di Silvana Licciardello
Affascinata dai vulcani e dai territori estremi, per molti anni ho inseguito l’idea di visitare quella depressione creata dall’allontanamento delle placche tettoniche nel corno d’Africa, che noi italiani identifichiamo col nome di Dancalia.
Oltre che per la pericolosità dovuta alla geologia, l’area è sempre stata considerata uno dei luoghi più inospitali della terra anche per la presenza degli Afar “feroci guerrieri” noti per portare “collane create coi testicoli dei nemici uccisi”.
Di certo si sa che in quell’area molti esploratori rimasero vittime dei predoni locali; solo Raimondo Franchetti riuscì, negli anni venti del XX secolo, ad attraversare quella regione che, in seguito, rappresentò una parte della colonia italiana in Africa Orientale e che fu sfruttata per i giacimenti minerari, fino al definitivo abbandono.
Più tardi la contesa sui confini tra Etiopia ed Eritrea ha reso difficile, e in alcuni momenti impossibile, la presenza di stranieri nella regione. Spesso i turisti erano vittime di attentati, rapimenti a scopo di riscatto e, comunque, di ruberie e violenze varie. Nel 2017, quando fu dichiarata la fine dello stato di guerriglia decisi, non senza qualche perplessità e precauzione, di andare con un gruppo di amici.
Mi accorsi, sin da subito, che niente è normale in questa terra, la geologia è inquieta e creativa, coi suoi spettacolari fenomeni vulcanici che danno forma a colate laviche di ogni tipo con hornitos, faglie e fenditure, geyser e pozze ribollenti di sali colorati.
L’area del Dallol, più di 100 metri sotto il livello del mare, è un’apoteosi di colori grazie alle concrezioni di zolfo, ai cloruri di ferro e agli ossidi che risalgono oltre lo strato di sale lasciato dal mar Rosso al suo ritiro. La natura è sorprendente anche se appare priva di vita: quando cammini fai attenzione a non sciupare nulla perché ne avverti la specificità e la fragilità e, sotto i piedi, percepisci la terra, come entità vivente che sussulta.
In questi scenari si muove una umanità straordinaria: gli estrattori e gli intagliatori della Piana del Sale che lavorano con arcaiche pertiche di legno e accette, in condizioni impossibili sotto temperature infernali e una luce accecante, privi di guanti e di occhiali per proteggere le mani e gli occhi, gli infaticabili cammellieri e i silenziosi carovanieri, le donne e i bambini che ogni sera attendono il ritorno degli uomini al villaggio Ahmed Ela.
La permanenza al villaggio è stata per noi un’esperienza che non dimenticheremo facilmente. Non si può dire che gli Afar siano accoglienti ma certamente non ostili come nel passato. Vivono in baracche di lamiera, fango e legno o nelle burre (tende) e ospitano i turisti in lettini all’aperto occupandosi di preparare il cibo.
Abbiamo vissuto per un po’ come loro, mangiando in mezzo alla polvere che ha finito per ricoprire ogni parte del nostro corpo (la doccia: una chimera), abbiamo conosciuto il maestro, il medico, la barista, i lavoratori del sale, qualche famiglia e molti ragazzini.
Abbiamo lasciato un grande quantità di occhiali, guanti, magliette, foulard, giocattoli, quaderni, penne ecc… Ma non si può dire che siamo riusciti veramente a comunicare con gli adulti. E non per le ovvie difficoltà linguistiche e gestuali – succede quasi sempre in viaggio – ma soprattutto per una sorta di disinteresse nei nostri confronti, indifferenza mista a fierezza e mancanza di curiosità. Anche gli autisti e i militari al nostro seguito non sembravano interessati a familiarizzare con gli abitanti del villaggio.
Su di loro, gli Afar discendenti dei “guerrieri castratori”, non sappiamo molto per mancanza di una lingua scritta, sono musulmani sunniti ma seguono credenze preislamiche, non pregano molto, portano amuleti con erbe e scritte del Corano, sono fieri e indipendenti.
Molti sono cavatori nella piana del sale, altri pastori seminomadi che seguono il ritmo delle piogge, altri sono “addetti alla burocrazia tra governo centrale e locale”. Sentono il territorio in cui vivono come una proprietà di tribù: il capo villaggio è il responsabile di quanto avviene nel suo territorio. Le regole sono quelle della tradizione e c’è poco da discutere.
Per questo mi sono ritrovata, in quanto “capo” del mio gruppo, a dover contrattare l’accesso al territorio con un burbero capo di nome Kylisa, che comanda su tutti, polizia compresa. E questo nonostante avessimo già tutti i permessi! È lui che decide quanti militari di scorta e quante guide affibbiarti (nonostante i nostri autisti conoscessero molto bene i percorsi), quanti dromedari, quali e quanti luoghi puoi visitare. E ogni cosa ha un costo che contratti al momento, non c’è un tariffario o uno standard.
Dopo una lunga anticamera (più lunga per me in quanto donna?) vengo ricevuta, sola, nella sua capanna. Armato di pistola, attorniato dai suoi luogotenenti – che fa scostare quando mi concede una foto, a contrattazione conclusa – ha aspetto autorevole, non si alza per salutarmi e con un brusco cenno mi invita a sedere di fronte a lui per iniziare la trattativa che, in realtà, si è risolta abbastanza velocemente.
Penso che il mio atteggiamento cordiale e non sottomesso, spontaneo e sorridente abbia giocato a mio favore. Però sono uscita dalla tenda ben consapevole di aver accettato, come ogni turista, una prassi che, più che legata alle tradizioni e al territorio, mi pare serva a consolidare un moderno sistema corrotto in cui paghi servizi “turistici” non richiesti e neppure effettuati!
È mutata così la proverbiale ostilità di questo popolo verso gli stranieri? Gli Afar oggi non sono ostili ma neppure asserviti al turismo. Semplicemente ne traggono quanto più profitto è possibile. Non è che forse lo hanno imparato da noi?!
Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023
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Silvana Licciardello, nata a Catania, vive ad Acireale dove ha insegnato Biologia fino al pensionamento. La passione per la fotografia, iniziata all’università, è esplosa più tardi insieme all’interesse per i viaggi extraeuropei e le culture lontane. Ha viaggiato lungo tutti i continenti cercando luoghi poco frequentati dal turismo e, ove possibile, entrando in contatto diretto con le popolazioni locali. Dal 2012 è socia dell’associazione fotografica ACAF, aderente alla FIAF, con cui ha partecipato a numerose mostre fotografiche collettive i cui cataloghi sono andati in stampa. Ha realizzato mostre fotografiche personali, a colori o in b/n : “Going Around” (2010), “In esilio sognando il Tibet libero” (2012), “Donne lungo il Mekong” (2016), “Fra tradizione e modernità- Giappone” (2016). Nel 2021 ha pubblicato il libro La mia Asia contenente le sue fotografie a colori.
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