle comunità agricole in cui vigono ancora rapporti precapitalistici e semifeudali sono appunto in queste condizioni: ecco perché la crisi del cordoglio assume in loro forme così estreme, bisognose di essere adeguatamente fronteggiate, ed ecco perché vi si mantengono le tecniche di lamentazione; un’opera di incivilimento che si mantenga esclusivamente sul piano della predicazione religiosa o “morale” è pertanto destinata ad avere qui una efficacia limitata» (de Martino, 2021: 335-336).
Ma in ambito antropologico, e per limitarci al solo panorama italiano, non solo a de Martino è accaduto di riflettere sui meccanismi del cordoglio e delle risposte culturali all’evento luttuoso volte a determinare forme di reintegrazione psicologica e sociale. Prima e dopo di lui Alberto M. Cirese, Antonino Buttitta, Francesco Faeta e Marina Malabotti, Luigi M. Lombardi Satriani e Mariano Meligrana, Mario Bolognari, Ignazio E. Buttitta e molti altri si sono interrogati e hanno in vario modo investigato le modalità che nelle culture popolari i vivi adottano per rapportarsi ai morti.
G.F.G. Hegel, ad esempio, pur non trattando esplicitamente della crisi del cordoglio, ci offre nella sua Enciclopedia delle Scienze filosofiche in compendio un brano sulla follia (anch’esso citato in MPR) nel quale le vicende intime e individuali caratterizzate da stati patologici derivino da una difficoltà di chi ne è affetto a superare un determinato contenuto critico dell’esistenza. Egli annotava così puntualmente: «[…] il soggetto, quantunque elevatosi alla coscienza intellettiva, è ancora suscettibile di malattia, e cioè, può restare fermo in una particolarità del suo sentimento di sé, la quale egli non può elaborare come idealità e sorpassare […]. Ciò è la follia» (Hegel, 1967: 379-380). Nel pensatore tedesco è assai forte e presente il concetto di Aufheben, togliere e contemporaneamente conservare. Applicando tale pratica elementarmente umana al tema del lutto, potremmo dire che la crisi del cordoglio comunitariamente vissuta si traduca in un togliere lo strazio dell’assenza e conservare la cara memoria di chi non c’è più……
I lavori degli studiosi sopra citati mostrano parimenti come non possa darsi un’analisi della crisi da cordoglio senza inserirla all’interno di un gruppo sociale e di una tradizione in grado di fornire modelli comportamentali, tecniche del corpo, strategie di reintegrazione valevoli a neutralizzare il rischio di “passare con ciò che passa”. Che si tratti di pratiche devozionali connesse al culto dei morti, di rapporti onirici con essi, di cibi rituali che ne consentano l’introiezione, di feste al cui interno i defunti periodicamente tornino a negoziare la propria presenza con i viventi, si tratta pur sempre, nei mille modi che la cultura suggerisce, di far morire i morti di una seconda morte culturale per poterli recuperare sotto forma di perenni interlocutori.
Nella cultura tradizionale siciliana, e del Meridione in genere, ogni tipologia di affezione psicopatologica viene trattata quasi sempre all’interno di un quadro terapeutico di ordine simbolico, caratterizzato da sincretismi magico-religiosi. Secondo Alfonso M. Di Nola «i due ambiti di magia e di follia si configurano come espedienti per reagire al rischio del non-esserci nella storia (e si tratta, quasi sempre, di un rischio determinato da conflittualità economiche o da incomprensione e indecifrabilità del codice della società egemone)» (Di Nola, 1981: 24-25).
Nostalgia è il termine usato per descrivere l’intero fascio di tutti quei sentimenti, reazioni, speranze, timori, sogni espressi da chi non possiede più un punto fermo esistenziale. In quest’ottica la nostalgia non può essere separata da ciò che la domesticità del rapporto con una persona cara rappresenta, soprattutto a livello simbolico. In particolar modo per i sopravvissuti il disorientamento deriva dall’impossibilità di stabilire con esattezza l’origine precisa di una perdita che non si limita a quella tangibile di una persona, intesa nella sua corporeità, ma che si allarga alla perdita di tutti i tipi di rapporti personali che il soggetto ha intrattenuto con essa, all’interno della fitta rete di relazioni che comprende la presenza di chi non c’è più rispetto agli altri e all’ambiente sociale che lo circondava.
I sentimenti di solitudine e spaesamento dovuti a una scomparsa sono in fondo gli stessi manifestati da Pier Paolo Pasolini riguardo al collasso della civiltà contadina, da lui adombrato attraverso la potente e suggestiva metafora della scomparsa delle lucciole (Scritti Corsari, articolo del 1 febbraio 1975). Ma anche a tale forma di nostalgia, forse gratificante sotto il profilo psicologico come lo è stato per tanti della mia generazione ma poco concludente sul piano della progettualità socio-politica, molti anni dopo è giunta da parte di uno storico dell’arte e filosofo francese, Georges Didi-Huberman, una proposta alternativa:
«Sarebbe questa, in conclusione, l’infinita risorsa delle lucciole: il loro ritirarsi, quando è ‘forza diagonale’ e non un ripiegarsi su se stesse; la loro comunità clandestina di ‘scintille di umanità’, quei segnali inviati per intermittenze; la loro essenziale libertà di movimento; la loro facoltà di fare apparire il desiderio come ciò che è indistruttibile per eccellenza. […..] Sta a noi non vedere scomparire le lucciole. Ma per fare ciò dobbiamo acquisire la libertà di movimento, il ritirarsi [retrait] che non sia ripiegamento su noi stessi, la facoltà di fare apparire scintille di umanità, il desiderio indistruttibile. Noi stessi – in disparte [en retrait] rispetto al regno e alla gloria, nella lacuna aperta fra il passato e il futuro – dobbiamo dunque trasformarci in lucciole e riformare, così, una comunità del desiderio, una comunità di bagliori, di danze malgrado tutto, di pensieri da trasmettere. Dire sì nella notte attraversata da bagliori, e non accontentarsi di descrivere il no della luce che ci rende ciechi» (Didi-Huberman, 2009: 92).
La prima impressione che la lettura del libro suscita è dunque che Recalcati non abbia compreso come le problematiche relative alla morte non si possano richiudere nel mero ambito individuale, ambito che rischierebbe così di trasformarsi in scomoda camicia di Nesso buona a strozzare qualunque altra prospettiva, ma esigano di essere analizzate e valutate sempre entro dimensioni comunitarie, all’interno di realtà sociali e di orizzonti ideologici storicamente determinati.
Nella prospettiva “moderna” di Recalcati l’operatore psicoanalitico diviene dunque il solitario sciamano di singole personalità prive di un orizzonte simbolico condiviso da una comunità intera, laddove presso le culture tradizionali di ogni tempo è radicato il principio che nessuno si salvi da solo e che il fine da perseguire in ogni crisi non sia tanto quello di “non soffrire”, quanto piuttosto quello di offrire alla sofferenza un apparato rituale valevole a farla defluire all’interno di un quadro collettivo.
Cos’altro è, in fondo, il farsi rischiarare dalla “luce delle stelle morte” se non porre in essere strategie di quella che de Martino definiva la destorificazione protettiva? In aggiunta a ciò, occorre valutare nella loro pregnanza le dense pagine dedicate da Francesco Faeta alla funzione negoziatoria delle immagini fotografiche dei defunti e da Rosario Perricone alla memoria rituale, in rapporto all’utilizzo delle stesse immagini in grado di agire quali dispositivi di passaggio utili a ricongiungere mondi ormai irrelati, e al contempo rassicurare la comunità sulla congruità e persistenza dei propri orizzonti culturali ed esistenziali.
Ultima notazione in conclusione. Chi, ancorché privo di pregiudizi adotti uno sguardo ampio, antropologico, e non circoscritto alla folla solitaria che popola le nostre giornate storiche, non potrà non notare lo scarto che intercorre tra l’umiltà scientifica di studiosi come Ernesto de Martino, da una parte, che tanto in Morte e pianto rituale quanto nelle numerose pagine preparatorie al volume sulla fine del mondo e sulle apocalissi culturali (libro pubblicato postumo e rimasto pertanto prezioso laboratorio di idee) si accostava con rispetto alle articolate scritture di psichiatri, psicologi, letterati per riuscire a esaminare nella sua interezza il tema della crisi della presenza, del finire e del faticoso lavorìo volto a fronteggiarne i rischi, e l’autosufficienza epistemologica, dall’altra, di coloro i quali si ritengono paghi di quanto il proprio ambito disciplinare consente loro di elaborare intorno a temi universali, quali la morte e la crisi di ogni assenza effettualmente sono.
Dialoghi Mediterranei, n. 60, marzo 2023
Riferimenti bibliografici
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Sergio Todesco, laureato in Filosofia, si è poi dedicato agli studi antropologici. Ha diretto la Sezione Antropologica della Soprintendenza di Messina, il Museo Regionale “Giuseppe Cocchiara”, il Parco Archeologico dei Nebrodi Occidentali, la Biblioteca Regionale di Messina. Ha svolto attività di docenza universitaria nelle discipline demo-etno-antropologiche e museografiche. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra le quali Teatro mobile. Le feste di Mezz’agosto a Messina, 1991; Atlante dei Beni Etno-antropologici eoliani, 1995; IconaeMessanenses – Edicole votive nella città di Messina, 1997; Angelino Patti fotografo in Tusa, 1999; In forma di festa. Le ragioni del sacro in provincia di Messina, 2003; Miracoli. Il patrimonio votivo popolare della provincia di Messina, 2007; Vet-ri-flessi. Un pincisanti del XXI secolo, 2011; Matrimoniu. Nozze tradizionali di Sicilia, 2014; Castel di Tusa nelle immagini e nelle trame orali di un secolo, 2016; Angoli di mondo, 2020; L’immaginario rappresentato. Orizzonti rituali, mitologie, narrazioni (2021).
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