Ho preso in prestito il sintagma che dà il titolo a un libro [1] di poesie di Giuseppe Zagarrio (Ravanusa, 1921 – Firenze, 1994) per provare a definirne la posizione di critico e studioso, mossosi sapientemente tra il dubbio, che dovrebbe attanagliare positivamente chiunque si dedichi alla difficile analisi di una produzione letteraria in progress, e il metodo razionale che l’ha sorretto in questa faticosa impresa: metodo che si potrebbe definire come una saldatura tra una peculiare inclinazione verso l’analisi lessicale e semantica, di matrice stilistico-spitzeriana, e l’attenzione al modo in cui ogni poeta intavola un dialogo con la realtà a lui contemporanea – un’attenzione cara a chiunque, soprattutto tra gli anni Cinquanta e Ottanta, si sia ispirato alla cultura gramsciana. Ma sul metodo di Zagarrio rimane anche decisiva l’influenza del magistero critico di Luciano Anceschi, sul quale tornerò alla fine di questo ragionamento.
La “saldatura” di cui ho detto non era moneta corrente nella critica italiana di quegli anni: e rimane, ancora oggi, il segno di una grande laicità metodologica e di una “posizione” molto particolare che distingueva Zagarrio sia da certe rigidità “di scuola”, tipiche della critica accademica, sia da certe facilonerie definitorie, tipiche della critica militante. Un’altra peculiarità del lavoro critico di Zagarrio sta nell’aver trovato un punto d’equilibrio tra la serena severità del giudizio, che non teme di criticare costruttivamente anche le produzioni di poeti molto importanti o di poeti a lui molto vicini, e la rinuncia alla tanto diffusa prosopopea dell’io critico che si spiega, credo, con un’idea comunitaria di lavoro critico-poetico, affinata da Zagarrio nel clima fecondo della cultura fiorentina e in particolare nell’ultima grande stagione delle sue riviste: quelle da lui fondate, «Quartiere» e «Quasi», che ebbero non lunga vita, e «Il Ponte», la creatura di Piero Calamandrei che invece per molti anni ha prolungato il suo prestigio. Un’esperienza di lavoro, quella di Zagarrio, che vorrei meglio definire con le parole di Beppe Favati, suo amico fedele, poeta interessantissimo e colonna della redazione del «Ponte»: «aperta, gramscianamente articolata, agonale, patita nel vissuto di tanti e diversi scribi perché patita in proprio» (Favati 2022: 129).
Senza sottovalutare i risultati raggiunti da Zagarrio nelle monografie critiche dedicate ad alcuni poeti “canonici” come Luzi e Quasimodo [2] vorrei qui soffermarmi sul suo libro più noto, Febbre, furore e fiele, dal titolo «vulnerante» (Cortellessa 2022: 41), che si può considerare «la summa del lavoro critico di Zagarrio, uno dei repertori più minuziosi e lucidi della poesia italiana degli anni Settanta e Ottanta» (Zago 2000: 573): in esso Zagarrio raccolse testi critici in gran parte già pubblicati ma cucendoli insieme in un lavoro di altissima sartoria che conferisce unità e compattezza al volume (non è una metafora scelta a caso: è testualmente evidente quante connessioni e tessiture siano state create da Zagarrio tra una parte e l’altra, tra una sezione e l’altra, tra un capitolo e l’altro del volume).
Di Febbre, furore e fiele è sempre stata lodata l’ampiezza, che riflette anche la sua natura di “Repertorio della poesia italiana contemporanea 1970-1980”, come recita il sottotitolo del libro.
Senza voler sottovalutare la complessiva qualità ermeneutica di un libro scintillante di ipotesi (o di scommesse) critiche, di tassonomie, di coniazioni utilissime a classificare un magma ribollente e sfuggente, va anche detto che Zagarrio vuole tracciare, con spirito di servizio, proprio un repertorio nel quale appaiono i poeti massimi e quelli medi e minimi (ma non ignobili, s’intende): essi vengono censiti senza tacerne i differenti esiti qualitativi ma volendo primariamente leggerne le opere come “reazioni” alla temperie culturale e sociale da cui nascono. Nella sua Premessa a Febbre, furore e fiele Zagarrio rivendica la propria prospettiva di critico-poeta quando scrive che il libro non è un “bilancio” ma è semmai la “cronaca” «di una esperienza aperta, valida nella misura in cui, vissuta in proprio, può confrontarsi col “vissuto” degli altri» (Zagarrio 1983: 5): questo può accadere anche perché egli è convinto che in poesia «gli eventi linguistici fanno corpo insieme con l’impervia spinta della coscienza singola e collettiva» (Zagarrio 1983: 6). E forse non è inutile ricordare che la principale «spinta» alla poesia italiana degli anni Settanta era venuta dalla «coscienza collettiva» maturata nel Sessantotto. Da lì venivano la febbre, il furore e, forse inevitabilmente, anche il fiele.
Proprio la prima parte del libro s’intitola Nella dura prospettiva della storia. Indagine sui testi di poesia degli anni ’70, ’71, ’72. Alludendo a un verso di Luzi, Zagarrio intende sottolineare come un alto numero di opere e di poeti italiani si siano collocati, nei primissimi anni Settanta, in relazione alla storia e ai sommovimenti sociali successivi al “maggio francese”. Il discorso prende l’abbrivio da un saggio (Sul sistema e altri significanti del corpo sociale) che spitzerianamente rileva l’alta frequenza, e dunque la rilevanza, della parola “sistema” (e di altre parole della stessa area semantica come “regime”, “governo”, “ordine”) nella produzione poetica di autori grandi e medi. Dal saggio suddetto deriva l’esigenza di valutare, organizzando il discorso in sezioni, la capacità delle «prassi poetiche» di allontanarsi o meno dal «referente del corpo sociale» (Zagarrio 1983: 17); se la maggior parte delle posizioni predilige la «denuncia di una condizione umana in senso lato negativa», ecco il tratteggio di diverse vie d’uscita perché «la denuncia implica una varietà di alternative psicoideologiche e linguistico-strutturali» (Zagarrio 1983: 32). Tali risposte sono catalogate mediante sintagmi critici che ritorneranno anche nella sua prassi ermeneutica successiva, come punti fermi della sua catalogazione storicizzante: la «tendenza diversiva», l’«alternativa ottimistica», la «trasgressione dei significanti», la «proposta neocrepuscolare», l’«alternativa apocalittica», la «giusta rabbia».
Tra le idee critiche più interessanti di Zagarrio a tal proposito, segnalerei la sua posizione nei confronti di quella che sbrigativamente potremmo chiamare poesia di neoavanguardia ma che invece, poiché comprende altre e diverse voci oltre a quelle canonizzate nei Novissimi, il nostro critico preferisce rubricare all’insegna della «trasgressione dei significanti», ovvero la tendenza a una poesia che «procede nel suo movimento di sganciamento dalle strutture mediate dell’istituto letterario (intendo della letteratura bloccata nella forma istituzionale di un io narcisistico, e dunque del tutto separato); e tende a farsi dimensione globale dell’uomo e della sua im-mediata coscienza intersoggettiva (a livello, si capisce, sia del visibile che del profondo)» (Zagarrio 1983: 53).
Di fronte a una definizione così articolata e obiettiva non importa qui stabilire il grado di consonanza che Zagarrio poteva avere nei confronti di questa prassi poetica: conta semmai osservare la sua capacità di andare oltre gli schieramenti letterari consolidati, e l’un contro l’altro armati, e fare rientrare in questo discorso complessivo sulla tensione dialettica rispetto al significante anche parte della produzione di un poeta lontanissimo dalla neoavanguardia come Giovanni Giudici, il quale, scrive Zagarrio, «ha mirato costantemente al rapporto tra la poesia e la sua istituzionalità per sanarne la condizione di scissione e liberare, cioè realizzare nella prassi operativa, la possibilità di un reale incontro tra le pulsioni della vita e la ricerca di tradurle in forma» (Zagarrio 1983: 65).
Il nostro critico dimostra, insomma, una capacità di rivedere originalmente certe categorie consolidate, e forse logorate, con le quali la storiografia letteraria comunemente si destreggia, per rivitalizzarle. Ecco un altro esempio: quando egli parla della «proposta neocrepuscolare» in un capitolo che inizia nel segno di Attilio Bertolucci, il lettore deve riuscire a non fare scattare l’automatismo mentale che gli farebbe pensare qualcosa come “guarda un po’, Zagarrio considera Bertolucci un neo-crepuscolare… e cosa avrà in comune con Corazzini?”. Si tratta di aver pazienza, di leggere che Zagarrio riconosce Bertolucci come «uno dei maestri più alti del nostro Novecento poetico» e poi di riflettere sul fatto che la sua poesia gli appare collocabile tra quelle riconducibili a un «rifiuto che si esprime in un rapporto patetico […] con la realtà del sistema» proponendosi «più e meno drammaticamente come condizione intersoggettiva, di là dunque di quell’autocompiacimento in cui consiste» (Zagarrio 1983: 75) la deriva del patetismo rispetto al pathos autentico.
La capacità di coniare una definizione di ampia prospettiva, per poi specificare, al suo interno, diversità di posizioni spesso molto significative si rivela, per esempio, nel capitolo Della (giusta) rabbia, in cui Zagarrio affronta un «campo ben aperto» in cui il rifiuto si esprime in forme così diverse che egli le categorizza «a livello di ribrezzo-disgusto, di cupa volontà distruttrice, di incandescenze/escandescenze neurotiche, di estremizzazione ironica, di amarissimo clownismo e satira del tipo più frustante» (Zagarrio 1983: 121); e, in una sezione in cui ricorrono nomi di poeti già affermati, come Gilberto Finzi e Nelo Risi, mi piace ricordare lo spazio non breve che Zagarrio dedica alla silloge Riassunto, l’esordio poetico di un poeta non celebre ma tutt’altro che disprezzabile, nel quale individua una «rabbia ideologica, ma calata in forme cantabili e mediate» (Zagarrio 1983: 123): si tratta di Umberto Migliorisi [3], morto anche lui di primo maggio come, diversi anni prima, lo stesso Zagarrio.
Vale la pena di individuare, nel libro, le parti dedicate ai poeti a lui più vicini, per legami amicali e collaborazioni consolidate nelle già citate riviste fiorentine. Zagarrio ha l’onestà di non tacere tali legami ma soprattutto quella di non tacere talune divergenze d’opinione; eppure si capisce quanto anche di lui ci sia nella definizione «di un rigoroso laboratorio artigianale ai margini di ogni manifestazione o tipo di trionfalismo o di grandeur» (Zagarrio 1983: 148): e siamo ai nomi di amici carissimi come Franco Manescalchi e Beppe Favati, ma anche di Mario Lunetta e Franco Cavallo. Come ha scritto Marco Marchi,
«Pianto, umor nero, sangue; Febbre, furore e fiele. Il fare poesia per Zagarrio amplia le sue pertinenze: lo scrivere versi e il continuare a fare poesia facendo altro: critica e teoria della poesia e ancor prima, direi, costantemente seguendo l’altra storia che è però quella, con laico realismo, in cui la poesia nasce e si manifesta, ricerca della poesia stessa nelle sue attestazioni, lavoro di agnizione e di raccolta, regesto di materiali identificati, compilazione di repertori possibili» (Marchi 2022: 66).
Altre cose si potrebbero segnalare, per esempio la non scontata insistenza sui poeti che optano per la forma satirica, come Cesare Ruffato o Giorgio Manacorda, o sulla «guerriglia semiologica» (Zagarrio 1983: 462) di poeti come, tra gli altri, Cesare Viviani; oppure l’attenzione ai giovani poeti neoromantici della cosiddetta «parola innamorata» che giustamente Zagarrio rubrica sotto la dimensione dionisiaca comune ai loro «ebbri itinerari», anche se poi si dedica a distinguere, tra di loro, almeno tre strade diverse: una della «leggerezza trasognante» (Giancarlo Pontiggia o Valerio Magrelli), una libertino-licenziosa (Gino Scartaghiande o Tomaso Kemeny), una «fabulista» (Mario Baudino o Giuseppe Conte). Si noti che non di rado queste formule critiche e queste tassonomie sono coniate da Zagarrio anche alla luce di una sola raccolta poetica, di un esordio: ma la sua lungimiranza risulta ancora oggi piuttosto evidente.
Malgrado il Sessantotto fosse ancora abbastanza vicino nel 1983 in cui Zagarrio licenzia il libro, era però già tempo di bilanci, come rivela l’incipit della quarta parte, intitolata Al di là del furore (o al di qua): «Il sessantotto, la sua spinta, il suo “messaggio” è morto e sepolto? O è ancora vivo e vitale? È colpevole di tanti sbandamenti avvenuti nel decennio (dei terrorismi agiti sul corpo delle persone e di quelli non meno violenti compiuti sul corpo della cultura?) o è innocente? Ha fatto scartare in avanti il processo della ricerca o l’ha fatto regredire o deviare?» (Zagarrio 1983: 547). Dopo questa sequela di domande, il discorso di Zagarrio procede con articolati riferimenti al mondo della cultura in generale e, solo successivamente, a quello della poesia: e il critico trova il modo di fare rientrare, polemicamente, anche il Fortini di Questo muro nella post-sessantottesca «fase di stanca (o di frustrazione, depressione o “caduta di tensione”» (Zagarrio 1983: 547).
Il giudizio su Fortini è uno dei non pochi esempi del fatto che lo Zagarrio critico, come si suol dire, non fa sconti, e spesso sono proprio i poeti maggiori a essere bersaglio di certe mosse fulminee, non molto dissimili da epigrammi: basti pensare alla «ideologia ridotta a umore» [4] del Pasolini di Trasumanar e organizzar.
Non posso concludere questo resoconto sul “resoconto” Febbre, furore e fiele senza accennare alla quinta parte, che vuol essere la pars costruens del libro e infatti s’intitola Qualche idea per (r)(i)esistere. Troviamo qui pagine dedicate a Luciano Anceschi che rivelano quanto, sul piano del metodo, le sue idee siano le prime a cui Zagarrio si rivolge per «(r)(i)esistere»: la prassi dell’epoché, l’insoddisfazione per «le risposte unilineari», il «tenersi sempre alla cosa», l’accento sul «dialogo» che accresce la conoscenza, la formula dei «precari equilibri» per tenere insieme un materiale in continua evoluzione come quello della poesia contemporanea [5].
Ma è di sapore anceschiano anche la celebrazione della poesia che conclude un breve scritto pubblicato nell’81 su «Quasi», nel quale Zagarrio polemizza contro il culto delle antologie di poesia e con il quale si può concludere, ridandogli la parola; per Zagarrio la Poesia
«non si identifica con alcun codice statuito ma risiede nella sua medesima irriducibilità: nel suo essere campo vastissimo delle tensioni verso, delle aspirazioni a, delle ricerche di, insomma dei modi infiniti – matematicamente innumerabili – di approssimazione alla “verità” o, che è lo stesso, a quella condizione utopica della città perfetta che è luogo immaginario, mito/meta sommamente felice e dunque sempre così lontano, sempre così inattuale e inesistente» (Zagarrio 1983: 707).
Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023
Note
[1] Giuseppe Zagarrio, Tra il dubbio e la ragione 1957-’62, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia Editore, 1963.
[2] Entrambe pubblicate per la collana “Il Castoro” de La Nuova Italia, rispettivamente nel 1968 e nel 1969. Ma si ricordino anche i profili di Vittorio Sereni, Roberto Roversi e Gianni Toti pubblicati nel Novecento ideato e diretto da Gianni Grana per Marzorati.
[3] Umberto Migliorisi (Sciacca, 1928 – Ragusa, 2020) fu poeta in dialetto e in lingua, nonché caporedattore della rivista «Pagine dal Sud», pubblicata per molti anni dal Centro Studi Feliciano Rossitto di Ragusa. Tra le doti migliori dei suoi versi ci fu, come Zagarrio non mancò di rilevare, un’ironia molto studiata, capace di arrivare a un sarcasmo affilatissimo.
[4] Zagarrio 1983: 170; meglio riprodurre tutto il periodo: «È già un segno di un’ideologia ridotta a umore, e di umore che impegna la poesia a farsi discorso istintivo, tutto mimato su un comportamento psico-emotivo razionalmente imprendibile e ovviamente disponibile alla più ampia variabilità delle reazioni col mondo esterno o del razionale».
[5] Cfr. Zagarrio 1983: 686-701, passim. Altre prove della fondamentale fedeltà di Zagarrio ad Anceschi si trovano in Inchiesta sulla Poesia, un bel saggio pubblicato su «Riscontri», IX, 1-2, 1987, ora in Zagarrio 1994: 46-50.
Riferimenti bibliografici
Cortellessa, Andrea, 2022, Essere-con Zagarrio, in Zagarrio 2022.
Favati, Giuseppe, 2022, Uno straordinario detective, in «Il Giornale di Scicli», 11 novembre 1991, ora in Zagarrio 2022.
Marchi, Marco, 2022, Il poeta e il cormorano, in «Il Ponte», ottobre 1995, ora in Zagarrio 2022.
Zagarrio, Giuseppe, 1983, Febbre, furore e fiele. Repertorio della poesia italiana contemporanea 1970-1980, Milano, Mursia.
Zagarrio, Giuseppe, 1994, Quel cormorano. Esemplari del linguaggio poetico contemporaneo, Ragusa, Libro italiano.
Zagarrio, Vito (a cura di), 2022, Cronache della coscienza positiva. Giuseppe Zagarrio a cento anni dalla nascita, Roma, Bulzoni.
Zago, Nunzio, 2000, Angelo Maria Ripellino e Giuseppe Zagarrio, in Storia della Sicilia diretta da Natale Tedesco, vol. VIII, Pensiero e cultura letteraria dell’Ottocento e del Novecento, Roma, Editalia: 570-574.
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Giuseppe Traina, insegna Letteratura Italiana presso l’Università di Catania, sede di Ragusa, città dove vive. Ha studiato testi e problemi della letteratura italiana, da Dante al Novecento. Il suo ultimo libro è Sguardi del potere e sguardi sul potere nell’Ottocento italiano. Studi su Bini, Collodi, De Amicis, Valera, Cena (Rubbettino, 2021). Ha curato una recente riedizione di Eros di Giovanni Verga (Rizzoli, 2022). Attualmente lavora su Angelo Maria Ripellino.
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