È ormai diffusa, anche nel dibattito italiano, si spera, la consapevolezza che l’idea di tempo sia una delle questioni centrali dell’Antropocene. Così il decimo anno di Dialoghi Mediterranei, inaugurato proprio da questo numero, ci conduce, autori e lettori, a una riflessione duplice: il tempo che viene a noi dal passato e il tempo che viene a noi dal futuro.
Chi avrebbe immaginato nel lontano 2017 (sì, personalmente è un anno lontanissimo) quando ho cominciato a scrivere per Dialoghi, che ci saremmo trovati qualche anno dopo con pandemia, una guerra nel cuore dell’Europa che rischia di diventare mondiale, un Mediterraneo, ancora se non di più, teatro di uno dei più grandi disastri umani e umanitari della storia recente, destre estreme alla ribalta e governi di grandi democrazie sotto assedio. Allora la domanda è “potevamo prevederlo”? Se qualcuno aveva previsto la comparsa di pandemie, se qualcuno aveva avvertito nell’aria un crescente ritorno di fascio-populismi, se qualcuno sapeva che la “questione” delle migrazioni nel Mediterraneo non avrebbe mai trovato neanche un modo fra tanti per almeno mitigare il numero di morti in mare, dei torturati in Libia, se qualcuno aveva predetto l’escalation russo-ucraina, qualcun altro allora, e forse molti e molte, non aveva prestato la dovuta attenzione, non avevano allenato l’immaginario, non avevano studiato abbastanza, non si erano impegnati abbastanza, o semplicemente quel qualcun altro continua a vivere nel torpore finché anche la sua metaforica casa non verrà metaforicamente spazzata via.
Nel lontano, lontanissimo 2017, stavo ancora studiando all’Università per cui il grosso delle ansie da cittadino-prodotto e produttivo mi era precluso. Adesso il pensiero sul tempo che viene dal passato, sul tempo che viene dal futuro è diventato un fatto personale, estremamente personale, così è pure più comodo parlare anche agli altri e per gli altri.
Qualcuno ragionava sul fatto che l’antropologia sta tendendo a confermare l’ipotesi che l’intero complesso di cose che chiamiamo cultura abbia alla base proprio un processo di riscrittura del passato, una rinarrazione di fatti, racconti, memorie del passato proprî di una comunità al fine di rinnovarne il carattere di adattabilità ai nuovi tempi, contesti e ambienti. L’auto-ri-racconto di una comunità sarebbe pertanto la base della cultura stessa di quella comunità.
Come ci raccontavamo noi quindi nel 2017 e come lo facciamo oggi? È necessario prima di capire come ci ri-racconteremo domani o almeno come dovremmo farlo alla luce dei mutamenti manifesti dell’agenda antropocene. Se l’auto-ri-racconto del sé annoierebbe sicuramente il lettore, proviamo allora a grandi linee a ricordare quale fosse il grande tema sociopolitico nel nostro Paese all’epoca: i migranti. Quell’anno alcune forme di populismo, demagogia, tendenti come sempre a certi discorsi razzistici, omotransfobici ecc., preparavano il terreno alle elezioni che si sarebbero tenute l’anno dopo. Erano anni in cui si temeva un ritorno di certe istanze autoritarie un po’ in tutto l’Occidente. E in questo, il migrante (non la migrazione quindi come fenomeno ma la sua incarnazione) era il perfetto capro espiatorio di molti problemi, il simbolo di molti malfunzionamenti, il portatore di caos, delinquenza, povertà. Ricordiamo tutti la retorica sui social di certi partiti e personaggi.
Con il passare del tempo, dopo i decreti sicurezza, il migrante è piano piano scivolato via dalle luci della ribalta salvo poi tornare anche nel fatidico ruolo di untore durante la pandemia. Ed è triste ancora oggi ricordare come anche questa ennesima manovra retorica meschina, salvo qualche lamentela, sia passata inosservata senza nessuna reale condanna e presa di posizione da tutto il resto della comunità. I risultati delle ultime elezioni ci portano all’oggi, ai primi mesi del 2023, inaugurati con il via libera in Senato del “decreto ONG” [1] di cui, per esempio, Save the Children illustra le implicazioni:
«Il decreto ordina alle Ong di procedere allo sbarco subito dopo ogni operazione di salvataggio. Una misura che ostacola ulteriori salvataggi, contrastando con quanto sancito dall’UNCLOS (Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare), che obbliga il capitano a prestare assistenza immediata alle persone in difficoltà. A questo si aggiunge la recente prassi governativa di assegnare come porti di sbarco luoghi lontani dalle aree di salvataggio: di fatto, le Ong sono obbligate a trascorrere molto tempo in mare, con a bordo persone già in situazione di vulnerabilità, e senza poter effettuare altri salvataggi.
In assenza di uno sforzo di pattugliamento e soccorso statale italiano ed europeo, l’allontanamento forzato delle navi di soccorso delle Ong aumenta il rischio di perdita di vite umane in mare. Il decreto impone inoltre compiti eccessivi e ingiustificati al comandante della nave, che dovrebbe raccogliere i dati dei richiedenti asilo: un processo che è invece a carico degli Stati e, come evidenziato dall’UNHCR, deve essere svolto solo dopo lo sbarco in un luogo sicuro e una volta soddisfatte le necessità immediate» [2].
Dal migrante, dalle coste africane, l’attenzione si sta quindi via via spostando sempre più geograficamente in “alto”, e il mare diventa quindi vero e proprio territorio di confine, una frontiera da tenere mortale, come barriera fra noi e loro. Un Mediterraneo-campo di battaglia dal quale adesso si vuole impedire di tirar fuori le vittime designate perché tali devono rimanere. Al di fuori del nostro sguardo, inabissati, oppure lontani, altri viaggi sempre più lontani, per scoraggiarli, che sia da monito per tutti, anche per quelli dalla “nostra” parte. Nonostante alcuni precedenti tentativi affini a tale decreto siano stati dichiarati illegittimi da alcuni tribunali così come preventivamente il contenuto stesso [3], e nonostante il testo debba ancora passare al Senato, tutto ciò ci ricorda come le cose si siano evolute, come le storie siano state raccontate in questi anni e come queste storie abbiano generato politiche disumane che si sono tramutate in leggi (poi riviste) o che potrebbero diventarlo.
Al di là dell’esito di questo ennesimo decreto che fa propaganda sulle vite dei più in difficoltà, è importante quindi valutare come nello spazio di qualche anno una certa cultura razzistica, populista, del più becero complottismo e del più gretto irrazionalismo si sia innestata nel nostro Paese e non solo. Se c’è comunque ancora speranza, se i decreti sicurezza dello scorso governo alla fine sono stati quantomeno rivisti e umanizzati [4], se c’è chi ancora lotta contro queste retoriche, chi pratica nel quotidiano un sano attivismo a favore dei valori di uguaglianza, dei diritti umani, dell’inclusività, lo si deve a una piccola fetta fra gli attori protagonisti del dibattito culturale del nostro Paese che sono riusciti a mantenere vivo un modo diverso di raccontare il fenomeno migratorio, la “questione” migranti e tutto ciò che ruota attorno.
Oltre la scuola, a cui quasi mai si dà attenzione e rilevanza sul piano del discorso culturale, oltre all’Università, che alle volte riesce ad avere un proprio esponente in qualche talk show costretto o costretta sempre fra gruppi di non meglio intesi come “opinionisti” o “giornalisti” (categoria, quella dell’editoria tutta per la quale ci vorrebbero una serie di articoli di approfondimento dedicati), rimane il piccolo ma strenuo mondo di riviste, periodici, piccole testate, blog, che cercano di resistere al collasso cognitivo antropocentrico in generale e a un’editoria su carta e televisiva sempre più a servizio di sponsor, views e audience.
È questo numero quindi l’occasione per riflettere sull’importanza del lavoro di riviste come Dialoghi Mediterranei, che stanno riuscendo, proprio in questi ultimi difficili anni, a mantenere lucidità e libertà di analisi sui fatti del mondo. Nel tempo che ci arriva dal passato, Dialoghi è sempre stato in prima linea nello schierarsi a favore dei diritti umani, contro le oppressioni, i razzismi, i revisionismi alimentati da una certa cultura politica e ahinoi intellettuale. Inoltre, la prospettiva antropologica, multiculturale e multidisciplinare è ciò che continua a fornire un reale sguardo di insieme sui fenomeni e soprattutto utili strumenti interpretativi per decostruire quelle false narrazioni che in questi anni hanno portato a certe derive come detto poco sopra. Se infatti l’auto-ri-racconto del passato è lì pronto per essere studiato e decostruito appunto, non con la stessa facilità ci si può confrontare con il tempo che arriva dal futuro e la sua azione culturale sul nostro presente.
Intercettare ora le destinazioni, le modalità, le intenzioni con cui – che sia fra una settimana, cinque mesi o un paio d’anni – le narrazioni, i fatti, le memorie di oggi verranno riraccontate domani, è cruciale per comprendere davvero le traiettorie sociopolitiche e culturali del presente e del futuro. Se dal tempo del dopo non ci arrivano di certo scenari confortanti, prospettive floride, ma soltanto altre emergenze, altre migrazioni di massa, altre privazioni di diritti in sempre più luoghi del mondo (anche il nostro, sì), intercettare oggi le storture in potenza, le false retoriche, le manipolazioni propagandistiche, le narrazioni antiscientifiche, diventa necessario per costruire un’idea di futuro che vi si possa opporre e che lo faccia da oggi.
Da qui l’antropologia come strumento cognitivo essenziale per avere sempre una prospettiva ampia nel tempo e nello spazio, fra le culture e i popoli, così come l’approccio multidisciplinare, la capacità ossia di raccogliere interpretazioni, dati e soprattutto voci da tutti i campi del sapere. Ciò che fino a qualche anno fa sembrava un gioco di qualche intellettuale è ora manifesto, presente, e già nella sua fase post per certi versi. La bolla di pace e prosperità in cui ha vissuto l’Occidente europeo per decenni è esplosa e il nostro Paese, per la sua storia e la sua geografia, avrebbe tutte le carte in regola per porsi come traino culturale nello sviluppo di narrazioni alternative a quelle oscurantiste e razzistiche, e nella costruzione di un’idea di futuro diverso, più umano e più capace, il che significa più solidale, inclusivo e di pace.
Dialoghi Mediterranei, n.60, marzo 2023
Note
[1] Scrive LaRepubblica.it il 15 febbraio: «ROMA - L’Aula della Camera ha approvato il decreto legge Ong con 187 voti a favore, 139 contrari e 3 astenuti. Il testo ora passa al Senato. Contro il dl voluto dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi – che, tra l’altro obbliga le navi umanitarie che prestano soccorso nel Mediterraneo a portare i naufraghi nel porto deciso da Roma, senza poter aiutare altri disperati (i cosiddetti soccorsi multipli) – si sono espressi, tra gli altri, 65 parlamentari tedeschi, chiedendo, inutilmente, alla Camera di bocciare la proposta»
(https://www.repubblica.it/cronaca/2023/02/15/news/migranti_decreto_ong_via_libera_della_camera
con_187_voti_favorevoli-388154420/).
[2] https://www.savethechildren.it/blog-notizie/conversione-del-decreto-ong-non-siamo-d-accordo
[3]https://www.ansa.it/sicilia/notizie/2023/02/13/il-decreto-ong-e-illegittimo-salvare-tutti-per-gli-obblighi-internazionali_7246a0e6-fbe5-41fe-b229-ff5d8723b64f.html; https://www.ilriformista.it/il-decreto-anti-ong-viola-la-costituzione-la-carta-dei-diritti-delluomo-e-il-diritto-del-mare-343775/
[4] https://www.internazionale.it/notizie/annalisa-camilli/2020/10/06/modifiche-decreti-sicurezza-salvini
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Giuseppe Sorce, laureato in lettere moderne all’Università di Palermo, ha discusso una tesi in antropologia culturale (dir. M. Meschiari) dal titolo A new kind of “we”, un tentativo di analisi antropologica del rapporto uomo-tecnologia e le sue implicazioni nella percezione, nella comunicazione, nella narrazione del sé e nella costruzione dell’identità. Ha conseguito la laurea magistrale in Italianistica e scienze linguistiche presso l’Università di Bologna con una tesi su “Pensare il luogo e immaginare lo spazio. Terra, cibernetica e geografia”, relatore prof. Franco Farinelli.
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