di Mariza D’Anna
Il suo sguardo diretto è rivolto agli ultimi del mondo, seguendo eventi, luoghi, situazioni di marginalità, povertà e disagio e restituendo attraverso l’occhio della macchina fotografica una immagine riconoscibile e diretta a cui tutti possono avere accesso.
Il suo occhio attento e allenato nasce anche dall’impegno sociale e si trasferisce nell’attività di fotoreporter del mondo degli ultimi portando con sé un cuore grande contro tutte le ingiustizie.
Francesco Bellina è un fotogiornalista trapanese. Dei suoi 34 anni, poco meno di venti li ha trascorsi seguendo la passione per la fotografia e finiti gli studi ha deciso di lasciare la città di origine e spostarsi a Palermo.
Ed è a Palermo che il suo progetto prende forma, da Ballarò, cuore pulsante di una città che accoglie un’umanità derelitta. A Ballarò vivono tante donne arrivate dal Centro Africa come schiave del sesso per lavorare e alimentare il giro di prostituzione che si svolge sotto gli occhi di tutti e nell’indifferenza collettiva. Ma i progetti di Bellina portano lontano.
«Avevo già sviluppato questo mio interesse verso gli ultimi, verso i migranti che con mezzi di fortuna riescono ad approdare nelle coste siciliane, costretti a mettere a rischio le loro vite e quelle dei familiari pur di trovare un approdo sicuro in Europa. Li avevo incrociati anche a casa mia a Trapani, al Centro Cara di Salinagrande (ora chiuso e presto sede del neonato Comune di Misiliscemi, ndr) e avevo documentato la paura e l’orrore di questi uomini e queste donne spaventati e spaesati in attesa di un futuro incerto. Mi avevano colpito le misere condizioni di vita che venivano riservate loro nei centri di accoglienza e avevo raccolto molti scatti per farne una mostra da portare in giro per l’Italia».
Da quella mostra il viaggio fotografico di Bellina è andato molto avanti o forse, per meglio dire, è andato indietro perché, presa coscienza di questo suo grande interesse, ha iniziato a viaggiare per i Paesi del Nord e del Centro Africa per comprendere alla radice i fenomeni migratori, studiarli prima di fotografarli, restarci dentro per averne una visione reale.
Ha così testimoniato con i suoi scatti la povertà e le difficoltà quotidiane della gente delle città e dei villaggi per procurarsi acqua, cibo, indumenti per coprirsi. Fino a quando ha pensato di ripercorrere il viaggio infernale che le donne africane, schiave del sesso, continuano a compiere ancora oggi dalle coste libiche per arrivare in Italia e negli altri Paesi europei.
«In uno dei miei viaggi sono giunto in Niger nella regione del Sahel, crocevia della maggior parte dei traffici di esseri umani e da lì mi sono spostato in Nigeria, in Benin, in Ghana, in un’Africa che non è mai la stessa. Il territorio africano è un luogo molto complesso da comprendere ma con denominatori comuni tra i vari Paesi. Il mio lavoro mi consente di conoscere e vedere questi mondi diversi tra loro e mi permette di non fermarmi a ciò che vedo e fotografo ma di andare al di là, avvicinandomi con discrezione e pudore alle vite degli altri cercando di passare inosservato per restituire con i miei scatti più angoli di verità possibili».
Ma cosa spinge un giovane fotografo a percorrere un viaggio così duro?
«Non è solo l’appassionante lavoro che svolgo ma è lo sguardo aperto sugli ultimi, sulle sofferenze dei popoli. Scavando nelle ragioni storiche, ambientali e sociali voglio capire la loro realtà. I temi che mi sorprendono e che mi appassionano sono quelli che mi consentono di vedere e capire i punti di vista che sono sempre diversi da come appaiono».
Il compagno di viaggi con cui ha condiviso esperienze, avventure, difficoltà e racconti è il giornalista Giacomo Zandolini. Molti progetti tra i quali quello sulle migrazioni e sulle criminalità organizzata transnazionale sono firmati da entrambi.
I loro lavori sono stati pubblicati da importanti media internazionali – Al Jazeera, The Guardian, The Globe and Mail, Paris Match, Internazionale, Le Monde, The Washington Post, l’Espresso, per citare i più importanti – ai quali si è affiancata la collaborazione con le Ong e con Unhcr e altre organizzazioni internazionali. Nella biografia di Francesco Bellina si leggono riconoscimenti importanti: è stato nominato (nel 2016 e nel 2017) per il World Press Photo Joop Swart Masterclass; ha partecipato a mostre a Bari, Torino, Palermo. Tra i suoi lavori più importanti c’è “Nigerian Connection” nel 2018 e “Tanakra” nello stesso anno che raccontano il traffico umano tra il Niger e la Libia. I risultati di questi lavori sono stati esposti all’Università di Neuchatel in Svizzera e presentati come studio socio-politico in conferenze alle Università di San Diego, California e allo Spring College Hill.
I tempi erano ormai maturi quindi quando si è cimentato nel progetto “Oriri”, opera editoriale e esposizione fotografica presentata il 10 gennaio scorso a Palazzo Sant’Elia di Palermo. Costruita tra il 2016 e il 2020 grazie al supporto del Comune di Palermo, della Fondazione Sant’Elia, della Fondazione Sicilia e di Arci Porco Rosso, il volume fotografico insieme alla mostra sono curati dal fotografo monzese Luca Santese fondatore di Cesura.
«Raccontiamo – spiega Bellina – un progetto nato con un obiettivo e cresciuto nel tempo per dire molto di più di quello che ci eravamo prefissati. È un urlo di dolore, una denuncia ma anche una speranza. Oriri è un rituale vudù ancora presente in alcune comunità, nella lingua Bini significa incubo, spirito e racchiude immagini forti, scatti che inducono a pensare senza giudizio, senza cercare un retro pensiero».
Continua Bellina:
«Sono partito dall’incubo per fare un viaggio a ritroso nei luoghi dove vengono reclutate le donne che diventano schiave del sesso. Mi sono fermato in Nigeria, Paese natale di quasi tutte le vittime incatenate da un rito ancestrale che lega le donne agli sfruttatori. Stiamo parlando di decine di migliaia di ragazze ancora giovanissime che vengono vendute come schiave sessuali nelle città occidentali. Il loro viaggio è infernale, arrivano molto spesso via mare negli stessi barconi nei quali si imbarcano con i rifugiati in fuga dalle guerre e dalla povertà. Il loro è un destino al quale non possono sfuggire perché appena toccano terra sono destinate allo sfruttamento sessuale».
Il fotoreporter ha avviato il suo viaggio fotografico da Palermo dove abitano alcune protagoniste schiave della tratta ed è andato indietro al deserto del Niger, all’arida regione del Sahel, crocevia di quasi tutti i traffici di esseri umani, fino alle chiese del Ghana, luoghi di preghiera e di speranza in contrasto con il Benin, dove il vudù è religione ufficiale. Bellina arriva in Nigeria e lì si ferma: è quello il Paese natale di quasi tutte le vittime della tratta ma anche il luogo da cui poter ricominciare una nuova vita.
Mi spiega qualcosa che è difficile da comprendere:
«Un rito ancestrale, iniziatico lega le donne del centro Africa, e in particolare del Niger, ai loro sfruttatori in un legame indissolubile. L’elemento iniziatico è la chiave di comprensione di questo fenomeno. Le donne non sono mai fotografate in viso, ma sempre di spalle, curve sotto un fardello fisico e ideale. I paesaggi che fanno da sfondo ai soggetti raccontano la determinazione ma anche la speranza, il folklore delle feste vudù e l’orrore degli sciamani che preparano gli intrugli a base animale. Nelle maschere di sangue o nella salvezza di un bambino concepito durante il viaggio, “Oriri” propone un doppio finale, di condanna o redenzione».
Le fotografie, nella durezza dei soggetti, sono delicate e raccontano vari aspetti di questo legame religioso e rituale tra le donne vittime di schiavitù sessuale e gli sfruttatori che ricorrono anche a sacerdoti locali per rafforzare il loro assoggettamento. Il progetto “Oriri” è stato curato dallo Studio Forward di Palermo che ha inteso valorizzare la documentazione e la narrazione nel progetto più ampio di valorizzazione della cultura dell’arte di cui è portavoce con Forward edizioni, casa editrice d’autore che con le sue pubblicazioni intende rivalutare l’oggetto libro nell’epoca del digitale.
«Il mio viaggio non si è fermato in Niger – spiega Bellina – mi ha portato nel Benin, unico Paese dove il vudù è religione ufficiale e dove quindi il rituale non è visto come illegale ma ha un ruolo positivo nella società. Sono stato anche in Ghana da dove parte la tratta internazionale di migranti, e in Nigeria dove anche qui i rituali religiosi e le tradizioni si legano alle attività criminali e al traffico di essere umani. La città di Agades, in Niger è un altro snodo fondamentale per la tratta, partono da lì attraversano il deserto del Tenerèe e arrivano in Libia».
Fino alla Sicilia.
«Si, la Sicilia, anche qui gli sfruttatori trovano un terreno permeabile che si intreccia con la mafia locale e per questo non si arresta ma prolifera».
Il punto di vista di Bellina oggi, dopo anni di viaggi, reportage, incontri, spazia in una visione globale del fenomeno immigrazione e la conoscenza dell’Africa centrale che ha sviluppato in questi anni gli consente di vederne tutte le bellezze e le unicità e restituisce a chi si avvicina ai suoi scatti una visione vera e reale mai invadente o crudele.
Dialoghi Mediterranei, n. 60, marzo 2023
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Mariza D’Anna, giornalista professionista, lavora al giornale “La Sicilia”. Per anni responsabile della redazione di Trapani, coordina le pagine di cronaca e si occupa di cultura e spettacoli. Ha collaborato con la Rai e altre testate nazionali. Ha vissuto a Tripoli fino al 1970, poi a Roma e Genova dove si è laureata in Giurisprudenza e ha esercitato la professione di avvocato e di insegnante. Ha scritto i romanzi Specchi (Nulla Die), Il ricordo che se ne ha (Margana) e La casa di Shara Band Ong. Tripoli (Margana 2021), memorie familiari ambientate in Libia.
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