La sfida che il pensiero illuministico pone alla fede è certamente tra le più radicali. Rivendicando l’autonomia delle realtà terrene, l’Illuminismo sembra proporre all’uomo la possibilità di giungere alla salvezza con le sole forze della ragione, senza più alcun ricorso ad un principio trascendente. Dietrich Bonhoeffer, nella sua riflessione teologica, non ha mancato di porsi con particolare attenzione il problema. Ha sentito in modo tutto particolare il senso delle realtà terrene, sulla scia dell’eredità veterotestamentaria, ma ha avvertito, allo stesso tempo, anche l’importanza della ragione come momento essenziale per liberare l’esperienza della fede da ogni facile compromesso con la sfera mondana.
A partire dal saggio Eredità e decadenza, l’autore ricorda come il processo della secolarizzazione, che si è sviluppato lungo tutto il pensiero moderno, abbia tratto origine dalla stessa Riforma protestante e si sia progressivamente allontanato dall’originaria matrice cristiana:
«La fede biblica in Dio propria della Riforma aveva dedivinizzato radicalmente il mondo. Ciò preparava il terreno alla fioritura delle scienze razionale empiriche, e mentre gli scienziati del secolo XVII e XVIII erano ancora cristiani credenti, con la scomparsa della fede in Dio rimase solo più un mondo razionalizzato e meccanizzato» [1].
Il processo di secolarizzazione presenta quindi una ambivalenza di fondo: da una parte, si tratta di riconoscere la giusta autonomia delle realtà mondane, sottraendole alla tutela della religione, in nome di una fede che ha saputo riscoprire le proprie radici bibliche; dall’altra si rischia tuttavia di stravolgere il piano stesso delle realtà penultime, sottoponendole a una razionalità che ormai si riduce solo a tecnica: «La tecnica – dirà Bonhoeffer poco più avanti – diventa fine a sé stessa, ha una sua anima, il suo simbolo è la macchina, in cui si concreta la violazione e lo sfruttamento della natura» [2].
Di fronte a tale situazione di conflitto occorre riprendere le fila di un confronto che sia in grado di conciliare l’autonomia del mondo e la purezza della fede, secondo quanto si ricorda programmaticamente nel saggio Le cose ultime e penultime:
«Per quanto riguarda il nostro problema, la situazione spirituale della cristianità occidentale è cosi caratterizzata: ponendo in discussione l’ultimo, come accade in misura crescente da 200 anni, si pone contemporaneamente in pericolo la sussistenza del penultimo, che qui è esistito in stretta connessione con l’ultimo, e la si avvia alla sua dissoluzione. Il frantumarsi del penultimo porta a sua volta a disprezzare e a svalutare ulteriormente l’ultimo. Ultimo e penultimo sono strettamente collegati fra di loro. Qui occorre pertanto consolidare il penultimo predicando più accentuatamente l’ultimo, così come occorre proteggere l’ultimo salvaguardando il penultimo» [3].
Di fronte a una secolarizzazione che rischia di mettere in pericolo la consistenza stessa del penultimo, Bonhoeffer si ripropone perciò di garantire sia la giusta autonomia della sfera mondana, senza nascosti propositi di carattere apologetico, che la specificità della fede cristiana, come risposta ultima e trascendente, in grado di dare unità di fondo all’esistenza umana nella realtà stessa di Cristo [4]. Che l’attenzione alle realtà penultime costituisca uno dei tratti significativi che ripercorre l’intera riflessione di Bonhoeffer emerge con chiarezza dal rimando all’espressione di Grozio «etsi Deus non daretur», che costituisce nelle Lettere dal carcere uno dei nodi in grado di riassumere la parabola del pensiero occidentale lungo la modernità e insieme la sfida che il teologo intende raccogliere, per mostrare come si possa vivere «senza Dio» «davanti a Dio».
Nella lettera da Tegel del 16 luglio 1944 Bonhoeffer ripercorre infatti le tappe del pensiero moderno, da Herbert di Cherbury a Grotius, come di un cammino progressivo verso l’età adulta, in nome dell’autonomia di ciò che è mondano nei confronti di ogni trascendenza in tutti i campi del pensiero e dell’attività umana. L’età adulta del mondo, da questo punto di vista, non implica tuttavia la negazione della fede, che risulta anzi purificata da ogni residuo di carattere religioso, secondo l’accezione negativa che tale termine assume in Bonhoeffer sulla scorta di Karl Barth. Anche in un mondo che può fare a meno di Dio, possiamo riconoscere come credenti la nostra posizione di fronte a lui:
«Non possiamo essere onesti senza riconoscere che dobbiamo vivere nel mondo «etsi Deus non daretur». E appunto questo riconosciamo davanti a Dio! Dio stesso ci obbliga a questo riconoscimento. Così il nostro diventar adulti ci conduce a riconoscere in modo più veritiero la nostra condizione davanti a Dio. Dio ci dà a conoscere che dobbiamo vivere come uomini capaci di far fronte alla vita senza Dio» [5].
Possiamo trovare conferma della linea interpretativa di Bonhoeffer anche in altri passi nei quali egli sottolinea appunto l’importanza dell’Illuminismo in ordine alla giusta autonomia della sfera mondana. Questi passaggi tendono a sottolineare che fede e ragione hanno tutto da guadagnare dal processo di secolarizzazione che ha segnato il cammino del pensiero moderno, purché questo non sia visto in contrapposizione alla fede, ma piuttosto come il terreno di confronto sul quale si può misurare la sincerità dello stesso credente diventato adulto.
Il Nostro autore, a tal proposito, non si nasconde i limiti di un’esaltazione unilaterale della ragione, ma riconosce allo stesso tempo l’importanza dello spirito di ricerca e di discussione critica; così si esprime nel già ricordato saggio Eredità e decadenza:
«Il disprezzo per l’epoca del razionalismo è un segno sospetto di una mancanza di bisogno di veracità. Il fatto che l’onestà intellettuale non sia l’ultima parola sulle cose, che la limpidezza della ragione vada spesso a spese della profondità della realtà non dispensa comunque più dal dovere interiore di fare un uso onesto e corretto della ratio» [6].
In tal senso, come già ricordava Italo Mancini [7], la riflessione di Bonhoeffer va nella direzione illuministica. Al di là dell’aspetto filosofico, egli sottolinea l’importanza delle conquiste della ragione sul terreno propriamente politico: la riscoperta dei diritti dell’uomo costituisce il merito perenne del giusnaturalismo. Li si individuò nel diritto innato di ogni uomo alla libertà, nella uguaglianza di tutti gli uomini di fronte alla legge, nell’unione fraterna di tutto ciò che porta un volto umano. Bonhoeffer è tuttavia consapevole che stiamo oggi assistendo alla conclusione del processo di secolarizzazione avviatosi con la Riforma; la centralità stessa della persona sembra venir meno a causa dell’opera pervasiva della tecnica e dei progetti di nuovi ordini sociali che mettono in pericolo la libertà. L’eudemonismo sociale, che privilegia la comunità rispetto all’individuo, forse con l’obiettivo di raccogliere in un comune sentire le forze di un popolo come era accaduto con il nazionalsocialismo, non è che la parabola estrema di una falsa autonomia della sfera mondana che si ritorce alla fine contro sé stessa.
Nel saggio La vita naturale, Bonhoeffer indica a fondamento del diritto naturale il principio del dare a ciascuno il suo (suum cuique); questo assicura la priorità dei diritti dati col naturale di fronte a qualsiasi diritto positivo. Nel medesimo tempo salvaguarda il naturale da eccessi rivoluzionari arbitrari, in quanto richiama anche il diritto spettante all’altro, diritto appartenente al diritto naturale esattamente come il mio. Una volta messi tra parentesi i diritti inalienabili della persona, tutto diventa possibile; non c’è più spazio per il diritto naturale, come è avvenuto con il nazionalsocialismo, che rivendicava piuttosto i diritti del popolo e della razza:
«[l’affermazione del principio «a ciascuno il suo»] è contraddetta da quanti riconoscono solo alla comunità, ma non al singolo, un diritto naturale. Il singolo è qui solo un mezzo per il fine al servizio della comunità. La felicità della comunità sta al di sopra del diritto naturale del singolo. Considerata come principio, questa tesi è la proclamazione del socialeudemonismo e la negazione di tutti i diritti del singolo. In questo modo però si attacca la stessa vita naturale, con la distruzione del diritto del singolo si apre la via alla distruzione del diritto nella sua totalità e si imbocca la via del caos. Non è perciò un caso che la conseguenza del socialeudemonismo sia stata continuamente anche la distruzione dei diritti della comunità da parte di un dominio di violenza» [8].
Tale parabola dell’Illuminismo è dovuta, secondo Bonhoeffer, al carattere astratto con cui la ragione viene ad assumere quei diritti, che aveva contribuito a rivendicare contro ogni sorta di privilegio:
«L’Illuminismo ha pienamente ragione quando ricorda che il fenomeno etico non si riferisce a un ordinamento sociale astratto, a rappresentanti di determinati strati sociali, [...] quando si schiera con passione in favore della uguale dignità degli uomini nei confronti del fenomeno etico. Ha torto solo quando, spingendosi al di là di queste affermazioni polemiche, fa di nuovo dell’uomo una astrazione con cui – in nome dell’uguaglianza degli nomini e della loro dignità – scende in campo contro ogni ordinamento umano; ha torto quando della ragione umana, la cui essenza consiste nella libera percezione e affermazione della realtà e cioè qui di proposizioni etiche concrete, ne fa un principio astratto formale mediante cui dissolvere e distruggere ogni contenuto» [9].
Di fronte all’esito nichilistico del processo di secolarizzazione occorre riscoprire il senso positivo delle realtà mondane e nello stesso tempo il loro riferimento essenziale alla salvezza operata da Cristo. Le due affermazioni appaiono legate insieme, dato che proprio la negazione di ogni trascendenza conduce allo stravolgimento dello stesso piano naturale. Bonhoeffer intende esplicitamente superare il discredito in cui è caduto il concetto stesso di naturale nell’etica protestante e ne rivendica il carattere positivo in quanto deriva da nasci – natura, a differenza del creaturale che deriva da creare – creatura un momento di autonomia, di sviluppo autonomo, che indubbiamente risponde al tema in questione. Tale autonomia non va però intesa in senso assoluto, dato che possiamo recuperare il concetto di naturale proprio a partire dal Vangelo: «Il naturale è ciò che, dopo la caduta, è orientato alla venuta di Gesù Cristo. L’innaturale è ciò che, dopo la caduta, si chiude alla venuta di Gesù Cristo» [10].
Autonomia delle realtà terrene e ordine della salvezza non sono in conflitto, così come non possono essere in conflitto diritti e doveri, se, come Bonhoeffer ricorda con chiaro riferimento biblico, il Dio del comandamento è anzitutto il Dio della creazione:
«A un pensiero idealistico potrà suonare singolare che in un’etica cristiana si parli prima dei diritti e solo dopo dei doveri. Noi però non seguiamo Kant, ma appunto la Sacra Scrittura; e proprio per questo dobbiamo parlare prima dei diritti della vita naturale, cioè di quanto è dato alla vita, e solo dopo di ciò che le viene richiesto. Dio dà prima di richiedere. Nei diritti della vita naturale non onoriamo infatti la creatura, ma il creatore e riconosciamo la ricchezza dei suoi doni» [11].
La sfida che il processo della secolarizzazione ripropone oggi con urgenza appare quella di coniugare insieme la fedeltà alla terra e la fedeltà a Dio, per comprendere come si possa, secondo l’espressione di Bonhoeffer, «far fronte alla vita senza Dio» e porci allo stesso tempo, come credenti, «davanti a Dio». Il secondo conflitto mondiale, con la sua immane carica distruttiva, e gli altri innumerevoli conflitti, non meno devastanti, che si sono susseguiti in cinquant’anni a livello locale, stanno a testimoniare l’attualità dell’appello di Bonhoeffer: un mondo autonomo, sottratto alla legge di Cristo, precipita nella licenza e nell’arbitrio. Un cristianesimo che si ritira dal mondo cade nell’innaturalità, nell’irrazionalità, nella presunzione e nell’arbitrio. Occorre superare ogni contrapposizione tra la sfera del mondo e quella della fede in nome della salvezza operata da Cristo:
«Se pertanto la concezione etica che si basa sulla categoria dello spazio viene superata dalla fede nella rivelazione dell’ultima realtà in Gesù Cristo, questo significa che non è possibile essere realmente cristiani al di fuori della realtà del mondo e che non esiste alcuna reale mondanità al di fuori della realtà di Gesù Cristo» [12].
La risposta alle rivendicazioni dell’Illuminismo sarà possibile, ad avviso di Bonhoeffer, non nel segno di una contrapposizione, che obblighi il credente alla rinuncia o al rifiuto del penultimo in nome della fede, ma piuttosto nel segno di un’assunzione radicale del penultimo alla luce dell’ultimo, in un impegno che diventa rischio e responsabilità di fronte alla storia e, nello stesso tempo, occasione di salvezza in grado di ricondurre le diverse articolazioni all’interno di quel cantus firmus che sostiene la polifonia della vita.
Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023
Note
[1] D. Bonhoeffer, Etica, a cura di Ilse Tödt, Heinz Eduard Tödt, Ernst Feil e Clifford Green, trad. it., Carlo Danna, Opere VI, Eredità e decadenza, Queriniana, Brescia, 1995: 81-108; 91.
[2] Ivi: 93
[3] Ivi: 120-143; 141.
[4] Cfr. quanto ricordava Italo Mancini nella sua Introduzione alla prima edizione italiana dell’Etica di Bonhoeffer: «Direi che l’elemento soprannaturale permane, perché nella struttura rappresentata dall’essere di Cristo sono compresenti l’essere uomo, l’essere crocifisso, e il fatto della risurrezione. E se l’essere uomo rappresenta l’assunzione del naturale, gli altri due caratteri ne rappresentano la contestazione in forza della funzione escatologica. Qui il penultimo vive e respira solo in funzione dell’ultimo. [...] Il cristiano ha in Cristo questa doppia tangenza e questa doppia responsabilità. La partecipazione al destino del mondo è la partecipazione al destino di Dio, e viceversa. Cristo è il mediatore unico, supremo, tra Dio e la storia. «Di qui in avanti non si può parlare rettamente né di Dio né del mondo senza parlare di Gesù Cristo. Tutti concetti di realtà che prescindono da lui sono astrazioni. Qualsiasi pensiero riguardo al bene, che contrapponga il dover essere all’essere e viceversa, è superato là dove il bene divenuto realtà: in Gesù Cristo. [...] Aver parte a questa realtà è il senso vero della ricerca del bene» :I. Mancini, Introduzione, in D. Bonhoeffer, Etica, Bompiani, Milano, 1969: XXVIII-XXIX. Mancini rimanda qui ad un passo del saggio Cristo, la realtà e il bene: 164; 34 della nuova edizione sopra citata.
[5] D. Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, a cura di A. Gallas, Paoline, Cinisello Balsamo (Milano), 1988: 439-440. Per comprendere il significato dell’espressione «davanti a Dio», occorre risalire al corso di Bonhoeffer su Creazione e caduta, dove così esprime il significato della creazione: «Nello sguardo di Dio l’opera trova pace, e percepisce il compiacimento di Dio. Lo sguardo di Dio serba il mondo dalla ricaduta nel nulla, dall’annientamento totale. Lo sguardo di Dio vede il mondo come mondo buono, creato – anche se si tratta del mondo decaduto – e noi viviamo grazie a questo sguardo, con cui Dio abbraccia la propria opera, e non l’abbandona. La bontà dell’opera di Dio non significa assolutamente che il mondo sia il migliore possibile, ma che esso vive integralmente al cospetto di Dio, a partire da Dio e in vista di lui, e che Dio ne è il signore»: D. Bonhoeffer, Creazione e caduta. Interpretazione teologica di Gn 1-3, ed. critica a cura di Martin Rüter e Ilse Tödt, trad. it., Maria Cristina Laurenzi, Opere III, Queriniana, Brescia, 1992: 38. Questo essere «davanti a Dio», assume un significato pregnante in riferimento alla libertà e alla responsabilità dell’uomo: «La vita data da Dio all’uomo non è semplicemente un carattere, una qualitas dell’uomo, ma è qualcosa che gli è dato solo nella totalità dell’essere uomo, egli ha la vita da Dio e davanti a Dio, la riceve, ma non come se fosse un animale; la riceve come uomo, la possiede nella sua ubbidienza, nell’innocenza, nell’ignoranza, cioè nella libertà. Il fatto che l’uomo viva, è un evento che ha luogo nell’ubbidienza libera»: Ivi: 72.
[6] D. Bonhoeffer, Etica, cit.: 92. Il richiamo all’onestà intellettuale nasconde certamente la lettura della conferenza La scienza come professione di Max Weber; solo che, per Bonhoeffer, la scelta della fede non comporta affatto il «sacrificio dell’intelletto»: la fede non è al margine, ma al centro della vita, e si mostra in grado di esprimere la realtà nel suo senso più pieno: Cfr. M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino, 1948: 3-43; vedi in particolare la conclusione che Bonhoeffer sembra far propria, all’interno di una logica di fede che non è più fuga ma assunzione di responsabilità nel presente: «Ne vogliamo trarre l’ammonimento che anelare ed attendere non basta, e ci comporteremo in altra maniera: ci metteremo al nostro lavoro ed adempiremo al nostro lavoro al «compimento quotidiano» nella nostra qualità di uomini e nella nostra attività professionale»: 43.
[7] I. Mancini, Introduzione, cit.: XXI.
[8] D. Bonhoeffer, Etica, cit.: 144-190; 154-156.
[9] Ivi: 320-342; 330.
[10] Ivi: 146.
[11] Ivi: 152-253.
[12] Ivi: 40.
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Antonio Albanese, (Ph.D) ha studiato filosofia e teologia in diverse università italiane. Socio dell’Associazione Italiana di Sociologia, membro dell’International Centre for the Study of Religion (ICSOR), da alcuni anni partecipa alle ricerche sociologiche quanti-qualitative sulla religiosità in Italia. Collaboratore della Critica Sociologica, ha scritto numerose recensioni e svariati articoli. Autore di alcune monografie su tematiche religiose, il suo ultimo volume, in fase di pubblicazione, si intitola Processi latinoamericani: dal colonialismo alla teologia della liberazione (Aracne).
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