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La sacralità delle radici

COPERTINA LIRICHE TERRESTRI PC NUOVO.cdrdi Ada Bellanova 

Dell’ultimo libro di Diego Conticello, poeta siciliano trapiantato in Lombardia, Liriche terrestri (Industria e Letteratura 2022), m’incanta già la copertina: un ramo velato di ragnatele che si illumina un poco di luce nella penombra silvestre – sullo sfondo alcune case antiche, in abbandono – e che – ma forse pare solo a me – è anche un cervo stilizzato con il muso verso l’altro. Scoprirò presto che l’immagine ha più di un legame con i versi. Mi piace comunque questo spunto, il riquadro di natura in minore, che già fruscia di bellezza e mi avventuro nel bosco dei versi lieta.

Ciò che mi colpisce da subito in queste pagine è la lingua. In mezzo al proliferare contemporaneo di scritture che abituano il lettore a scelte linguistiche semplici, se non piatte, comunque immediatamente comunicative, Liriche terrestri dice che la scrittura, specie quella in poesia, può essere un’altra cosa, vocaboli nuovi, suoni, sintassi non immediata, sillabe e fonemi che si intrecciano veicolando il senso: più difficile è accedervi, come in una foresta, ma più soddisfazione ne viene, tanto più che gli inattesi sentieri sonori recano traccia di altre voci, altra poesia.

Nebrodi

Nebrodi

Con la tradizione Diego Conticello, infatti, imbastisce un dialogo continuo, a volte esplicitato dalle dediche dei singoli componimenti. A questo dialogo allude anche la scelta dei titoli delle due sezioni, Alle radici del senso e Il senso delle radici, con “radici” che rimanda, oltre che al significato più profondo delle cose, al passato della tradizione letteraria, soprattutto siciliana, e a quello delle proprie origini, quindi alla storia di una terra, al proprio sangue.

Il poeta sceglie di aprire la prima sezione con un testo che suona decisamente programmatico: se le cose finiscono distrutte (La distruzione delle cose), i nomi invece restano «e i nomi lì a rifulgere, / rifiutare di piegarsi, / di nuovo fare luce». “Alle radici del senso” allora conviene arrivarci proprio attraverso le parole, attraverso la lingua. Partiamo da qui, dunque, da una lingua sonora che richiede attenzione, che a tratti sposta il senso, ne inventa uno nuovo, capace di cogliere i dettagli (della natura) e che sa sorprendere anche nelle scelte sintattiche, mentre conserva il suo legame con il passato, una lingua che prova a fare luce, mentre si fa complesso intreccio (silvestre).

img-2735Una volta partiti, avanziamo nella natura, scopriamo «increspature / al ruscello», «i nervi / dell’ortica» cullati  da un’«aria /odorata / di stallatico» (Allargare il salvabile), ammiriamo un «vano / cilestre di conca lacustre / rosato di seni montani» (Sacro vuoto), e ancora scopriamo che «Bisogna amare / l’amara ombra / il grido cavo / degli alberi» (Greggi di grafemi), che «Nella dimora delle nevi / ad ogni versante / delle bianche piramidi / sgorga perenne una lingua / che allenta la sete / del mondo» e che «Anche il cesello / d’un’infima risaia / è vetrata gotica, / pastoso pantano / dove spunta labile / l’incurante lucentezza / del loto» (La cicatrice della terra). Se ascoltiamo bene, riusciamo a sentire «il fruscio / della bellezza» (Estetica dell’estensione).

Proprio terrestri sono allora questi versi, e densi di un sacro che ha tangenze con le atmosfere piccoliane (di Conticello è anche un saggio su Lucio Piccolo del 2009, Lucio Piccolo. Poesia per immagini “nel vento di Soave”, uscito per l’editore Città aperta). Di fronte al sacro, che è enigma, proprio come la scrittura che tenta di esprimerlo, non si può che rimanere muti, in silenzio.

In Sacro vuoto, che continuo a preferire – i versi compaiono già, come altri della prima sezione, in Poesia Contemporanea. Dodicesimo Quaderno Italiano, uscito per Marcos y marcos nel 2015) – le «cavallette iridescenti» che «aprono sterro al passo / puntinando basalti / sul ciglio smaltato / dal timore…», a sorpresa,  sui «gracili / pendii» segnati dall’intervento aggressivo e rovinoso dell’uomo («imposto scuri, / forzato i sigilli screziati […] svenato / boscosi crinali / con chiavature d’orto»), sono capaci di condurmi e di condurci ad un confine che richiede il silenzio della contemplazione, se non è l’assenza di parole la scelta vigliacca di chi tace la deturpazione del sacro: «[…] è seduti / sull’orrido precipiziale / che meglio s’intuisce / la vitale necessità / del silenzio / o la sua / scandalosa / vigliaccheria».

9788871687162_0_536_0_75Di fronte al sacro della natura nasce l’occasione per riflettere su noi stessi, e questo accade soprattutto quando le manifestazioni si fanno più estreme, ad esempio tra le «bianche piramidi» delle montagne, dove meglio «s’intende (ma c’è ancora chi non percepisce) / la rara connessione del tutto /quello che si poteva essere / quello che si doveva divenire, / forse ciò che si è sempre stati» (La cicatrice della terra).

Questa natura di Conticello insomma sa farsi simbolo, o addirittura specchio della condizione umana. Mi colpiscono soprattutto alcune immagini che, pur rinviando a un’esistenza segnata dalla sofferenza, veicolano l’invito fortissimo a resistere, reagire, altro fil rouge della raccolta, con esiti che spingono decisamente verso l’impegno: «fare presa / sul presente, / autorizzarsi ad esistere / oltre ogni autorità», malgrado il nostro essere «passato che non passa» (Oltre il retaggio). Questo perché non è naturale cedere, piegarsi, darsi per vinti. Piuttosto lo è la resistenza, come quella della «leuca infiorescenza / del pomodoro» che si innalza e resiste al peso dei frutti che verranno (Della naturale resistenza) o quella delle pale di fichidindia che proliferano «persino sui tettimorti […] / per preservare quel poco di dolcezza» (Sta a noi). 

Più breve, ma non meno intensa, la seconda sezione, Il senso delle radici, che raccoglie il testimone dell’ultimo componimento della prima parte, Sud-are, il quale, pur interpretabile anche in chiave universalistica, esprime soprattutto la condizione dell’intellettuale del Sud, e ancor più siciliano, un’identità fatta da «innesto di genti subito / nelle ere», «un groppo silente / che ci fa complessi e nomadi / nel mondo».

i__id13473_mw600__1xI versi di questa seconda parte dichiarano in maniera ancora più evidente il desiderio di dialogo con gli altri poeti e scrittori siciliani. All’evidenza dei vinti che si apre con un’epigrafe di Cattafi (Conticello ha recentemente pubblicato per Mimesis la monografia L’oltraggio d’una minima stella rugginosa. Viaggio nella poesia di Bartolo Cattafi) alterna il dialetto siciliano all’italiano con soluzioni foniche originali, attorno a «(industriarsi o perire)» che, pur posto tra parentesi, è la chiave di volta, il passaggio dall’«inutile abbarricarsi / alla Storia» all’impegno «senza cadere / in tentate azioni». La conclusione «nell’isola ch’ora / cola a pisci / sperando arrivi la nettezza / umana, / ca l’erba tinta / – purtroppo – / qui campa assai» è decisamente amara, ma, anche in questo caso, non c’è vittimismo, nessun ripiegamento lamentoso.  

Sempre nel segno della reinterpretazione simbolica della natura, questa volta quella contadina, si sviluppa il testo di ’U puccièddu, interamente in dialetto, in cui mi pare di cogliere un dialogo con l’opera di Nino De Vita, benché esplicito sia piuttosto il riferimento al detto popolare siciliano in epigrafe («cu si marita sta contentu un jonnu, cu sfascia un puorcu sta cuntentu ’n annu»): inattesa e sorprendente dopo una prima parte che descrive e prescrive le modalità dell’uccisione e della conservazione del maiale, di ogni parte del maiale, è la conclusione che, nutrita di ripetizioni e giochi fonici,  invita il lettore – se non è un invito che il poeta fa a se stesso – a scrollarsi di dosso le modalità pietistiche e dimesse, salvando dell’esistenza tutto quello che si può salvare, tanto più che la vita dura molto poco «ma savva / chiddu ca po’ savvàri / picchì niènti – m’ascutari – / s’av ’a gghittàri / ca macàri ’a vita dura picca e niènti».

Ecco, le parole per dirlo sono state trovate, reperite dal dialetto, ma mutate in messaggio universale. Immagino che il lavoro sia sempre lo stesso, come scrive Conticello in ’A parola: ogni parola gli dà prurito come ’na zzicca, ogni parola è tormento e scappa e si nasconde, tormentando l’animo di chi scrive, ma poi torna, gli fa le fusa, e lo lascia sorpreso, esterrefatto ’nzalanùtu. Con grande potenza espressiva – e immagini prese ancora una volta dalla natura – il poeta ci dice il suo rapporto con la ricerca linguistica. Lo fa, soprattutto, attingendo alle radici più profonde, quelle senza le quali la pianta – per continuare sulla natura – non può vivere. Come dire che dal dialetto si può e si deve partire – e dal passato –, perché non si tratta di un «nostalgico rudere archeologico» (così Devicienti nella prefazione) ma piuttosto esso rappresenta uno straordinario mezzo espressivo utile a resistere e intervenire nel presente. Non sarebbe stato lo stesso scriverne in italiano. 

Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023

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Ada Bellanova, insegna lettere in un liceo pugliese. Si interessa di permanenza della letteratura greca e latina nel contemporaneo, di ecocritica, della percezione dei luoghi, dei temi della memoria, delle migrazioni e dell’identità. Si dedica da alcuni anni allo studio dell’opera di Vincenzo Consolo: da qui è nata la sua monografia Un’eccezionale baedeker. La rappresentazione degli spazi nell’opera di Vincenzo Consolo (Mimesis 2021). Ha collaborato con La macchina sognante, Erodoto108.  Nel 2010 ha pubblicato il libro di racconti L’invasione degli omini in frac, con prefazione di Alessandro Fo e nel 2016 Papamusc, un breve romanzo edito da Effigi.

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