Gli incendi boschivi provocano ogni anno danni ingenti, difficilmente quantificabili, ferite spesso faticosamente sanabili per tanti preziosi e fragili ecosistemi. Il costo del fuoco, però, aumenta se oltre al patrimonio naturale vengono danneggiati anche centri abitati, insediamenti industriali e strutture turistiche, in un effetto domino erosivo e deteriorante che può mettere a repentaglio la vita umana stessa. Un ulteriore grande limite, inoltre, è l’agire solo in stato di emergenza, dunque in perenne ritardo. Come ripetono gli esperti di settore, «quando intervengono elicotteri e aerei la battaglia contro l’incendio è già perduta. Perché questa è una battaglia che si vince solo prevenendone le cause» (Leone 2017: 38). Eppure, specifica Legambiente,
«la gestione degli incendi non si limita alla prevenzione ed estinzione, ma riguarda anche e soprattutto la previsione del pericolo prima che si verifichi un incendio, [ad esempio attraverso] la pratica del cosiddetto “fuoco prescritto”, tecnica selvicolturale di prevenzione che consente di condurre il fuoco in sicurezza»[1], riducendo l’infiammabilità del territorio.
Ciò che sappiamo bene è che le aree percorse dal fuoco hanno tempi di recupero molto lenti, in relazione alla frequenza, all’estensione e alla complessità dell’ecosistema colpito: per ripristinare un bosco d’alto fusto occorre circa un secolo, mentre nei boschi cedui occorrono fino a dieci anni per ricreare la copertura vegetale. Quel che conosciamo meno, invece, è la tenuta sociale e culturale dopo un vasto incendio, come ad esempio sul Vesuvio nel 2017 o negli anni successivi in Australia, California, Grecia, Portogallo: se l’identità collettiva è connessa al paesaggio, il mutare di questo a causa di un evento dirompente, come appunto anche un rogo esteso, può avere ripercussioni sulla vita quotidiana.
Andrew Butler e i suoi colleghi se ne sono occupati in merito ad un incendio nel centro della Svezia che nel 2014 ha percorso 14 mila ettari, distrutto 20 case e costretto alla fuga 1200 persone (Butler et al. 2017). Al di là del danno fisico al paesaggio, gli autori si concentrano anche su perdite meno tangibili, quelle esistenziali. Dopo un incendio boschivo viene creata una nuova geografia, il paesaggio cambia drasticamente e scompaiono molti elementi significanti intorno a cui si forma l’identità collettiva. Le lacerazioni del paesaggio diventano dunque molto più ardue da quantificare rispetto alle perdite economiche e materiali, dacché la maggiore difficoltà nell’individuarne le problematiche e nel discuterne le conseguenze.
Tuttavia, se da un lato il disastro causa sconcerto e sofferenza, è anche vero che dall’altro esso può attivare degli elementi di intraprendenza e di ingegno che fungono da alternativa al trauma sociale e psicologico estremo. Da questo punto di vista, l’incendio del Vesuvio nel 2017 è stato un catalizzatore per tante associazioni locali, ne ha fatte emergere di vecchie e nuove, ne ha favorito l’avvicinamento reciproco e, sebbene brutalmente, ha ricordato che il rischio è un concetto complesso strettamente connesso all’equilibrio che una determinata società è in grado di trovare col proprio ecosistema. Il fuoco che ha avvolto il vulcano napoletano ha dunque certamente ridefinito il panorama dell’attivismo vesuviano, sebbene, a distanza di qualche anno, oggi sembra che la sua spinta sociale e politica si sia esaurita (Gugg 2021).
Un’ulteriore esperienza di questo tipo sembra quella di Fort McMurray, nel nord dell’Alberta, in Canada. Si tratta di una città di circa 100.000 abitanti, quella che ha registrato la più rapida crescita demografica nell’intero territorio canadese grazie alla presenza della più grande riserva di sabbie bituminose del mondo: agli inizi del Novecento contava una popolazione di poche centinaia di persone, attirate dalle prime esplorazioni petrolifere nella zona, e ancora nel 1966 i residenti non erano più di 2.000. Dall’anno seguente, però, la Great Canadian Oil Sands (ora Suncor) aprì un suo stabilimento e la crescita di Fort McMurray accelerò rapidamente, fino alle dimensioni attuali.
Il 1° maggio 2016 un incendio boschivo, probabilmente di origine antropica, scoppiò a sud-ovest del centro urbano, dopo un inverno mite e alcuni anni di forte disboscamento, che causò la presenza sul terreno di sterpaglie e rami secchi, con cui successivamente fu spiegata la veloce propagazione delle fiamme.[2] Già in quella prima giornata le autorità locali diedero l’ordine di evacuare le località di Prairie Creek e Gregoire, mentre il 3 maggio il provvedimento fu esteso all’intera area cittadina, sia per l’andamento dei roghi, sia per le condizioni meteorologiche: temperature elevate per la stagione, venti forti e bassa umidità. In pochi giorni furono devastati oltre 101.000 ettari e distrutte 2.000 abitazioni, nonostante l’intervento massiccio di più di 3.000 pompieri e addirittura dell’esercito canadese. Ufficialmente, l’incendio fu dichiarato spento oltre un anno dopo: il 2 agosto 2017, quando gli ettari arsi ammontarono a 589.552, gli edifici distrutti a 3.244 e i costi diretti e indiretti a 9,9 miliardi di dollari canadesi (oltre 6,8 miliardi di euro) [3].
Ai residenti fu permesso di rientrare gradualmente nelle loro case dopo un mese, dal 1° al 15 giugno 2016, dal momento che le fiamme non erano più un pericolo, almeno nell’area urbana, per cui furono ripristinati anche i servizi essenziali [4].
Come per ogni incendio – ma il discorso vale per qualsiasi disastro – le cause dell’enorme rogo di Fort McMurray è riconducibile a molteplici fattori, in particolare ad una combinazione di interazione o negligenza umana, mancanza di attenzione governativa alle raccomandazioni dei precedenti rapporti su incendi altrettanto catastrofici nella stessa regione, oltre che dell’influenza delle anomalie climatiche (dal periodico El Niño nell’oceano Pacifico al riscaldamento globale di origine antropica), nonché dell’invecchiamento biologico delle conifere (Stirling 2016).
Un anno dopo, il giornalista Keith Gerein raccolse in un reportage [5] per l’“Edmonton Sun” varie testimonianze dei residenti di Fort McMurray, i quali riferirono di una ripresa non uniforme. Da un lato la città era ancora in crisi, sebbene non più assediata da una catastrofe di fiamme, perché impantanata in stanchezza da ripresa, lentezze politiche e stress psicologico. Questo era ben visibile nei numerosi cartelli “Vendesi” sparsi in tante strade, come anche nella grigia foresta di tronchi bruciati che circondava l’area urbana e, soprattutto, «nei volti tesi e nelle risate nervose delle persone che ancora lottano per trovare pace» [6]. Dall’altro lato, però, c’erano le voci di chi, invece, diceva di «sentirsi più strettamente legato alla sua comunità di quanto non lo fosse mai stato prima, legami rafforzati dall’esperienza di sopravvivenza e resilienza collettiva»[7].
Al di là dalla posizione assunta, tutti concordavano che Fort McMurray era irrimediabilmente cambiata, rimodellata da un disastro che aveva costretto i residenti a ridefinire il proprio senso di casa. Il momento in cui queste tensioni sono emerse più esplicitamente è stato nel giorno del primo anniversario, quando è stato organizzato un piccolo evento, lontano dalle principali aree della città, che i residenti non sapevano se chiamare celebrazione, commemorazione o in qualche altro modo. Interpellato da Gerein, un abitante ha sollevato quesiti a cui è difficile rispondere:
«Non sappiamo come prenderla. Si festeggia il giorno peggiore nella storia della propria città o ci si siede tutti per sentirsi male? L’altra faccia della medaglia è: invece di sentirsi male, perché non celebrare il fatto che siamo sopravvissuti?» [8].
Intervistato dal giornalista Bill Dunphy per l’“Inverness Oran” [9], il vigile del fuoco Jerron Hawley, che il 3 maggio affrontò “The Beast”, come fu chiamato l’incendio, insieme ad altri cento suoi colleghi della città, ritiene che un contributo importante alla loro lotta contro le fiamme arrivò dai cittadini che si organizzarono in preghiera:
«Lo fecero quando eravamo quasi al limite. È stato incredibile come le nostre comunità ci abbiano sostenuto. […] Chi sono gli eroi? Sono tutte le persone che hanno trovato il tempo di dire una preghiera, di dedicarci un pensiero. Per noi, questo è il nostro lavoro, ma per tutte queste persone che non devono farlo, sono loro gli eroi nella mia mente. […] Oggi la mia visione delle cose è cambiata, sono sicuramente una persona cambiata, in positivo. Il mio vocabolario è cambiato da ‘io’ e ‘me’ a ‘noi’ e ‘ci’. […] Non ero solo io a combattere quel fuoco, ma tutto e tutti. Io ero lì fisicamente, ma so che tutti erano al mio fianco e lottavano con me» [10].
Posto in una prospettiva storico-antropologica, l’incendio – ma il discorso vale anche per il tema più ampio del cambiamento climatico (Bristow, Ford 2016) – assume una dimensione politico-sociale che permette di individuare una duplice chiave interpretativa, sia come fenomeno attuale, sia come esistente da tempo. Solo inquadrandone la sua natura multiforme sarà possibile trovare modi diversi di risolvere le emergenze che provoca, sostanzialmente prevenendone gli effetti. In questo senso, recuperare le conoscenze locali in merito alla gestione del fuoco può rivelarsi una strategia essenziale per il futuro [11], come argomenta Amy Christianson (2015), ricercatrice del “Canadian Forest Service”, che ha sede proprio in Alberta. Christianson ha effettuato delle comparazioni tra le gestioni autoctone degli incendi in Australia, Canada e Stati Uniti dopo l’anno 2000, per cui scrive:
«Le culture indigene in tutto il mondo variano enormemente nelle tradizioni, nel linguaggio e nelle credenze. Tuttavia, una cosa che hanno avuto in comune è stato l’uso del fuoco per la modifica del paesaggio, al fine di sostenere uno stile di vita di sussistenza. […] Tuttavia, l’uso del fuoco è cambiato significativamente dopo la colonizzazione, in alcuni paesi più di altri. Ovunque, i colonizzatori hanno notato la prevalenza di incendi nei nuovi territori che stavano esplorando. Ma secondo la loro visione, gli incendi erano distruttivi per la fornitura di legname e pericolosi per le comunità. Pertanto, gli incendi furono vietati e la deliberata accensione di roghi fu messa fuorilegge» (Christianson 2015: 190).
Gli esseri umani iniziarono a controllare il fuoco in modo regolare e diffuso circa 7.000 anni fa, quando cominciarono a usarlo per liberare spazio per l’agricoltura e talvolta per la guerra o per cerimonie importanti, ma con la colonizzazione europea è avvenuta una profonda cesura, per cui i popoli indigeni sono stati costretti ad abbandonare il loro stile di vita e a conformarsi a nuovi standard, dacché molte conoscenze locali, importanti e utili, tramandate da generazioni sono andate perdute, inclusa la convivenza con il fuoco (Mistry, Berardi 2006).
C’è una grande distinzione tra i vari tipi di incendi; non solo tra quelli spontanei o di origine antropica, che generalmente si verificano nei mesi estivi o, comunque, quando la vegetazione è asciutta e favorevole alla combustione fuori controllo. Gli incendi tradizionali, invece, sono controllati e di solito avvengono in condizioni a basso rischio, come l’inizio della primavera o il tardo autunno, appiccati da persone esperte e per raggiungere determinati obiettivi.
Questa consapevolezza sembra stia crescendo anche tra gli addetti ai lavori, come mostra un articolo di Andrew Avitt, pompiere del “Forest Service” degli Stati Uniti, pubblicato sul sito-web ufficiale dell’ente nel novembre 2021 e in cui cita le parole di John Waconda, membro di Isleta Pueblo e direttore del programma di partenariato indigeno “The Nature Conservancy”:
«Secoli fa, gli indigeni abitavano la terra da costa a costa. Sapevano ciò che gli scienziati confermano oggi: incendi frequenti e a bassa intensità sul paesaggio non sono solo importanti per ridurre il rischio di incendi catastrofici, ma anche essenziali per la salute delle foreste. Il fuoco fa parte della natura; è proprio come la pioggia, l’alba ogni giorno. È un evento naturale, una parte della natura necessaria per completare i cicli di vita di diverse piante e animali» [12].
Ciò significa che adesso l’esigenza è anche quella di recuperare una conoscenza e una pratica erose, se non scomparse, anche in Europa, dove il debbio è stato esercitato per secoli (Sereni 1981) e che oggi potrebbe essere reintrodotto in maniera regolamentata e integrato in uno sfruttamento sostenibile delle risorse naturali e della mitigazione del rischio incendi. La perdita di “saperi antichi” e la mancanza di comprensione del ruolo ecologico del fuoco ha contribuito a causare gli attuali incendi catastrofici: gli incendi a bassa intensità, infatti, aiutano a ridurre l’accumulo di detriti combustibili e restituiscono nutrienti al suolo, proteggendo anche la chioma degli alberi. In molte zone, ormai, tra le strategie di riduzione del rischio di incendi estremi c’è proprio la reintroduzione di questi incendi leggeri e controllati, consci che «Il fuoco non è più il problema. Fa parte della soluzione», come ripete Waconda [13].
Evidentemente, studiare da vicino il patrimonio tribale – coinvolgere e ascoltare le comunità locali – fornisce preziosi spunti sull’uso del fuoco per raggiungere obiettivi di equilibrio e gestione del territorio, anche perché bisogna smentire l’idea che quelle aree siano (state) prive di interferenze umane: al contrario, quei paesaggi sono mutati con le azioni antropiche e con le popolazioni indigene nel corso dei millenni. La particolarità è che gli “incendi culturali” sono parte essenziale del sapere autoctono, utili per coltivare vari tipi di piante, per eliminare il fogliame superfluo e per creare pascoli, quindi favoriscono l’arricchimento della biodiversità, come veri e propri «mosaici di habitat» (Kimmerer, Lake 2001). L’insieme delle tessere di questo mosaico promuove una maggiore sicurezza alimentare, perché permette una diversificazione paesaggistica e produttiva che è vantaggiosa per tutti: le piante, gli animali, gli alberi e le comunità che vi abitano, riducendo il rischio di incendi estremi, sostenendo le tradizioni e riequilibrando il rapporto con l’ecosistema.
Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023
[*] Questo testo è un capitolo del libro Crisi e riti della contemporaneità. Antropologia ed emergenze sanitarie, belliche e climatiche, di Giovanni Gugg, in corso di stampa per la Collana: Dialoghi, presso le Edizioni del Museo Pasqualino di Palermo. Si ringrazia l’Editore per l’autorizzazione alla pubblicazione.
Note
[1] Legambiente, 2017: Dossier incendi 2017. Aggiornamento al 27 luglio 2017: https://sisef.org/2017/07/28/legambiente-dossier-incendi-2017/
[2] Le Journal de Montréal, 2016: Feu de Fort McMurray: l’Alberta déclare l’état d’urgence, 4 maggio: https://www.journaldemontreal.com/2016/05/04/feu-de-foret-toujours-actif-a-fort-mcmurray-levacuation-se-poursuit
[3] Statistic Canada, 2017: Fort McMurray 2016 Wildfire. Economic impact: https://www150.statcan.gc.ca/n1/en/pub/11-627-m/11-627-m2017007-eng.pdf (Si veda anche Weber B., 2017: Costs of Alberta wildfire reach $9.5 billion: Study, in “BNN Bloomberg”, 17 gennaio: https://www.bnnbloomberg.ca/costs-of-alberta-wildfire-reach-9-5-billion-study-1.652292).
[4] Alberta, 2016: Phased re-entry into Fort McMurray expected to start June 1, 18 maggio: https://www.alberta.ca/release.cfm?xID=41776B85DAE7F-C0F6-C84E-6D5B0D3C26C65211
[5] Gerein K., 2017: A year after the fire, Fort McMurray residents report an uneven recovery, in “Edmonton Sun”, 25 aprile: https://edmontonsun.com/2017/04/25/a-year-after-the-fire-fort-mcmurray-residents-report-an-uneven-recovery
[6] Ibidem.
[7] Ibidem.
[8] Ibidem.
[9] Dunphy B., 2016: Fighting the Fort Mac fire. When thoughts and prayers really make a difference, in “The Inverness Oran”, 1° giugno: https://www.invernessoran.ca/top-story/588-fighting-fort-mac-fires
[10] Ibidem.
[11] L’argomento comincia ad essere trattato anche dalla stampa generalista internazionale. Si vedano, ad esempio: Tripp B., 2020: Our land was taken. But we still hold the knowledge of how to stop mega-fires, “The Guardian”, 21 settembre (https://www.theguardian.com/commentisfree/2020/sep/16/california-wildfires-cultural-burnsindigenous-people), oppure Mann C. C., 2021: An Indigenous practice may be key to preventing wildfires, in “History”, 3 maggio (https://www.nationalgeographic.com/history/article/good-fire-bad-fire-indigenous-practicemay-key-preventing-wildfires).
[12] Le parole di John Waconda sono citate in Avitt A., 2021: Tribal and Indigenous Fire Tradition, “Forest Service”, 16 novembre: https://www.fs.usda.gov/features/tribal-and-indigenous-heritage
[13] Ibidem.
Riferimenti bibliografici
Bristow T., Ford T. H. (a cura di), 2016: A Cultural History of Climate Change, Routledge, New York.
Butler A., Sarlöv-Herlin I., Knez I., Ångman E., Ode Sang Å., Åkerskog A., 2017: Landscape identity, before and after a forest fire, in “Landscape Research”, vol. 42, issue 6.
Christianson A., 2015: Social science research on Indigenous wildfire management in the 21st century and future research needs, in “International Journal of Wildland Fire”, 24 (2).
Gugg G., 2021: Guarire un vulcano, guarire gli umani. Elaborazioni del rischio ecologico e sanitario alle pendici del Vesuvio, in “AM – Antropologia Medica”, n. 51.
Kimmerer R., Lake F. K., 2001: Maintaining the Mosaic: The role of indigenous burning in land management, in “Journal of Forestry”, novembre, 99 (11).
Leone U., 2017: È tutto un incendio. Prevenzione, l’arma vincente, in “Rocca”, n. 18, 15 settembre.
Mistry J., Berardi A., 2006: Savannas and Dry Forests: Linking People with Nature, Routledge, New York.
Sereni E., 1981: Terra nuova e buoi rossi e altri saggi per una storia dell’agricoltura europea, Einaudi, Torino.
Stirling M., 2016: Boiling Point: Government Neglect, Corporate Abuse, and Canada’s Water Crisis, ECW Press, Toronto.
________________________________________________________
Giovanni Gugg, dottore di ricerca in Antropologia culturale è assegnista di ricerca presso il LESC (Laboratoire d’Ethnologie et de Sociologie Comparative) dell’Université Paris-Nanterre e del CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique) e docente a contratto di Antropologia urbana presso il Dipartimento di Ingegneria dell’Università “Federico II” di Napoli. Attualmente è scientific advisor per ISSNOVA (Institute for Sustainable Society and Innovation) e membro del consiglio di amministrazione del CMEA (Centro Meridionale di Educazione Ambientale). I suoi studi riguardano il rapporto tra le comunità umane e il loro ambiente, soprattutto quando si tratta di territori a rischio, e la relazione tra umani e animali, con particolare attenzione al contesto giuridico e giudiziario.
______________________________________________________________