il centro in periferia
di Eugenio Imbriani
Il Salento è la parte più meridionale della Puglia, una penisola nella penisola. Oggi se ne ha genericamente una nozione piuttosto ristretta dal punto di vista geografico, perché lo si fa coincidere con la provincia di Lecce, mentre invece dovrebbe comprendere anche quella di Brindisi e la parte meridionale della provincia di Taranto. In questo modo si rispetterebbe una supposta omogeneità linguistica, malgrado le mille variazioni della parlata dialettale romanza e l’esistenza di un’enclave in cui ancora adesso è presente, per quanto poco in uso, la lingua grica, di chiare origini greche. D’altro canto, l’antica fondazione greca di Taranto, il nome stesso di città come Gallipoli, Leuca, Calimera, la diffusione sul territorio di cripte bizantine, l’isola linguistica albanese a ridosso del capoluogo ionico spiegano bene i plurisecolari collegamenti dell’area con l’altra sponda dell’Adriatico.
Gli autori antichi rimandano l’origine del nome al mitico Sale, uno dei due figli di Minos, re di Creta, luogo, secondo qualcuno di essi, da identificarsi con l’Albania. Il giovane lasciò la reggia del padre e con un’armata attraversò il mare, muovendo alla conquista delle terre d’occidente. Stando a queste fonti, Sale sarebbe anche il termine con cui nel passato, chissà quando, veniva indicato il fetore di zolfo che tutt’ora si solleva dalle grotte marine, e che veniva attribuito alle carcasse dei giganti uccisi da Eracle, dopo averli inseguiti da Gaeta, le cui lunghe ossa si vuole che siano state intraviste tra gli scogli di Leuca.
Pare, dunque, che il Salento, almeno in alcune sue parti, fosse inquinato già alle origini. Nei secoli seguenti non sono mancate le affezioni malariche, oltre alla fame e alla miseria, per tacere delle epidemie più gravi (ma fu un medico salentino, Antonio Miglietta, tra i primi a sperimentare e sostenere la vaccinazione contro il vaiolo agli albori dell’’800) [1], e quelle mandate dai santi: la povera Michela Margiotta, che viveva del suo piccolo orto, doveva far fronte alle pretese di san Donato e di san Paolo che la vessavano inviandole richieste di offerte e sofferenze [2].
I tempi sono cambiati e anche nel Salento sono sparite le lucciole, come diceva Pasolini, il mondo rurale si è spopolato, ha cambiato volto, la conduzione delle campagne, tranne le dovute eccezioni, si è trasformata in gioco e passatempo destinati il più delle volte alla produzione di scorte per la famiglia o poco più. Da alcuni anni in qua, in un arco breve di tempo l’intero paesaggio agrario è stato stravolto dal disseccamento delle piante che lo hanno fortemente caratterizzato, gli ulivi, con conseguenze irrimediabili per la produzione di beni alimentari e le attività lavorative; mentre imperversa l’invasione di funghi nocivi e batteri inattaccabili, si intona il mea culpa per i sotterramenti su larga scala di rifiuti sospetti, l’inquinamento delle falde acquifere e dell’aria, lo spargimento pluridecennale e capillare di tonnellate di diserbanti e veleni vari.
Lo stato dei luoghi è compromesso, sul versante ionico, dalle emissioni tossiche determinate dall’attività della mastodontica acciaieria di Taranto (ora Arcelor Mittal) realizzata negli anni sessanta del secolo scorso nel quadro di un vasto programma di industrializzazione dell’Italia (dall’IRI, Istituto per la ricostruzione industriale). Sulla costa adriatica, a sud di Brindisi, giganteggia la centrale termoelettrica a carbone Federico II, in funzione dal 1997, di cui con non poco ritardo si progetta la conversione al gas. A ridosso della cittadina adriatica fu costruito negli anni sessanta anche il polo petrolchimico che, a sua volta ha procurato importanti problemi ambientali. Non mancano, più a sud, le polemiche sul cementificio di Galatina (attivo dal 1953), con cui si è aperto un contenzioso, che dura ormai dal 2017, tra l’azienda e i comuni dell’area che hanno istituito un coordinamento civico. Val la pena ricordare l’abusivismo edilizio lungamente praticato, specialmente lungo le coste, la destinazione di vaste zone a impianti di pannelli fotovoltaici, l’apparizione delle torri con le pale per la produzione di energia eolica.
Evidentemente, molte decisioni riguardanti le strategie di crescita e di gestione del territorio sono state in qualche modo imposte da una autorità poco incline all’ascolto delle esigenze espresse dai cittadini; per esempio, l’occhio rivolto verso l’industrializzazione ha trascurato di osservare i processi di abbandono delle campagne, oppure l’urbanizzazione disordinata, o coltivi in gran parte molto parcellizzati e, come dicevamo, non sempre rispettosi dell’ambiente; penso, tra l’altro, all’abuso della plastica per la protezione dei semenzai e dei germogli e, più banalmente, di vasi e sacchi e contenitori vari. Veramente, la rapida diffusione del disseccamento, oltre a stravolgere il paesaggio contrassegnato dagli ulivi plurisecolari, con le chiome maestose, i tronchi cavi e contorti, ha comportato anche il ravvedimento di molti operatori e ha generato una sorta di revisione critica della faciloneria con cui troppo spesso si è svolto il lavoro negli uliveti.
Il Salento è diventato una meta fortemente attrattiva per il turismo di massa, soprattutto in estate, grazie al mare, alla bellezza delle città barocche, e non secondariamente alla forte valorizzazione del patrimonio della cultura popolare; vi è stato negli anni un importante interessamento dell’industria cinematografica, con una amplificazione della visibilità dei luoghi; si registra anche un commercio più selettivo di masserie in disuso, acquistate e rimesse a nuovo, ristrutturate come resort o abitazioni private di lusso, orti conclusi, isole ben perimetrate, in una campagna punteggiata da seconde case spesso circondate da spazi semiaridi che neanche madre natura riesce a disciplinare.
Su tutto questo aleggia il ritmo della pizzica pizzica (la tarantella locale) e lo copre con un velo sonoro, nell’atmosfera festaiola che regna per un paio di mesi l’anno, in nome del dio turismo. Durante la recente Borsa Internazionale del Turismo (Bit) che si è svolta a febbraio a Milano, nell’affollato stand della Puglia tre ragazze si sono esibite in camicia rotolando su un lenzuolo al suono dei tamburelli per far vedere a quelli là, i visitatori col cellulare in modalità record, le bellezze locali: non le ginocchia delle signorine, attenzione, ma il tarantismo in azione. Povera Maria di Nardò, aveva ragione a lamentarsi degli antropologi infami che l’avevano messa in piazza, folle e in mutande, per giunta senza chiederle il permesso.
Sono nodi che vengono al pettine. Nei giorni 2 e 3 febbraio 2023, si è tenuto a Lecce, nell’Università del Salento, un convegno dal titolo “Riabitare il Salento”, ispirato, in forma esplicita, al più vasto programma “Riabitare l’Italia” ideato e portato avanti dalla omonima associazione [3], che ha già prodotto numerosi progetti e ricerche sui temi che riguardano le aree interne dell’Italia, soggette da decenni a un progressivo spopolamento, all’impoverimento, alla riduzione dei servizi pubblici. Molti paesi non sono in grado di sostenere la pur dichiarata voglia di restare da parte di un’alta percentuale di giovani ed è difficile per loro, una volta che si siano allontanati per lo studio o per lavoro, tornarci se non giunti alla fine della carriera e per brevi viaggi sentimentali. Invertire lo sguardo, partire dai margini, o, meglio, dalle zone marginalizzate, consente l’osservazione della varietà, della molteplicità di risorse trascurate e mal governate, ora che i “centri” badano e bastano soprattutto a sé stessi e crescono i problemi delle periferie, delle zone montane, delle coste aggredite da una urbanizzazione aggressiva e asistematica.
Il convegno ha rappresentato il punto di partenza di un progetto, ideato da un sociologo dell’università salentina, Angelo Salento, e da un urbanista del Politecnico di Milano, Francesco Curci, il cui fine sarà la realizzazione di un volume a più mani; l’iniziativa ha coinvolto alcuni dei più fattivi attori di “Riabitare l’Italia”, l’editore Carmine Donzelli, Antonio De Rossi, Arturo Lanzani, Sabrina Lucatelli, Mimmo Cersosimo, Filippo Barbera, con altri studiosi e operatori: i sociologi Mariano Longo e Gianfranco Viesti, il geografo Fabio Pollice (rettore di Unisalento), botanici ed esperti di economia agraria come Piero Medagli, Francesco Minonne, Fabiana Fassi, l’urbanista Angela Barbanente con apprezzati trascorsi politici nella giunta regionale.
Il Salento non è nelle condizioni critiche di spopolamento che si registrano altrove, specialmente nelle zone montane, sebbene anche nei paesi della provincia non manchino le case vuote. I promotori del progetto sintetizzano la situazione in tre punti critici, fondamentalmente, che si possono scomporre in numerose articolazioni: il collasso dell’agricoltura, determinato dalla gestione improvvida delle campagne, destinate sostanzialmente alla monocoltura olivicola; una crisi industriale, nata con la delocalizzazione delle imprese del settore tessile e calzaturiero, ma che dà qualche segnale di rinascita; la crisi del terzo settore. Il volume, ancora alle prime fasi della gestazione, si strutturerà anch’esso in tre parti: la prima dedicata alla descrizione degli scenari or ora indicati, con particolare attenzione al declino demografico e alla condizione dell’ambiente; la seconda vuol dare conto delle forze sociali in gioco, della loro composizione, delle esperienze innovative e di cooperazione; la terza parte è destinata ad accogliere un quadro organico di proposte che riguardino ambiente, economia fondamentale (vale a dire quelle infrastrutture utili per tutti, beni che non si possono acquisire con il reddito), produzione culturale, turismo in versione sostenibile.
Riabitare il Salento, ha suggerito Donzelli nel suo intervento, significa impegnarsi a correggerne gli squilibri, considerare i rapporti tra vuoto e pieno, tra insediamenti e ambiente. Giusto, significa anche intervenire su quel che manca e dare il giusto riconoscimento a quei gruppi e a quelle persone che nel frattempo si sono adoperati per colmare qualche vuoto. Significa conoscere il territorio in tutte le sue componenti per agire in modo pianificato e proficuo; a questo proposito voglio spezzare una lancia in favore dell’università locale: onestamente, credo che abbia fatto e continui a fare la sua parte, perché il territorio è stato ed è oggetto d’indagine in tutti i suoi aspetti; inoltre, non è vero che parli solo a se stessa e solo se stessa ascolti: è vero, invece, che c’è un problema di traduzione in pratica dei saperi, ma quante distorsioni operano le politiche culturali, quanto opportunismo si cela nell’uso e nel riuso dei lavori e delle proposte degli studiosi (quando vengono presi in considerazione).
Quanti, come me, si occupano di cultura popolare, sono diventati talmente laici che ormai da alcuni anni considerano quelle distorsioni come oggetto di studio. Fabio Pollice, come ho già detto geografo e rettore di Unisalento, nel suo intervento ha lamentato lo sfilacciamento dei rapporti tra istituzioni e associazioni di categoria, e l’assenza di una visione complessiva, ha parlato della necessità dell’investimento patrimoniale e dell’investimento affettivo nei luoghi.
Ho sentito raccontare la Puglia come scrigno di “meravigliosità”, proprio in occasione della ricordata Bit, da un responsabile della promozione turistica della regione: ma il luccicore negli occhi impedisce di vedere. Non sarà un’impresa facile riabitare il Salento, ma nemmeno bisogna cominciare da zero, questo progetto è partito, anche se ha fatto ancora poca strada; magari potrebbe diventare un modello sfruttabile anche in altri contesti.
Dialoghi Mediterranei, n. 60, marzo 2023
Note
[1] E. Imbriani, L’infezione magica. Saperi popolari e vaiolizzazione, in “L’Idomeneo”, n. 17, 2014: 221-228.
[2] Annabella Rossi, Lettere da una tarantata, Bari, De Donato, 1970.
[3] https://riabitarelitalia.net/RIABITARE_LITALIA/. Cfr. Antonio De Rossi, a cura di, Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste, Roma, Donzelli, 2018; Filippo Barbera et alii, Manifesto per riabitare l’Italia. Il progetto e le parole chiave, 2018, Roma, Donzelli.
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Eugenio Imbriani, professore associato di Antropologia culturale e Storia delle tradizioni popolari presso l’Università del Salento (Lecce), afferisce al Dipartimento di Storia, società, studi sull’uomo. I suoi interessi sono orientati allo studio del folklore, ai temi della cultura popolare, della scrittura e dell’esperienza etnografica, ai rapporti tra memoria e oblio nella produzione dei patrimoni culturali e delle identità locali. Ha prodotto numerose pubblicazioni, monografie, saggi apparsi su riviste, in volumi collettanei, atti di convegni; è direttore della rivista “Palaver”; dirige la Sezione etnografica del Museo Civico di Giuggianello (Le). Ha conseguito l’abilitazione nazionale alla prima fascia della docenza.
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