Davvero si può parlare di “sicilianità”, ovvero di una serie di tratti comuni che connota chi vive nell’Isola, rendendolo differente dagli altri? Di certo – nel cinema, soprattutto – si è posto eccessivamente l’accento su alcuni caratteri tipici dei siciliani, enfatizzandoli e costruendo stereotipi qualche volta caricaturali e folkloristici, ma è innegabile che ciascuna popolazione acquisisce e assume una propria identità derivante innanzitutto dal proprio contesto territoriale e storico. Ciò vale per i finlandesi come per i siciliani, le cui specificità caratteriali sono state sottolineate fin da tempi remoti risultando spiccate anche per l’insularità e per la posizione geografica della Sicilia al confine tra due continenti.
Marco Tullio Cicerone, ad esempio, colse nei siciliani lo spirito arguto ma anche sospettoso e una certa vocazione causidica, come pure l’inclinazione all’umorismo. Quando l’avvocato-filosofo di Arpino tratta del senso del ridicolo nel De oratore sottolinea il gusto per la battuta dei siciliani, che aveva conosciuto bene prima da questore a Lilibeo (l’odierna Marsala), poi girando l’isola per acquisire testimonianze utili nel giudizio contro Verre: «Per quanto le cose vadano male, ai siciliani non manca mai l’opportunità di uscirsene in qualche battuta spiritosa».
Saltando molto avanti nel tempo, nella seconda metà del XVI secolo Scipione Di Castro, quando Marco Antonio Colonna è nominato vicerè di Sicilia, scrive il pamphlet (come oggi lo definiremmo) Avvertimenti a Marco Antonio Colonna quando andò viceré di Sicilia, mettendolo in guardia dai siciliani che si ritroverà nella propria corte: li descrive accorti e timorati quando trattano i propri affari privati, temerari e spavaldi quando maneggiano il denaro pubblico, e perciò abbastanza pericolosi.
Nel XIX secolo Guy de Maupassant notò nei siciliani l’austerità degli arabi e «una grande vivacità di spirito…orgoglio natale…fierezza e gli stessi caratteri del viso che lo avvicinano più allo Spagnolo che all’Italiano».
Nel Novecento sulla natura dei siciliani vi sono pagine di alta letteratura, a partire dal colloquio del principe di Salina col funzionario sabaudo Chevalley nel Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: «I Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria…», o dal discorso su Verga di Luigi Pirandello: «Tutti i siciliani in fondo sono tristi, perché hanno quasi tutti un senso tragico della vita, e anche quasi un’istintiva paura di essa…Avvertono con diffidenza il contrasto tra il loro animo chiuso e la natura, intorno, aperta, chiara di sole, e più si chiudono in sé, perché di questo aperto, che da ogni parte è il mare che li isola, cioè che li taglia fuori e li fa soli, diffidano, e ognuno è e si fa isola a sé…», senza dimenticare le pagine di Sebastiano Aglianò autore del saggio che con più profondità indaga sulla psicologia degli isolani, Che cos’è questa Sicilia?, e quelle di Leonardo Sciascia che in Fatti diversi di storia letteraria e civile fornisce alla sua maniera una risposta a un interrogativo di fondo: «Alla domanda “Come si può essere siciliano?” un siciliano può rispondere: “Con difficoltà”».
Il tema, come si vede, è stato affrontato da fior di pensatori e letterati, e intriga sempre, anche quando viene trattato con leggerezza, senza la pretesa di dire qualcosa di nuovo rispetto a quanto sia già stato detto – il che, francamente, sarebbe assai difficile se non impossibile –, e senza alcun sussiego. Ed è con spirito di affabile levità, nella consapevolezza di quanto pericoloso sia pontificare sulla “sicilianità” e facile cadere nelle trappole dei luoghi comuni, che Augusto Cavadi ha scritto il breve saggio Sono siciliano ma poteva andarmi peggio edito da Di Girolamo (2022). Un libro nelle cui pagine scorre un filo sottile di ironia e di umorismo: un’ironia discreta e un umorismo garbato utili a stemperare discorsi che altrimenti risulterebbero gravosi o a sbollire la collera che ciascun siciliano legato alla propria terra prova dinanzi a malcostumi atavici e difficili da sradicare.
L’ironia bonaria e sorniona di Cavadi si manifesta già negli iniziali piccoli paragrafi del primo capitolo Fenomenologia del siciliano nei quali si mette in risalto l’«invincibile senso dell’eccezionalità» dei siciliani e la loro tendenza a esagerare, qualcosa che – detto in toni volutamente minori – richiama il «siamo dèi» gattopardiano.
A proposito del Gattopardo, il libro di Cavadi nasce da una rubrica curata dall’autore in un interessante mensile che prende in prestito il titolo dal capolavoro di Tomasi di Lampedusa. Il poliedrico saggista palermitano – un filosofo in pratica molto interessato ai temi teologici e della legalità che di tanto in tanto si lascia distrarre dalla saggistica divulgativa – ha già pubblicato, sempre per i tipi di Di Girolamo, i pamphlet La mafia spiegata ai turisti e I siciliani spiegati ai turisti.
Sono siciliano ma poteva andarmi peggio – raccolta di articoli rivisitati – può considerarsi il completamento di una trilogia nata un po’ per piacere di divagazione, un po’ per tentare di coniugare istruzione e intrattenimento, educazione civica e scrittura accattivante, leggerezza e cultura.
Un libro di agevole e gradevole lettura, Sono siciliano ma poteva andarmi peggio, nel quale però non mancano arguzie e riflessioni tutt’altro che scontate. Come quella sulla doppia natura dei siciliani: materni nel pubblico e patriarcali nel privato. Secondo Cavadi, nei siciliani prevale l’indulgenza materna quando agiscono nella sfera pubblica, sicché sono pronti a perdonare l’evasore e l’intrallazzatore di conti pubblici, la durezza paterna negli affari privati quando vengono minacciati il senso dell’onore e la “roba”. In questo caso la sua ironia si fa amara e la sua constatazione rinvia, con qualche sfumatura differente, agli Avvertimenti a Marco Antonio Colonna quando andò viceré di Sicilia.
Il libro si fa apprezzare anche per pacatezza ed equilibrio. L’autore – in ciò per nulla un esempio di “sicilianità” – non esagera mai e non si lascia irretire dalle posizioni estreme e anzi, come suggerisce l’azzeccato titolo, cerca sempre una via mediana, non certo per evitare sbilanciamenti a qualcuno sgraditi o per inclinazione al compromesso, ma perché l’intelligenza gli suggerisce risposte diverse da quelle polarizzate verso cui si è comunemente spinti. Sicché dinanzi al conflitto tra chi tende ad amplificare i mali dell’Isola e chi, al contrario, magnifica i siciliani e la Sicilia condannando quelli che ne denunciano le storture, Cavadi ritiene che «solo una Sicilia raccontata nei pregi e nei difetti potrà preparare all’incontro con la Sicilia effettiva: che non è né un paradiso, ma neppure un inferno»›.
Parimenti Cavadi sconfessa un altro luogo comune, quello per il quale la Sicilia sarebbe una terra vittima da chi l’ha conquistata depredandola delle sue ricchezze. Ma se ciò è in parte vero, è pure vero che la Sicilia ha ricevuto dai tanti popoli che vi si sono insediati tante risorse che, nella pluralità delle civiltà succedutesi, hanno contribuito a creare quello spirito cosmopolita e tollerante che la contraddistingue, senza contare che la “sopraffazione” lamentata è stata possibile grazie alla complicità di quei siciliani che da essa hanno conseguito benefici.
Nel libro di Cavadi – come detto, da sempre impegnato in iniziative contro l’illegalità e la mafia – non poteva mancare un capitolo sulla legalità. Anche nella parte dedicata al tema della legalità, Cavadi fa piazza pulita dei luoghi comuni: la Sicilia non è solo mafia, come enfatizza una superficiale e distorta rappresentazione dell’Isola, né può disconoscersi la presenza, significativa e malefica, di Cosa nostra, un cancro che l’ha deformata e imbruttita, difficile da estirpare, contro cui però si agita una coscienza critica sempre più vigile ed estesa.
Un altro luogo comune ribaltato dall’autore è quello secondo il quale la Sicilia è una terra poco sicura per chi la visita a causa del proliferare della delinquenza comune. In verità questa diffusa convinzione era stata smentita già due secoli addietro da Maupassant che nel diario del suo viaggio in Sicilia scriveva con gusto provocatorio: «Se ricercate le coltellate e gli arresti, andate a Parigi e a Londra, ma non venite in Sicilia», e nel primo decennio del Novecento da Sigmund Freud che in Sicilia trovò più di uno spunto per i suoi studi: «Devo vivamente contraddire l’impressione, che nutrivo pure io, che qui in Sicilia si sia per così dire fra selvaggi ed esposti a straordinari pericoli. Si hanno le stesse sensazioni e le stesse condizioni di vita che ci sono a Firenze e a Roma». Cavadi, per rassicurare i turisti, cita Gaetano Mosca che, oltre a essere stato uno dei politologi e sociologi italiani più acuti, fu uno dei primi studiosi del fenomeno mafioso: «…gli italiani del continente ed in generale tutti i forestieri che viaggiano od anche abitano in Sicilia sono quasi sempre rispettati dai malfattori, perché, non avendo il forestiero in generale rapporto con la classe delinquente, è difficile che contro di lui possa addursi il pretesto di una vendetta personale».
Di particolare interesse è l’ultimo capitolo del libro, I siciliani visti dagli altri. In esso si alternano le impressioni di imprenditori, registi, scrittori dei nostri giorni – l’americana Sally M. Veillette, il tedesco Wim Wenders autore del film Palermo shooting, la “milanese” Natalia Milazzo, lo studioso francese Philippe San Marco – con quelle di un noto autore del secolo scorso, Edmondo De Amicis, che visitò l’Isola nel 1906 consegnandoci nel suo reportage considerazioni oggi tuttora degni di nota, specie con riferimento all’individualismo del siciliano «dotato di facoltà intellettuali e morali ammirabili» cui fa da contraltare la sua renitenza all’associazionismo.
Chi nutre diffidenza verso i libri florilegio di articoli di stampa, leggendo Sono siciliano ma poteva andarmi peggio ha l’occasione per ricredersi: il libro ha una struttura saldamente unitaria, gli argomenti presi in esame sono felicemente collegati, il tono discorsivo – proprio di un giornalismo gradevole ancorché dotto (ma mai saccente) – conquista il lettore, lo coinvolge senza che se ne accorga in riflessioni tutt’altro che banali.
Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023
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Antonino Cangemi, dirigente alla Regione Siciliana, attualmente è preposto all’ufficio che si occupa della formazione del personale. Ha pubblicato, per l’ente presso cui opera, alcune monografie, tra le quali Semplificazione del linguaggio dei testi amministrativi e Mobbing: conoscerlo per contrastarlo; a quattro mani con Antonio La Spina, ordinario di Sociologia alla Luiss di Roma, Comunicazione pubblica e burocrazia (Franco Angeli, 2009). Ha scritto le sillogi di poesie I soliloqui del passista (Zona, 2009), dedicata alla storia del ciclismo dai pionieri ai nostri giorni, e Il bacio delle formiche (LietoColle, 2015), e i pamphlet umoristici Siculospremuta (D. Flaccovio, 2011) e Beddamatri Palermo! (Di Girolamo, 2013). Più recentemente D’amore in Sicilia (D. Flaccovio, 2015), una raccolta di storie d’amore di siciliani noti e, da ultimo, Miseria e nobiltà in Sicilia (Navarra, 2019). Collabora col Giornale di Sicilia e col quotidiano La ragione.
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