il centro in periferia
di Giampiero Lupatelli [*]
Le montagne italiane, alpine e appenniniche, sono luoghi privilegiati della mia frequentazione professionale che si è abituata a osservare con attenzione e con continuità pressoché quotidiana, le trasformazioni economiche e sociali delle “Terre Alte”. E a registrare la loro inerzia, nel lento incedere delle società montanare. A registrare ogni segnale inatteso nel quale si manifesti una accelerazione o ancor più in cambio di direzione della trasformazione sociale in corso.
Segnali di novità, non necessariamente positivi, ma che richiedono comunque di rimettere in discussione le categorie analitiche del nostro pensiero. Che chiedono in modo ancor più urgente, di mettere in discussione anche le coordinate della nostra azione politica. In questi giorni, più incerti e più spaesati che mai, segnati dalla pandemia e della guerra alle porte di casa, mi sembra di scorgere alcuni di questi segnali.
Le Montagne italiane sono luoghi segnati da sempre – per immemorial tradizione, avrebbe detto Carlo Cattaneo – da un problema di eccesso di offerta di lavoro rispetto alla capacità dei sistema economico locale di domandarne. Era vero per le economie di autoconsumo di ancien regime, nelle quali flussi temporanei di lavoro in uscita dalle famiglie contadine della montagna cui la forte limitazione delle pratiche colturali imposte dai condizionamenti climatici e morfologici lasciava varchi importanti nel calendario e consentiva di rivolgere una significativa offerta di lavoro “eccedente” verso le lavorazioni stagionali nelle maremme dei boschi e delle fienagioni o verso le risaie della agricoltura capitalistica “de li beli braghi bianchi”. Flussi di medio raggio, di mobilità stagionale che con il loro periodico rientro pendolare mantenevano un qualche equilibrio demografico delle montagne.
Un po’ diversamente, ma non del tutto, è stato vero per le economie della difficile e incerta transizione che il nostro Paese ha conosciuto dopo l’Unità; una transizione verso una modernità stentata e ritardataria, dove gli “eccessi di offerta” delle economie più povere e tradizionali venivano bilanciati da quelle migrazioni transnazionali e transcontinentali che a cavallo tra Ottocento e Novecento hanno portato montanari e contadini italiani nei luoghi più sviluppati d’Europa e soprattutto verso il nuovo mondo. Con flussi migratori sicuramente più impegnativi ma non per questo, necessariamente, permanenti.
È stato ancora più vero nel processo di modernizzazione accelerata del secondo dopoguerra, quando la domanda di lavoro delle grandi fabbriche del triangolo industriale italiano hanno segnato l’interruzione drastica della continuità di presenza di intere famiglie che sceglievano di trasferire in modo permanente assieme alla forza lavoro, l’intera compagine famigliare. Mai, invece, si era proposta sino ad ora una situazione di eccesso della domanda rispetto all’offerta
Una situazione che ci capita di raccogliere oggi in molti contesti montani in relazione a settori di attività molto diversi per le caratteristiche tipologiche e merceologiche delle economie che registrano difficoltà a trovare forze di lavoro da impiegare nelle proprie imprese.
Certo, le ragioni squisitamente demografiche sono fortissime: le coorti demografiche in uscita dal mercato del lavoro superano quelle in ingresso almeno del 50% per il Paese nel suo complesso, ma lo scarto sale al 60% nell’intero Appennino e arriva addirittura del 75% per l’Appennino settentrionale in Liguria, Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna e Toscana. Sono le nuove evidenze con cui si manifestano, anche in montagna, le conseguenze di un lungo inverno demografico, ormai dichiaratamente esteso all’intero continente europeo.
Un “inverno” demografico inedito, che dovrebbe orientare la riflessione di un intero continente sulle sue politiche migratorie, togliendo spazio alle Grida manzoniane con cui immaginiamo di poter fronteggiare processi migratori dirompenti. Anche il mismatching tra domanda e offerta è altrettanto incombente e diffuso e vale per l’Appennino come per tutto il Paese, ma qui, in Appennino, non si può non avvertirlo come contraddizione inaccettabile.
Una evidente perdita di opportunità che mette a rischio la possibilità di una inversione di tendenza delle traiettorie demografiche, sociali ed economiche di questi territori che, invece, mai come ora, potrebbe essere a portata di mano.
Cogliere le ragioni e le peculiarità locali di questa “crisi di liquidità dei talenti” richiede necessariamente lo sforzo di alzare lo sguardo e quello di assumere una prospettiva più ampia, nello spazio e nel tempo. Vi propongo di interrogarci sulla inedita condizione dei lavoratori che mancano in luoghi nei quali è sempre mancato il lavoro, vorrei aprire con voi una riflessione in profondità sulla produzione di giovani talenti. Preoccuparcene perché questa “crisi di liquidità” porta assai più di qualche nube (e quelle, neanche troppo piccole) sulle speranze che possiamo nutrire riguardo alla capacità del nostro Paese di proporsi come un riferimento (ancora) importante nella economia e nella cultura di un mondo globale.
Ho sentito talvolta un’ombra di sarcasmo sulla appropriatezza del termine “talento”, come l’ho sentita nel dibattito pubblico recente riguardo alla considerazione del “merito”. Credo invece di dover assumere il “talento” come riferimento centrale della riflessione che vi propongo. Anche perché la parabola dei talenti ci dà qualche riferimento utile riguardo al rapporto tra quello che abbiamo ricevuto in dono (in eredità, talvolta) e l’uso che ne facciamo.
Credo che il talento (i talenti, forse; il plurale, nonostante quel che dice Lev Tolstoj, mi sembra più appropriato), siano una componente decisiva di quella “qualità italiana” che tanto spesso chiamiamo a soccorso delle molte nostre deficienze. Una qualità che ci ha consentito di esprimere performance economiche inattese, all’insegna del paradosso fisico del “volo del calabrone”, come avrebbe detto Giacomo Beccattini.
Il deficit di talenti ci penalizza oggi e forse ci potrà penalizzare ancora più domani, nelle pratiche di una globalità diversa e meno estrema di quella del ventennio passato ma che, non per questo, potrà ritornare alla comfort zone di una piccola patria poco disturbata. Per molti versi siamo alla resa dei conti: qualcuno ha osservato che mancano talenti perché non c’è più mobilità sociale; ed è vero. Ma non ci sono talenti anche perché ci sono pochi giovani in assoluto e perché l’output del nostro sistema formativo è troppo modesto: cioè i talenti li coltiviamo troppo poco!
Chi di recente mi ha sentito, sa quante energie impieghi (quanto la faccio lunga, potrebbe dire qualcuno!), nel denunciare il livello implausibile della quota di popolazione adulta italiana in possesso di una formazione terziaria. Un livello che se ci colloca al penultimo posto sia nella UE che tra i Paesi OECD, drammaticamente discrimina, dal punto di vista delle geografie, le città maggiori rispetto a tutto il resto del Paese (periferie metropolitane e aree montane allo stesso modo). Con le città a livelli doppi degli altri territori e con al proprio interno i centri storici a livelli doppi del resto del territorio comunale!
Insomma, un “cultural divide” assai più marcato dei differenziali di reddito e di qualità della vita, comunque li misuriamo. Un divario che ci distanzia dagli altri Paesi sviluppati e che allontana tra loro parti diverse del Paese. Nella stagione della economia della conoscenza mi sembra un pessimo viatico per restare agganciati al gruppo di testa, nonostante le molte nostre qualità!
Negli ultimi tempi, continuando a frequentare il mondo delle montagne italiane dove questo tema dei giovani e della qualità del capitale umano è forse ancora più centrale che altrove, mi è venuto sempre più forte in mente un pensiero che non fino a poco tempo fa non avevo ancora maturato. Il basso tasso di formazione terziaria dei giovani e degli adulti ha le sue radici, io credo, innanzitutto nei processi che si collocano a monte, nei cicli di formazione primaria e secondaria e nei livelli di dispersione e di delusione delle aspettative che – proprio all’interno di queste esperienze – si generano.
Non da ieri mi è parso di poter collocare l’origine” di questa situazione nella lontana stagione nella quale il nostro ordinamento scolastico ha compiuto il passo forse più decisivo della sua storia: la riforma del 1962 con la istituzione della Scuola Media Unificata. Una svolta che ha portato un sistema abituato a offrire un livello di formazione superiore solo al 10% della popolazione a doverlo offrire alla quota maggioritaria di questa popolazione, tendenzialmente alla sua totalità.
Ho sempre criticato la intempestiva e improvvida manovra che ha ritenuto possibile operare “per decreto” una riforma di questa portata, senza darsi il tempo e il modo di costruire – in particolare nel reclutamento dei docenti – le condizioni per consentire alla riforma di operare. L’incrocio tra il massimalismo della sinistra politica (e soprattutto sindacale) e la riserva di pensiero della cultura cattolica sul ruolo delle donne nella società – un mix inedito ed esplosivo! – hanno prodotto la svalutazione della professione di insegnante: un mezzo lavoro (e un mezzo stipendio, i confronti internazionali sono impietosi!) che consente di mantenere il fuoco della attività femminile sulle cure domestiche e consente comodi part-time al sostegno dell’avvio (ma poi anche della continuazione) di professioni liberali in un mondo inflazionato di avvocati e di architetti.
Più recentemente si è proposto ai miei occhi l’immagine di una ulteriore stortura della riforma: nel merito e non solo nel metodo. Il contenuto fondamentale della riforma del ‘62 è stata la (meritoria!) ricomposizione della dicotomia tra ginnasio e avviamento professionale, rappresentazione plastica della profonda frattura di classe del Paese. Bene, allora! Forse però la Scuola media unificata che ne è venuta fuori è stata un po’ troppo ginnasio e un po’ troppo poco avviamento professionale: ha valorizzato alcune capacità (quelle della razionalità linguistica e computazionale) e ne ha messo in ombra altre, quelle del saper fare, della espressività e della manualità. Quella Riforma ha immaginato che il talento si costruisce solo con il pensiero e l’uso del cervello.
Difficilmente la matrice idealista della cultura che quella Riforma ha promosso e realizzato poteva portare a conclusioni diverse! Che esistessero anche altre forme di intelligenza e altri strumenti per educarla e acquisirla, non apparteneva all’orizzonte dei suoi, pure commendevoli, protagonisti. Rimando a quel che dice Richard Sennet a proposito del suo uomo artigiano e alla domanda retorica che – con una nota evidentemente sarcastica – Sennet propone in quel libro, interrogandosi su dove risieda (nel cervello o nelle mani) l’intelligenza del violinista (il suo talento!).
Domanda – e risposta, evidente a tutti – che si propone a questo riguardo come un riferimento illuminante per la nostra discussione sui talenti e sulla capacità del sistema educativo di produrne a sufficienza, per quantità e qualità; almeno per me. Siamo in crisi di talenti:
- ci mancano schiere di laureati (se ci misuriamo con gli altri Paesi che competono con noi, innanzitutto per livello di reddito);
- abbiamo tassi elevatissimi di abbandono dell’obbligo scolastico (del suo esito necessario, almeno);
- registriamo condizioni di spaesamento e di disorientamento dei giovani rispetto all’impegno nel lavoro e nelle carriere.
Segnali che, tutti assieme, impongono una riflessione più profonda e ci chiamano all’istanza non più differibile di una riforma radicale.
Nel mio peregrinare nelle aree della montagna italiana, dove le scuole faticano a restare aperte e dove alto è il sacrificio imposto per la loro frequentazione, non fosse altro in termini di spostamento, mi è capitato però di incontrare diverse esperienze interessanti che hanno puntato sulla qualità di saperi e mestieri costruiti attorno all’uso delle mani per costruire elementi davvero importanti di interesse e di affezione alla frequentazione scolastica.
Ultima nel tempo, la scuola Barolo di Varallo Sesia, rivisitazione moderna di una istituzione del XVII secolo nata per formare competenze nell’uso del legno all’altezza di gestire il valore e la complessità della produzione degli straordinari apparati decorativi barocchi dei Sacri Monti. Rigenerata per accogliere e formare in contesti diversi talenti di non minore valore espressivo da impegnare in una azione di manutenzione di questo straordinario patrimonio: da qui le nuove opportunità di lavoro e di impresa in un processo creativo che fa della artigianalità un fattore di eccellenza anche al tempo del digitale.
Per conservarsi, la qualità di quel made in Italy che ormai richiamiamo anche nella denominazione del Ministero competente (con una espressione eterologica, cioè che “non è vera di se stessa”), ha bisogno come il pane di innovazioni e esperimenti formativi di questa natura. Esperienze che propongano la “capacità di fare”, l’espressività e “l’intelligenza delle mani” come obiettivi importanti del processo educativo e come veicolo di affermazione della personalità. Concretamente capaci di produrre talenti di carattere e forma quanto mai diversa e articolata.
Penso che i luoghi della Italia minima (ma non per questo minore!) della Montagna, delle Aree Interne e dei Piccoli Comuni, i luoghi che in molti ormai prediligiamo nelle nostre scorribande, siano il terreno di coltura più fertile per far crescere operazioni di questa natura.
Torniamo per questo alla novità importante rappresentata dalla Strategia Nazionale delle aree Interne per la originalità della sua intuizione di affrontare contestualmente i temi dei servizi di cittadinanza e quelli dello sviluppo locale. Una intuizione che vorrei dire geniale e alla quale non sempre si è prestata adeguata attenzione nel dibattito pubblico, pure esteso e animato, che ha investito la SNAI.
Nel caso dei servizi per l’educazione il rapporto tra i due fronti della strategia non è semplicemente di complementarietà: occorre agire tanto sulla disponibilità dei servizi come su quello delle occasioni di lavoro e di reddito per interrompere la lunga emorragia di risorse umane che ha investito le Aree Interne del Paese nella seconda metà del XX secolo e nelle prime due decadi dell’attuale, sostanzialmente senza soluzione di continuità.
L’investimento sui servizi educativi non è solo un investimento in favore del benessere delle famiglie, per rafforzare e consolidare il loro permanere (o invece il loro introdursi e neo-popolare) in territori a bassa densità nei quali garantire la prossimità dei servizi richiede davvero accorgimenti speciali. È anche un investimento sul capitale umano che, guardando ad un orizzonte un poco più lontano, si preoccupa di fornire risorse alle traiettorie di sviluppo locale che gli attori imprenditoriali e le comunità delle aree interne sono in grado di immaginare e promuovere.
Risorse umane che sono le più importanti e le più critiche nella stagione della “economia della conoscenza” che per esistere deve fare leva sulla presenza di donne e uomini che hanno capitalizzato conoscenze e competenze ma che, soprattutto, hanno imparato la competenza davvero più importante, in tempi di rapido mutamento: quella di “imparare a imparare”
Focalizzare l’attenzione sul capitale umano non è certo una scelta originale e verrebbe da dire che la cosa dovrebbe essere quasi data per scontata in questo nostro XXI secolo. Riconoscere il rilievo di questo investimento come fondamentale asset dello sviluppo economico dovrebbe esserne la conseguenza diretta e immediata di questa consapevolezza. Ci dovrebbe portare, naturalmente, a comprenderne non solo il rilievo ma anche l’urgenza, a coglierla come condizione essenziale che attribuisce significato alla affermazione che interpreta l’attuale stagione dello sviluppo economico come quella di una “Economia della Conoscenza”.
Eppure non è semplice cogliere nei comportamenti concreti delle istituzioni e delle comunità una evidenza che parrebbe del tutto indiscussa e scontata, se ci si limitasse a leggere la letteratura scientifica. Qui il rilievo del capitale umano per lo sviluppo delle economie di questa fase dello sviluppo capitalistico è centrale e questa trova i suoi fattori di competitività innanzitutto nelle performances assicurate dai sofisticati sistemi educativi generati dalle Università di eccellenza, travasando non solo le proprie conoscenze ma, verrebbe da dire, la stessa propria impronta culturale all’interno del mondo della produzione.
Learning is the work, nella felice espressione di Michael Fullan che spiega come, nella manifattura più moderna, dove i processi di produzione conoscono elevatissimi livelli di automazione, la parte prevalente del tempo impiegato dalle risorse umane presenti nei processi è assorbito dalle funzioni e dai problemi della comprensione dei nodi irrisolti e dello sviluppo di soluzioni idonee ad affrontarli e risolverli. Nelle fabbriche dei robot il ruolo dell’uomo è quello di comprendere e apprendere quel che non è ancora diventato conoscenza formalizzata, buona per le macchine.
Riconoscere questo ruolo pervasivo della formazione – e in senso ancora più lato dei processi educativi – naturalmente, non richiede di aderire acriticamente ad una immagine ingenua ed encomiastica del funzionamento del sistema formativo superiore. Di disconoscere per esempio i rischi di una progressiva insostenibilità economica della crescita esponenziale dei costi della formazione superiore e del suo prezzo relativo, a fronte di una relativa caduta di valore dei titoli di studio, prospettiva della quale la recente evidenza della insostenibilità dei “prestiti di onore” contratti nelle maggiori università americane, ci ha reso partecipi.
Come non vuol dire ignorare il costo – e le conseguenze nei termini di una crescente insostenibilità sociale – di un modello nel quale la diversa distribuzione delle chances di vita (e ancora più la loro legittimazione etica) è sostenuta – apparentemente in modo assai più pervasivo di quanto non venga determinato dalla distribuzione iniziale della ricchezza – dalla discriminazione operata dai sistemi di formazione di eccellenza e dai loro modelli di selezione meritocratica.
Riconoscere le criticità presenti nel funzionamento di sistemi formativi più evoluti del nostro e che presentano una impronta di maggiore spessore impressa nei processi economici e produttivi entro i quali operano, non può tuttavia neppure legittimarci in alcun modo a sottovalutare la portata, critica per le prospettive economiche del nostro Paese, del gap formativo oggi presente in Italia. Innanzitutto nei termini brutalmente quantitativi dei modesti livelli di scolarizzazione post secondaria e terziaria. Anche in quelli – forse non troppo diversi nelle motivazioni – dei livelli di dispersione scolastica troppo elevati e dello spreco di opportunità, oltre che di ingiustizia, che questa dispersione rappresenta.
Per colmare questo gap occorre uscire dalle retoriche della denuncia per imboccare il sentiero, sicuramente più impervio, della riforma; un sentiero difficile, lungo il quale, talvolta, la azione riformatrice ci appare addirittura poco riconoscibile nella sua stessa direzione di marcia. Una azione riformatrice che dovrebbe avere la radicalità di pensare pensieri ancora non pensati e mantenere al tempo stesso la duttilità necessaria a cogliere la molteplicità del reale. A riconoscere e metabolizzare le diverse dimensioni del legame che ci tiene assieme in una società decisamente più interconnessa e complessa di quanto mai abbiamo sperimentato. Una azione riformatrice che, in termini più generali dovrebbe forse avere la ambizione di riscrivere il contratto sociale della società contemporanea.
Ce lo propone una figura di grande spessore che è Minouche Shafik, Director anglo-egiziana della London School of Economics and Political Sciences che, arrivata al suo apice passando per traversie davvero significative, ricorda il messaggio ricevuto da suo padre nel momento più difficile della sua vita. Quando alla giovane ragazza che lasciava una collocazione privilegiata per l’incertezza della condizione di profuga, veniva raccomandato di investire nella propria formazione: «l’unica ricchezza che nessuno ti potrà mai portare via!»
Questo messaggio, la consapevolezza del valore unico della missione educativa dovrebbe trasmetterci non solo la determinazione ma anche l’impazienza verso una azione riformatrice, ad un tempo duttile e radicale, di cui il sistema educativo sembra davvero avere un gran bisogno!
Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023
[*] Relazione presentata al Convegno sulle Piccole Scuole in montagna – Palanzano (PR), 25 marzo 2023
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Giampiero Lupatelli, economista territoriale, laureato nel 1978 in Economia e Commercio all’Università di Ancona studiando con Giorgio Fuà e Massimo Paci, dal 1977 opera nell’ambito della Cooperativa Architetti e Ingegneri di Reggio Emilia (CAIRE) dove si è occupato di pianificazione strategica e territoriale concentrando la sua attenzione sui temi della rigenerazione urbana e dello sviluppo locale delle aree interne e montane. Ha collaborato con Osvaldo Piacentini e Ugo Baldini nella direzione di importanti piani e progetti territoriali di rilievo nazionale e regionale. È Vice-Presidente di CAIRE Consorzio, fondatore dell’Archivio Osvaldo Piacentini per cui è direttore della Rivista “Tra il Dire e il Fare”, componente del Tavolo Tecnico Scientifico per la Montagna presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, membro del comitato scientifico della Fondazione Montagne Italia, della Fondazione Symbola e del Progetto Alpe del FAI, oltre che del Comitato di Sorveglianza di Rete Rurale Nazionale. Ha recentemente pubblicato il volume Fragili e Antifragili. Territori, Economie e Istituzioni al tempo del Coronavirus, per i tipi di Rubbettino editore.
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