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Una migrazione lunga cinquant’anni. La presenza tunisina nel ragusano tra continuità e stratificazioni

Paesaggio serricolo della fascia trasformata. Primavera 2021  (ph. Andrea Calabretta)

Paesaggio serricolo della fascia trasformata. Primavera 2021 (ph. Andrea Calabretta)

di Andrea Calabretta 

Una migrazione sottotraccia

Lo sviluppo di un autonomo campo di studi migratori sembra avvenire in Europa non prima della metà degli anni ’70, quando la chiusura delle frontiere ai lavoratori stranieri in Germania (1973) e Francia (1974) impresse una spinta al processo di riunificazione familiare, rompendo definitivamente l’illusione di un’immigrazione temporanea (Allievi, 2020: 25). Se nei Paesi dell’Europa centrale l’attenzione si concentra sull’adattamento dei migranti ai modelli civico-politici del Paese di arrivo, parzialmente diverso appare il discorso per l’Italia dove a prevalere è il tema delle migrazioni interne che ancora assorbono la richiesta di manodopera del Nord industriale. Solo nei tardi anni ’70 le migrazioni internazionali cominciano ad essere oggetto di timido interesse anche in Italia ma la loro crescita rapida e tardiva (nel solo ventennio 1998-2018 la popolazione straniera passa dall’1,7 all’8,5% del totale) concorre a spiegare i ritardi in questo studio (ibidem: 31).

Diversamente dalle aspettative, i flussi migratori internazionali che coinvolgono l’Italia non hanno come prima destinazione le aree industriali del settentrione ma la Sicilia. Nonostante dalla regione partano nel corso degli anni ’60 oltre 600 mila persone dirette verso il Nord Europa o il settentrione (Fleri, 2021), questo sarebbe stato il contesto di arrivo dei primi flussi di manodopera dalla Tunisia (Colucci, 2018: 42), rendendo la migrazione tunisina in Sicilia apripista di una nuova stagione della storia italiana. Eppure, l’attenzione scientifica verso tale fenomeno sembra marginale, schiacciata da letture emergenziali che vorrebbero l’Isola meta di sbarchi e passaggi effimeri e influenzata da tendenze – e storture – insite nell’accademia (Calabretta, 2022).

Il contributo vuole tracciare le coordinate storiche dell’insediamento tunisino in Sicilia e in particolare nella provincia di Ragusa, osservandone le caratteristiche attuali e sottolineando la necessità di sviluppare  studi sulle comunità straniere “anziane insediate nel Sud Italia. Per raggiungere tali obiettivi, ho fatto ricorso  tanto a letteratura secondaria di taglio storico e sociologico, quanto alle narrazioni di migranti tunisini e di testimoni privilegiati. Nel 2021 ho infatti condotto quaranta interviste con migranti tunisini, arrivati nel ragusano negli anni ’80, e con loro discendenti, nati negli anni ’90. A tali interviste di tipo biografico se ne sono aggiunte un’altra decina con membri di sindacati, istituzioni e associazioni locali [1]. 

81638809_400L’avvio della migrazione tunisina 

Secondo Faïçal Daly la migrazione tunisina verso la Sicilia occidentale si sviluppa all’intersezione di cause attrattive come lo spopolamento causato dal terremoto del Belice (1968) che avrebbe spinto i proprietari agricoli della zona a rivolgersi alla manodopera straniera (2004: 116) e di cause repulsive legate al progressivo deterioramento delle condizioni economiche in Tunisia: «Quest’ondata migratoria era composta da lavoratori specializzati e braccianti agricoli disoccupati, le “vittime” delle fallite riforme agrarie» (Daly, 2001: 190). A ciò si aggiungeva l’espansione della flotta ittica di Mazara del Vallo, sostenuta dagli investimenti promossi dalla Cassa del Mezzogiorno, bacino sempre più importante di impiego della manodopera tunisina. Beniamino Fleri aggiunge a tali cause anche dinamiche storiche come la partenza di 50 mila italiani dalla Tunisia nel corso degli anni ’60, spinti dalle politiche nazionaliste di Burghiba. Secondo l’autore a fianco di questi «italiani d’Africa», rimpatriati nelle terre d’origine del Mezzogiorno vi erano anche alcuni tunisini cui erano legati da rapporti professionali e affettivi, e che costituirono una testa di ponte per successive migrazioni (Fleri, 2021). Inoltre, la chiusura delle frontiere di Francia e Germania nei primi anni ’70 sembrò reindirizzare alcuni percorsi migratori dalla Tunisia all’Italia (Pugliese, 1992: 168), all’epoca sprovvista di regolamentazioni degli ingressi dall’estero.

Nel corso degli anni ’70 dunque la presenza tunisina aumentò innanzitutto nel trapanese, avendo quasi sempre quale retroterra di partenza la lunga costa del Sahel tunisino che va da Nabeul fino a Chebba, teatro di scambi atavici con le coste siciliane (Allievi, 2003: 14) e di un’estesa «cultura della migrazione» (Massey, et al., 1994: 738). Antonino Cusumano definì tale migrazione un ritorno infelice sostenendo che, undici secoli dopo l’invasione araba della Sicilia, la ricomparsa dei discendenti degli antichi conquistatori non è «una nuova invasione violenta, ma forse del tutto pacifica non è, se si pensa che ognuno di questi immigrati deve ancora lottare per vivere» (1976: 21). Nel racconto dell’autore pare infatti emergere la rassegnazione dei migranti tunisini per le nuove gerarchie del Mediterraneo, all’interno delle quali la loro forza lavoro diviene conveniente per imprenditori agricoli e marittimi perfino in un contesto di grande disponibilità di manodopera locale come quello siciliano. Ksibet el Mediouni, Bradaa, Chebba, Mahdia diventano così controparti di Trapani, Vittoria, Palermo (Carchedi, 2002: 116) in una fase di forte circolarità tra le sponde. Racconta Yahya: 

«Dagli anni ’70 circa o anche fine anni ’60, c’era già qualcuno del nostro paese proprio di Bradaa impiantato proprio in Sicilia a Mazara del Vallo, Campobello di Mazara […], allora quando parti trovi sempre qualcuno al porto, qualcuno lì in attesa di qualcuno […] io venivo d’estate quei due, tre mesi delle vacanze a lavorare in Sicilia, abbiamo lavorato nelle serre così, lavori agricoli e poi si tornava a casa per finire gli studi» (uomo, 57 anni).

Tuttavia, a partire dagli anni ’80 il fenomeno migratorio in Italia sarebbe mutato (Bonifazi, 1998: 81) e con esso i caratteri della presenza tunisina. L’introduzione di un sistema di visti per l’ingresso in Italia (legge Martelli 39/1990) avrebbe reso più complesso il movimento tra Tunisia e Italia, permettendo invece – anche per via del maggior peso assunto dal permesso di soggiorno – processi di stabilizzazione in Italia e migrazioni interne verso le regioni settentrionali (Daly, 2001): 

«A Mazara sono arrivato nell’82. A quell’epoca l’Italia non aveva documenti per gli stranieri, nessuno, non c’era il permesso di soggiorno, non esisteva, tutto in nero […] Poi ho cominciato a viaggiare, sono andato a Messina, ho lavorato un bel po’ lì, poi sono venuto a Caserta. Poi da Caserta a Modena, a Finale Emilia di preciso» (Mejdi, uomo 60 anni). 

Nel corso dei decenni successivi la presenza tunisina in Italia sarebbe dunque cambiata sotto diversi aspetti. In primo luogo sarebbe cresciuta numericamente, tanto per via dell’arrivo di nuovi lavoratori – almeno fino alla crisi del 2008 – quanto per i ricongiungimenti familiari e la formazione di nuove generazioni, fino a raggiungere oggi, secondo l’Office des Tunisiens à l’Etranger, circa 200 mila unità. Sarebbe poi diventata più variegata in termini di insediamento, con l’aumento delle presenze nelle regioni settentrionali e nell’area di Roma (ISTAT, 2022). Avrebbe infine attraversato processi di stigmatizzazione, forieri di tensioni tra migranti “anziani” ormai radicati e nuovi arrivati, non di rado sprovvisti di documenti e accostati a pratiche devianti (Calabretta, Romania, 2022). Il modo in cui tali processi di radicamento avrebbero preso forma nella provincia ragusana sembra fornire un’utile chiave di lettura per fare luce sui caratteri peculiari di una migrazione anziana in un contesto, in parte poco esplorato, del meridione. 

Fascia trasformata (da Avola 2020)

Fascia trasformata (da Avola 2020)

L’evoluzione della presenza tunisina nella fascia trasformata 

È il 1980 quando Abdel, come racconta egli stesso, compra «all’occhi chiusi» un biglietto Tunisi-Trapani. «Sono venuto così, così, ‘un avia nessuno ni parenti, ni fratelli, ni amici, accussì all’improvviso» (uomo, 57 anni). Siccome il viaggio costa poco e non ha certezza che al di là del mare ci sia un lavoro ad attenderlo, compra anche il biglietto di ritorno, un biglietto che dopo quarant’anni anni non ha ancora utilizzato. Abdel fa parte di quella prima generazione di migranti che sin dagli anni ’70 giunge nel trapanese per poi proseguire verso altre zone della Sicilia, tra cui il ragusano (Avola, 2020: 23). L’area occidentale della provincia di Ragusa – la cosiddetta fascia trasformata corrispondente ai Comuni di Vittoria, Acate, Santa Croce Camerina e Comiso – si caratterizza infatti per le numerose aziende agricole, generalmente dedite all’agricoltura in serra e contraddistinte dalle modeste dimensioni (ibidem: 20). Racconta Safira, il cui marito finirà a lavorare per una famiglia che compie l’intero ciclo produttivo:

«Ha parlato con un signore con due figli, allora guarda loro gli hanno dato una stanza nel garage che dorme là lui, si alza alle 4 e se ne va a lavoro con loro e poi quello che raccolgono, neanche al magazzino, nel garage sistemano la roba così e la portano al mercato» (donna, 66 anni). 

In questa fase anche nella fascia trasformata la maggior parte dei lavoratori provengono dal Sahel, area che vanta un vasto retroterra agricolo: 

«Negli anni ‘70 e ‘80 è iniziata questa forte migrazione verso l’Italia da questi paesi rurali, gente che si è spostata, è venuta qui, il cugino ha portato il cugino, il fratello ha portato il fratello e ci sono un sacco di persone che vengono da quell’area» (Assad, mediatore culturale, 27.04.2021). 

È nel corso degli anni ’80 che il carattere circolatorio e stagionale delle presenze pare indebolirsi, sia per l’introduzione dei visti, sia per la ristrutturazione del sistema produttivo locale che, attraverso le serre, rendeva il ciclo agricolo sempre più protratto e destagionalizzato: 

«Negli anni ‘80 fanno 3-4-5 mesi, ognuno destinato a fare il melone, l’altro gli agrumi, quando c’erano… poi quando hanno messo il visto è iniziata l’immigrazione a stare, però in campagna, non c’erano molte famiglie perché non c’era ancora la cosa di portare i familiari o i figli» (Saber, uomo, 54 anni). 

In questa fase gli arrivi si fanno più intensi, grazie a catene migratorie via via più solide: 

«Io mi ricordo la prima nottata che vinni cca. Mio fratello mi fice venire qua a un bar che non mi ricordo manco come si chiama, u trovai pieno, pieno di tunisini, pieno! Dissi “ma che è, sono in Italia o sono in Tunisia io?”. Ti giuro, erano assai qua i tunisini paesani miei» (Anis, uomo, 59 anni). 

L’insediamento dei lavoratori tunisini continua tuttavia a connotarsi per una forte marginalità, sia in termini lavorativi che abitativi: 

«Ho lavorato un anno intero che dormivo in campagna, senza luce, senza acqua, non hai niente. Devi preparare a mangiare di giorno, di notte con le candele, l’acqua l’ajo dentro un pozzo vicino… tutto l’anno così passato» (Hatem, uomo, 51 anni). 

A muovere tali percorsi migratori paiono essere potenti motivazioni, legate a progetti personali o ad aspettative familiari. Racconta Moncef, arrivato in Sicilia nel 1987: 

«Uno guarda lì quelli che sono venuti un paio di anni prima di te, miei cugini, miei parenti, miei amici, vicini di casa, e si vede il cambiamento da quando sono venuti a lavorare in Italia, non come un operaio dell’epoca che lavora in Tunisia che guadagnava 10 dinari, 8 dinari» (uomo, 56 anni).

Anche lui si inserisce rapidamente nel lavoro agricolo, da cui non si distaccherà mai: 

«A volte ho pensato, “perché non vado via, non posso stare sempre nelle serre a fare questa vita”, ma alla fine sono rimasto sempre qui, fino ad oggi». 

A determinare quest’immobilismo sono anche i pressanti obblighi sociali verso la famiglia di origine: 

«Mio padre è appoggiato su di me che sono il primogenito, sono uscito fuori, sto lavorando e lui è contento perché io ho cominciato a guadagnare da giovane e io posso aiutare lui, posso aiutare i miei fratelli a continuare a studiare. Ho fatto minimo, una quindicina di anni, 10-12 anni che sempre mando i soldi perché sono 3-4 fratelli che studiano, lui non può…». 

A differenza di Moncef, per molti altri migranti tunisini il passaggio nella fascia trasformata è breve, preliminare a un’ulteriore migrazione verso il settentrione. Necessità meno incalzanti di mantenere la famiglia di origine ma anche il possesso di diplomi spendibili nell’economia industriale sembrano permettere di proseguire la migrazione: 

«Se vai a Nord non trovi l’aiuto, tutti sono a lavorare in azienda, non come qua in agricoltura che se non sei pratico [riesci a inserirti], se non hai un diploma al Nord non ti fa a trovare lavoro mai, solo trovi come muratore o manovale, se lo trovi» (Rajab, uomo, 57 anni). 

A queste caratteristiche si somma poi il possesso di disponibilità economiche e reti di supporto: 

«Sono andato a Milano, c’erano amici, ho passato un mese e mezzo però non lavoro e sono tornato… anche se non mi fanno pagare l’affitto, però per il mangiare… ho portato soldi con me e quando non sono riuscito a trovare lavoro sono tornato qui» (Mohsen, uomo, 55 anni).

 A rimanere nella fascia trasformata non sono tuttavia solo i migranti meno provvisti di risorse, ma anche coloro che trovano in tale ambiente delle sufficienti motivazioni per rimanere, come nel caso di Zinedine, persona chiave nella comunità tunisina di Comiso, che non vuole rinunciare al suo ruolo nelle reti sociali locali: 

«Perché ho deciso di andare a Milano? Perchè si guadagnava di più, è un’altra vita, un’altra… però dopo un anno mi trovavo sempre… non conoscevo nessuno… E qua invece c’avevo tanti amici e ho deciso di rientrare di nuovo a Vittoria» (uomo, 58 anni). 
Tunisini al lavoro nelle serre del ragusano

Tunisini al lavoro nelle serre del ragusano

A caratterizzare la collettività tunisina nella fascia trasformata ancora negli anni ’90 è dunque una sostenuta circolazione, non più con i contesti di origine, ma sull’asse che porta verso Nord. Al tempo stesso un nucleo sempre più consistente di migranti sembra ormai radicato nella fascia trasformata, costituendo un serbatoio di manodopera funzionale alla ristrutturazione di un sistema agricolo in cui le aziende escono dalla dimensione familiare e premono sulla riduzione dei costi del lavoro (Avola, 2020: 40). Pur in questa situazione, la crescita economica garantita dall’«oro verde» (Sanò, 2018: 22), unita ad una prima sindacalizzazione dei lavoratori tunisini sembrò tradursi negli anni ’90 in alcuni aumenti salariali (Piro, 2021: 26) che permisero a una parte della collettività tunisina di rinsaldare i propri progetti di vita nel contesto d’immigrazione. Tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000 sorgono così i primi negozi di prodotti etnici, phone centers e macellerie halal (Cole, 2007: 392), mentre viene a crearsi una rete di associazioni e circoli tunisini. Nello stesso periodo, inoltre, alcuni braccianti tunisini provano a mettersi in proprio affittando o in rari casi acquistando alcuni lotti di terra (Piro, 2021: 26).

Questa fotografia sembra assumere tinte più fosche nel corso degli anni 2000. Particolarmente deleteria sembra essere l’introduzione della legge Bossi-Fini in un’area caratterizzata da una forte precarietà contrattuale. Lo stretto legame introdotto dalla legge tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro: 

«ha inasprito la ricattabilità, perché il lavoratore pur di avere nella carta un contratto di lavoro che possa attestare quel reddito minimo che è la condizione per permanere in Italia non può far altro che accettare quello che stabilisce il padrone» (Peppe Scifo, segretario generale della CGIL di Ragusa, 10.04.2021). 

La maggiore ricattabilità sperimentata dai lavoratori tunisini sul mercato del lavoro cresce ulteriormente con l’arrivo di nuovi flussi migratori dall’Est Europa (Cortese, Palidda, 2018), situazione che permette ai datori di lavoro di mettere in competizione le due collettività e di comprimere così ulteriormente i salari. 

Manifestaizone pro Palestina, 25 marzo 2021 (ph. Andrea Calabretta)

Manifestazione pro Palestina, 25 marzo 2021 (ph. Andrea Calabretta)

La collettività tunisina nel ragusano oggi 

Come ricostruito, la fascia trasformata sembra rispondere alle caratteristiche del modello mediterraneo di integrazione caratterizzato da un’immigrazione non pianificata e dalle provenienze variegate, un alto grado di irregolarità delle presenze, assenza di politiche di integrazione, concentrazione degli immigrati in mansioni precarie, mal pagate, indesiderabili (King, Ribas-Mateos, 2002: 15-16). In queste condizioni la fascia trasformata offre però un vantaggio rispetto ad altre aree del Paese: quello della facile e ampia occupabilità (Avola, 2022). Proprio la grande disponibilità di lavoro agricolo spiega la possibilità per i nuovi arrivati di inserirsi nell’economia serricola, come Labid: 

«Sono stato due giorni nel mare e arrivato fino Lampedusa, restato dogu quasi tre giorni e dopo sono partito con la polizia a Agrigento, mi ha dato il foglio di via e dopo ognuno è andato per la strada… […] Io sono venuto qui l’anno 1995 e ho lavorato sempre alla campagna, tranquillo» (uomo, 44 anni). 

Tale disponibilità porta però anche a un radicamento delle presenze anziane, scoraggiate dalle incognite di nuovi spostamenti. Racconta Abdel: 

«Io qua a Marina, per esempio, trovai lavoro con 30 mila lire, che fai? Vado a Catania? Chi mi può garantire che trovo lavoro là? Allora m’accontento con poco, ma continuo» (uomo, 57 anni). 

L’anzianità della presenza ma anche la contiguità tra diverse generazioni migratorie costituiscono dunque peculiarità della collettività tunisina nel ragusano. Senza dubbio il prevalente inserimento lavorativo nel settore agricolo, con le sue precarietà e i suoi ridotti salari, ha portato a un ritardo nella stabilizzazione giuridica delle presenze, come racconta ad esempio Hakim, a Comiso dal 1985: 

«Ho già fatto io la domanda di cittadinanza eh, però l’ho dovuta annullare per motivi di reddito. Il reddito tutto completo è arrivato a 18.900 però ci vogliono 22.000 euro» (uomo, 63 anni). 

Difficoltà a ottenere garanzie in termini giuridici ed economici, vicinanza geografica alla Tunisia e modelli familiari di tipo tradizionale paiono anche contribuire al limitato peso della presenza femminile che nel ragusano si attesta intorno al 28% del totale contro il 40% a livello nazionale (ISTAT, 2022).

Ancora una volta le vicende di Moncef permettono di dare concretezza a queste considerazioni. La persistente debolezza economica pare infatti impattare significativamente sulle sue relazioni familiari e transnazionali, portandolo a rinunciare alla possibilità di ricongiungere la famiglia, rimasta in Tunisia: 

«Si guadagna poco, si guadagna 30 euro al giorno, non è granché, non è cambiato un granché, 2 o 3 euro in più dopo 10 anni […] Una volta sola ho provato a portarla [mia moglie] ma ho trovato difficoltà, reddito, cose, cercare casa… trovato un po’ di difficoltà, ho cercato un po’ ma poi ho lasciato perdere, purtroppo non ho provato di nuovo a fare questo. È rimasta lì». 

Configurazioni familiari transnazionali, densità della rete comunitaria (con cui spesso si condivide l’ambiente di lavoro e quello domestico), marginalità sociale sembrano portare molti migranti presenti nella fascia trasformata a rinsaldare i rapporti col contesto di origine. In questo senso, una fitta rete di scambi prende forma tra i poli della migrazione, sotto forma di rimesse, investimenti, comunicazioni. Prosegue Moncef, parlando di un piccolo investimento fondiario che richiama simbolicamente l’idea di mantenere le radici in Tunisia: 

«io ce le ho un po’ di olive e mi occupo di quelle olive, vado in campagna, passo… mi sento troppo attaccato, troppo, a quella terra delle olive, mi occupo di tutti i dettagli di quelle olive perché per me è una cosa troppo importante». 

La connessione con il Paese di origine sembra però al contempo limitare gli investimenti di tempo e di risorse che si riescono a rivolgere al contesto di arrivo. In questo senso, mantenere la presenza in Tunisia tocca anche la sfera del lavoro: 

«[Sono qui in Sicilia] da settembre fino alla fine di novembre, inizio di dicembre, torno di nuovo a casa e faccio un mese e mezzo-due mesi lì, poi torno a febbraio, i primi di marzo e facciamo marzo-aprile-maggio [qui] e torno intorno al 15-20 di giugno. Dipende dal lavoro, dipende dal datore di lavoro. Purtroppo loro sanno che noi facciamo questa cosa, lavoriamo tre o quattro mesi e poi dobbiamo andare in famiglia. Purtroppo la nostra vita è così […] Alcuni datori di lavoro non vogliono sapere che tu vuoi tornare in quel periodo e ti viene troppo duro stare con lui un tempo lungo, e fai due o tre anni e poi te ne vai a cercare un altro più flessibile».   

Iscritto nell’investimento per mantenere la presenza e palliativo delle durezze dell’immigrazione, il mito del ritorno diventa allora un orizzonte di necessità e di concreto riscatto: 

«Io il mio progetto è di continuare, fare tre anni, quattro anni massimo, inshallah, se Dio vuole, e rientro in Tunisia, torno definitivo». 

9dab214cover11614La storia di Moncef ha permesso di osservare come all’intersezione tra risorse individuali e lo specifico contesto della fascia trasformata possano sorgere esperienze migratorie che – pur pluridecennali – si configurano più come «emigrazioni» che come «immigrazioni» (Sayad, 1999: 298). Sarebbe tuttavia riduttivo appiattire la vicenda migratoria della fascia trasformata ad un semplice avvicendamento di braccianti presto diretti verso Nord o a lungo nostalgici della Tunisia. Proprio la lunga storia migratoria ha infatti permesso l’emersione di percorsi plurali. Un esempio diverso è quello di Saber che nei primi anni ’90, fresco di laurea in economia, raggiunge lo zio in Sicilia e inizia a lavorare in serra nell’ottica di mettere da parte dei soldi per proseguire gli studi, progetto che però ben presto naufraga. Le sue competenze non passano tuttavia inosservate: 

«Quando loro [i sindacalisti] vengono in azienda a fare i contratti, a fare le riunioni ho partecipato io, ho parlato io. Mi ha notato quello che era il segretario qua a Vittoria e lui mi ha fatto avvicinare […] e c’era l’idea di collaborare con il sindacato, l’idea era buona per me, lavorare in ufficio, farsi conoscere dalle persone, studiare le leggi dell’immigrazione in Italia, dare l’informazione alle persone» (uomo, 54 anni). 

Attivo in un ufficio sindacale a Vittoria, Saber diventa ben presto figura cardine nella collettività tunisina e anima un’associazione locale, dedita ad attività culturali e informative: 

«Facciamo una volta all’anno la festa del cous cous, facciamo i corsi di formazione, facciamo anche delle attività sportive […] prima dell’estate organizziamo il rientro della comunità in Tunisia e facevamo sempre una riunione grande tra i responsabili: mandano un ministro, mandano un dirigente della dogana, mandano da Tunisair… Erano belli quegli incontri perché le persone fanno le domande “posso portare una macchina? Posso portare un motore? Cosa devo fare alla dogana?”». 

Competenze, conoscenze, guadagni e capacità di movimento tra le frontiere che hanno permesso a Saber di lanciarsi in progetti imprenditoriali: 

«Nel 2007-2008 ho fatto un progetto in Tunisia, una società con due italiani per le macchinette del caffè. Io ora in Tunisia ho 350 macchine di quelle grandi e 500 di quelle piccole. Le mettiamo nei centri commerciali e soprattutto nelle fabbriche […] e ho portato del bene al mio Paese perché ora io ho sei laureati che lavorano con me». 

Le storie di Moncef e di Saber testimoniano come, nel susseguirsi delle stagioni migratorie, la fascia trasformata sia diventata un contesto via via più stratificato, in cui risorse individuali e opportunità possono permettere di affrancarsi dalla marginalità sociale e lavorativa del bracciantato senza necessariamente ricorrere a una nuova migrazione. Al tempo stesso emergono alcune caratteristiche tipiche dell’insediamento tunisino nella fascia trasformata, quale la forte connessione con i contesti di origine e lo stretto rapporto tra presenza straniera ed economia agricola. 

Conclusioni 

Serre nelle campagne di Ragusa (ph. Andrea Calabretta)

Serre nelle campagne di Ragusa (ph. Andrea Calabretta)

Sin dalle prime rilevazioni statistiche la provincia di Ragusa si attesta quale epicentro della presenza tunisina in Italia, superando ormai le oltre 9.000 presenze (ISTAT, 2022). Come ricostruito, a caratterizzare tale collettività è la giustapposizione di caratteristiche tipiche di flussi migratori recenti (maschilizzazione delle presenze, irregolarità amministrativa, alta partecipazione al mercato del lavoro) e di «indicatori tipici di una migrazione ormai matura, come la presenza diffusa di luoghi di culto e di spazi di aggregazione culturale e ricreativa» (Avola, 2020: 24).

Nel focalizzare lo sguardo sulla componente più anziana della collettività si è potuto osservare come questa storia migratoria si sia cristallizzata in traiettorie plurali, pur dentro un quadro di generale precarietà lavorativa e di stabilimento. Territorio tra i primi in Italia ad essere interessato da flussi migratori internazionali, il ragusano appare come un terreno di grande interesse scientifico per poter osservare i mutamenti del fenomeno migratorio, la costruzione di stratificazioni e gerarchie sociali e simboliche, l’intreccio tra vecchie e nuove migrazioni. Riscoprire la ricchezza storica e sociale del ragusano e di altre aree del meridione, uscendo dalla narrazione che ne vorrebbe dei meri luoghi di transito, pare dunque quanto mai urgente e necessario per arricchire gli studi migratori italiani e, attraverso lo specchio della migrazione, comprendere più profondamente dinamiche locali e globali (Sayad, 1999b: 7). 

Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023 
Note
[1] Gli intervistati hanno espresso in maniera esplicita il consenso allo svolgimento dell’intervista e al suo utilizzo in pubblicazioni scientifiche. I migranti e i loro discendenti vengono citati utilizzando degli pseudonimi. Per i testimoni privilegiati tale pratica si estende agli intervistati che non abbiano preferito essere citati con il proprio nome e cognome.   
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Andrea Calabretta, dottorando in Scienze Sociali presso l’Università degli Studi di Padova, la sua ricerca di dottorato (svolta a Modena e Ragusa) si concentra sulle relazioni transnazionali della comunità tunisina in Italia e punta a comprendere il ruolo dei fattori contestuali e strutturali nell’influenzare tale esperienza. I suoi interessi di ricerca riguardano le migrazioni transnazionali, i processi di esclusione sociale e di cittadinizzazione dei migranti, l’Islam europeo e la costruzione identitaria nelle nuove generazioni con background migratorio. Ha svolto soggiorni di ricerca presso l’Università di Sousse (Tunisia) e di Liegi (Belgio).

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