di Mario Sarica
Sul versante etnomusicologico ed etnorganologico la Sicilia, come è noto, si configura come uno dei territori di ricerca di più rilevante interesse di tutta l’area mediterranea, con una pluralità di famiglie strumentali e pratiche musicali vocali (monodiche e polivocali), ancora oggi in parte funzionali nei residui contesti cerimoniali di tradizione, sia sacri sia profani.
Da sempre spazio geografico privilegiato di scambi culturali fra Oriente e Occidente, Europa continentale e aree insulari mediterranee, l’Isola ha sedimentato nel corso dei secoli un patrimonio culturale plurimo, e nello specifico registro musicale di assoluto rilievo, facendo interagire i diversi saperi colti e popolari, in fitto e costante dialogo fra loro.
Su questo versante, paradigmatico si configurano le relazioni di lungo periodo fra territorio peloritano, area elettiva d’uso degli aerofoni pastorali, e l’area urbana messinese, da sempre aperta alle relazioni fra scrittura e oralità, e polo di irradiazione di linguaggi musicali strumentali e vocali colti formalizzati in composizioni originali, sacre e profane. A determinare tale singolare esperienza musicale plurisecolare, la Cappella Musicale della Cattedrale voluta dal Senato messinese alla fine del Cinquecento, attiva fino all’Ottocento.
Andando poi a ritroso nel tempo, la Sicilia, dalla colonizzazione greca in avanti, ha collezionato un ricco catalogo di forme culturali materiali e immateriali variamente connotate che, in un singolare gioco di integrazioni e rispecchiamenti semantici, hanno influenzato anche gli stili di vita e le conoscenze e lo sviluppo delle comunità di tradizione agropastorale, dunque “visioni del mondo”, configurando perimetri cerimoniali e riplasmazioni performative musicali, strumentali e vocali in ambiti rituali, spesso esclusivi.
Un palinsesto dunque di lungo periodo storico, che configura un vero e proprio regno isolano delle diversità culturali, e in specie di pratica strumentale e prassi di canto, afferenti alle diverse funzioni assolte (segnaletiche, cognitive, festive e devozionali) nei relativi contesti d’uso.
Limitando l’osservazione al catalogo etno-organologico siciliano di più antica memoria, ovvero allo strumentario musicale di origine pastorale, c’è da rilevare, preliminarmente, che evidenti sono i profili morfologici che rimandano alle antiche civiltà mediterranee e medio-orientali, dunque ai calami semplici a quelli doppi, nella tipologia di flauti e ance semplici e doppie, fino agli aerofoni a sacco (cornamuse e zampogne).
Tali profili di osservazione e chiavi di lettura sono emersi con evidenza, grazie ai caposcuola della ricerca etnorganologica italiana, ovvero Roberto Leydi, prima, e Febo Guizzi, dopo, figure carismatiche e di grande spessore scientifico, cui va il merito, fra l’altro di aver formato all’Università di Bologna più generazioni di ricercatori. Un’azione sistemica, quella promossa da Leydy e Guizzi, i cui diversificati contributi di studio, hanno nel tempo colmato gradualmente un ritardo di conoscenza etnorganologica italiana rispetto ad altre aree europee mediterranee e continentali.
L’ampia letteratura storico-etnorganologica di cui oggi disponiamo, coniugata a sguardi comparativi interdisciplinari, quale ad esempio l’iconografia musicale, conferma in maniera inequivocabile gli stretti legami di parentela organologica degli aerofoni pastorali siciliani, e peloritani in particolare, con i flauti e le ance semplici e doppie dell’antichità. Se poi a questo ampio orizzonte di ricerca e studio, aggiungiamo le suggestioni mitologiche e il fascino poetico che emanano, ad esempio, dalle pitture vascolari di botteghe siciliote di età ellenistica, dunque dal IV secolo a.C., e di versi degli idilli pastorali di Teocrito – poeta alessandrino originario di Siracusa del IV III sec. a. C., padre della poesia pastorale – gli strumenti a fiato pastorali siciliani, si configurano come testimonianza tangibile di una straordinaria e singolare vicenda culturale plurimillenaria, che ha riservato al suono un posto centrale nella rete comunicativa comunitaria, riconoscendolo come segno identitario, strettamente collegato allo stesso paesaggio ed ambiente naturale, da cui ha origine.
Affidato alla trasmissione orale, il sapere di origine agropastorale, riferito alla prassi strumentale, sul piano della tecnica costruttiva e della replica di repertori musicali, ha attraversato, dunque, i secoli all’ombra della grande storia, giungendo “miracolosamente” fino ai nostri convulsi giorni della modernità. Ciò è stato possibile grazie al regime solitario di vita condotto dai pastori, in rapporto simbiotico con l’ambiente naturale, piuttosto che con la comunità d’origine, capaci di sviluppare un loro esclusivo pensiero simbolico ed astratto, riflesso appunto dal loro linguaggio musicale, oltre che dai manufatti lignei d’uso funzionale (collari, bastoni, cucchiai, ciotole, etc), in uno scambio, fra forme materiali ed immateriali, immaginario e natura. E tutto ciò dentro un codice di comportamenti, prescrizioni e relazionali, fino a quello d’onore, condiviso peraltro da tutte le culture pastorali del Mediterraneo, dalla Spagna alla Grecia, passando per la Sicilia, oggetto di specifici studi antropologici fra gli anni cinquanta e sessanta dello scorso secolo.
In una cornice di fatale e accelerata desertificazione della cultura pastorale unitamente a quella della tradizione contadina, che si osserva con crescita esponenziale a partire dal secondo dopoguerra – sempre più marginale e perfino degradata nelle sue forme – i flauti diritti di canna, le ance e le zampogne “a paro”, al di là delle residuali funzioni festive e cerimoniali svolte, hanno tuttavia mantenuta una sostanziale vitalità di saperi e d’uso, offrendosi con i loro “portatori” all’osservazione dei ricercatori come preziosi oggetti di studio, in quella che è stata l’ultima stagione di ricerca demoetnoantropologica sul campo nelle diverse aree italiane di cultura di tradizione.
Parallelamente, complice anche la stagione di lungo periodo di folk revival, che prende le mosse discografiche negli anni settanta del Novecento, si è alimentato un rinnovato interesse da parte di una nuova schiera di giovani costruttori e musicisti, in grado di nutrirsi dei saperi degli ultimi “informatori” di questa antica prassi etnorganologica pastorale, sia costruttori sia suonatori di tradizione.
E così la paventata crisi irreversibile della pratica d’uso degli aerofoni pastorali, è stata gradualmente smentita da una rete di nuovi costruttori e musicisti, ben consapevole e maturi, nel trattare questa materia organologica e musicale, con grande cura e rispetto, e soprattutto conoscenza, peraltro nel frattempo definitivamente decontestualizzata. Sul piano performativo poi, si è lasciato alle spalle il pur significativo ruolo svolto dal flauto diritto di canna nei complessi folklorici, per rimettere in gioco lo stesso flauto di canna in altri generi musicali, compreso il jazz, come ha fatto Gemino Calà, e ancora di più la zampogna “a paro”, in molti casi con un approccio cross-over, di contaminazione e rigenerazione, fra tradizione e innovazione, in nuovi contesti musicali, compreso quello classico.
Un’impensabile, per molti versi, rigenerazione d’uso degli strumenti musicali pastorali, rivissuti in verità da alcuni performer con eccessiva disinvoltura, come strumenti “etnici”, magari da “manipolare” o “contaminare”, seguendo le effimere mode del consumo musicale tout-court.
Su un tracciato ben diverso, peraltro del tutto originale, si configura invece l’approccio allo strumentario pastorale da parte di Pinello Drago di Galati Mamertino. Unendo la ricerca e il confronto costante con le fonti etnorganologiche e un’esperienza esistenziale a contatto diretto con la resiliente cultura pastorale del suo territorio, espressa esemplarmente da Calogero Di Nardo pastore-suonatore, diventato poi suo suocero, Pinello Drago ha intrapreso un sentiero nuovo. Capitalizzando gradualmente le sue non comuni competenze etnorganologiche riferite agli aerofoni pastorali, declinate ad un originale riscrittura dei repertori musicali d’origine, ha fondato e guidato per quasi dieci anni, più o meno la prima decade del terzo millennio, un ensemble strumentale-vocale davvero unico nel suo genere. Il Kalamos Ensemble, questo il nome del gruppo, ha infatti messo assieme, valorizzandoli a pieno, insufflando loro l’anima musicale perduta, per la prima volta tutti gli aerofoni pastorali della tradizione siciliana, e peloritana in particolare, ovvero flauti diritti di canna, semplici, doppi e perfino tripli, quest’ultimi ricostruiti per la prima volta da Drago sulla base dell’iconografia musicale siciliana riferita all’Adorazione dei pastori.
E così, facendo tesoro delle rigorose ricerche sul campo condotte nell’area nord-orientale siciliana, a partire dalla fine degli anni Settanta, i giovani suonatori di Galati Mamertino (centro dei Nebrodi, in provincia di Messina), ovvero Salvatore, Giuseppe e Francesca Anastasi, Andreina Drago, oltre il leader dell’ensemble Pinello Drago, raffinato costruttore di flauti e, clarinetti, semplici e doppi, oltre che di zampogne “a paro”, hanno recuperato, nel pieno rispetto filologico, l’uso di strumenti pastorali estinti, compreso il triplo flauto, e rivitalizzato il doppio flauto di canna e il doppio clarinetto, strumenti in crisi, quasi del tutto estinti dalla pratica della tradizione, conferendo loro una insospettata dignità organologica e musicale, in una dimensione polifonica musicale pastorale mai sperimentata prima.
E tra le tante incisioni discografiche dedicate a tutto l’universo dei repertori di tradizione, con reinterpretazioni e riscritture vocali di grande qualità performativa, vale la pena certamente segnalare il Pastor Galante. Si è trattato di una produzione per i titoli di Phoné, di grande respiro musicologico, che ha riproposto molti dei titoli della “Selva di varie compositioni” di Bernardo Storace (stampata a Venezia nel 1664), vice maestro e organista della Cappella Musicale di Messina, oltre la metà del Seicento, che trascrive nella sua raccolta una pastorale, ascoltata certamente dai pastori-suonatori peloritani, a segnalare gli ininterrotti scambi fra livello colto e popolare, sorgente da sempre della musica d’arte di tutti i tempi.
La raccolta mette assieme titoli di arie e danze secentesche scritte per strumenti a tastiera, organo e clavicembalo, affidate in questo originale progetto alle “voci” dei flauti e della zampogna “a paro”, oltre che al talento di organista e clavicembalista di Diego Cannizzaro, che ha firmato la direzione artistica del progetto discografico.
Ritornando ora ad osservare la zampogna “a paro”, massima espressione del sapere organologico pastorale siciliano, la quale gode ancora oggi per fortuna di buona salute, nonostante il fatale disgregarsi dei contesti devozionali e festivi di cui era espressione, attestata storicamente soprattutto nell’area nord-orientale dell’Isola (Nebrodi e Peloritani), c’è da evidenziare che Pinello Drago, le ha dedicato grande attenzione e studio, unitamente ai doppi calami, nell’accezione di doppi flauti e clarinetti. Proprio su questi aerofoni pastorali, che ci guidano fino agli aulos greci, Pinello Drago ha messo a punto una serie di originali varianti organologiche, richiamandosi anche all’iconografia musicale medievale, esaltando così, con tagli e tonalità diversi e tessiture armoniche inaspettate, le qualità sonoro-timbriche e polifoniche degli strumenti. Ma è sul doppio clarinetto, dal quale deriva, lungo un percorso di evoluzione organologica, la zampogna “a paro”, e poi sulla ciaramedda – così è indicato in dialetto lo strumento pastorale maggiore – che Pinello Drago, seguendo un originale itinerario di graduale rivisitazione organologica, ha dato un contributo singolare, sperimentando quattro interessanti varianti organologiche e riuscendo nel contempo a stabilire insospettate relazioni di parentela con altri aerofoni a sacco, anche nel tipologia di cornamuse, ripercorrendo, per certi versi i diversi stadi di evoluzione della zampogna “a paro” che si stabilizza nella forma giunta fino a noi presumibilmente fra Quattrocento e Cinquecento, secoli che segnano come è noto, la grande rivoluzione organologica in Europa, con un processo di innovazione e definizione delle famiglie di aerofoni e non solo con Pretorius.
Rivolgendo ora nuovamente la nostra attenzione all’esperienza musicale del Kalamos Ensemble, c’è da dire che si sono posti al confine fra memoria e innovazione, nel pieno rispetto dei valori della tradizione, sia vocali che strumentali, adottando riscritture e soluzioni interpretative particolarmente felici. E così, nella pur ricca e diversificata offerta musicale siciliana “ricreata” o “reinventata”, il progetto del gruppo strumentale e vocale nebroideo, si è lasciato apprezzare per gli stretti legami che ha intrattenuto con la tradizione vissuta e i coerenti riferimenti stabiliti con i più significativi rilevamenti sul campo, dovuti ad una incisiva ricerca etnomusicologica come si segnalava prima, avviata alla fine degli anni settanta del Novecento.
Oggi si dispone dunque, non solo di una mappa etno-organologica siciliana aggiornata e di una cospicua letteratura scientifica, ma anche di una significativa raccolta di documenti sonori di tradizione orale, e, infine, di un rilevante gruppo di costruttori e suonatori di classe superiore, che guardano in alcuni casi, come fa Rosario Altadonna a Messina, a tutte le famiglie di aerofoni mediterranei, con esiti di assoluto pregio etnorganologico e performativo musicale.
In più, come polo esemplare di riferimento per ricercatori e musicisti, c’è da segnalare il Museo di cultura e musica dei Peloritani di villaggio Gesso (Messina), che conserva una ricca collezione di strumenti musicali popolari siciliani, oltre che sostenere una progettualità multidisciplinare, promuovendo laboratori etno-organologici, seminari-concerti, mostre tematiche, visite didattiche, produzioni scientifiche. Convergendo ora la nostra attenzione alla zampogna “a paro” siciliana – strumento-simbolo della cultura musicale pastorale della Sicilia nord-orientale – e più specificamente alle “varianti” introdotte da Pinello Drago, c’è preliminarmente da dire che, al di là degli originali esiti musicali cui pervengono, le invenzioni etno-organologiche del costruttore-suonatore di Galati Mamertino, vanno lette all’interno della più ampia cornice culturale dei saperi relativizzati, del cambiamento, della mutazione, che contraddistingue i processi d’interazione e dei codici di comunicazione del nostro presente.
La materia popolare, nelle sue diverse accezioni, e soprattutto nel suo farsi musica, ha perso da tempo il riferimento funzionale al suo ambito originale, dominato dalla centralità dei valori e dei saperi stabili della tradizione, per assumere altri connotati, piegandosi così a manipolazione e contaminazione, scardinando le coordinate spazio-tempo entro le quali era scandito il vissuto condiviso.
La zampogna “a paro”, pur riflettendo nei suoi tratti costitutivi una lunga e articolata vicenda storico-organologica, oggi vive o nella dimensione della nostalgia e del ricordo, dunque come memoria di un’età perduta rifunzionalizzata in residuali contesti cerimoniali e festivi, o in altri casi, sottraendola al suo territorio culturale d’origine, come strumento musicale dal fascino etnico in grado di dialogare con altri strumenti, facendola così interagire con codici musicali ad essa estranei.
Oscillando fra permanenza e variabilità, fra tradizione e innovazione, Pinello Drago, ha infatti sviluppato un progetto musicale strettamente intrecciato con la graduale riscoperta del livello etno-organologico più remoto, replicando sostanzialmente dinamiche di lungo periodo, tipiche dei contesti di vita agro-pastorale. I caratteri della stabilità, tipici del sapere e delle conoscenze di tradizione, nel caso delle forme musicali subiscono, infatti, com’è noto, un processo di reinterpretazione, assorbendo nel tempo varianti organologiche, esecutive e stilistiche, pur nel rispetto del modello dominante. Ciò è regolato dalla performance, dove significato, senso e funzione coincidono. Più specificamente, proseguendo l’analisi semiologica, nel messaggio musicale i significati e i significanti aderiscono fra loro in modo indissociabile. Di più, la performance musicale attiva una rete sottile di relazioni con il messaggio nella sua totalità, il mittente e il destinatario, il contesto, il codice e il contatto.
Un percorso, quello seguito da Pinello Drago, davvero paradigmatico, che si offre, dunque, al di là delle specifiche varianti etno-organologiche sulle quali ci soffermiamo in maniera specifica in Appendice, ad una riflessione, come abbiamo visto, di più ampio respiro sul senso del fare musica di tradizione con strumenti della tradizione e su tutti gli effetti “collaterali” prodotti dal radicale spaesamento dello strumentario e della materia musicale dai contesti originari.
Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023
APPENDICE
Prima di soffermarci sulle singole varianti apportate alla zampogna “a paro”, è certamente utile fare riferimento al clarinetto doppio di Pinello Drago. Il riferimento è obbligato, in quanto il doppio calamo, oltre ad essere attestato nell’area peloritana, è strettamente imparentato con lo strumento pastorale maggiore, ovvero con la zampogna a paro.
Il doppio clarinetto
Il doppio clarinetto ci propone un suggestivo viaggio verso le fonti sonore mediterranee più remote, dalle quali ha inizio la lunga ed articolata vicenda organologica che condurrà alla zampogna a paro, che com’è noto, si attesta nell’area nord-orientale messinese, e oltre Stretto, nel territorio reggino jonico di matrice culturale grecanica. Caratterizzata dai due chanters di eguale lunghezza, e da due o tre bordoni, la zampogna a paro, monta com’è noto ance semplici (con taglio inferiore), ha il canneggio cilindrico-conico, ed è strumento solista, dalla doppia natura sacra e profana, in quanto funzionale agli ambiti devozionali (e non solo in occasione del Natale) e a quelli festivi (canto monodico e polivocale e danza). Ancora sui caratteri organologici dello strumento a noi pervenuto, c’è da annotare che appaiono già stabili a partire dai primi documenti iconografici della prima metà del XVI sec. Circa poi i legami con l’Oriente, dal quale è giunta in epoca antica la numerosa famiglia degli aerofoni, dai flauti alle ance, semplici e doppie, alla zampogna, c’è da dire che sono inequivocabilmente attestati dal forte radicamento dei bizantini su quei territori a partire dal V secolo, dagli insediamenti monastici greci del VII secolo e dalla colonizzazione araba della Sicilia a partire dall’VIII secolo.
Sui caratteri organologici e musicali, c’è da dire che il doppio clarinetto realizzato da Pinello Drago, a differenza di quelli di tradizione realizzati in canna (arundo donax), è modellato su legno di fico, con il ricorso anche a segmenti di canna, così come sono di arundo donax le ance (semplici con taglio inferiore), dette in dialetto zammare, analoghe a quelle montate sulle canne della zampogna. Per quanto concerne l’impianto musicale, invece di replicare, così come nella tradizione, quello della zampogna, il doppio calamo di Drago, battezzato Kàlamos (dal greco canna), è costituito da una canna melodica (sviluppa un’ottava sulla tonalità di Mib), e da un lungo bordone che intona la relativa tonica all’ottava bassa.
Le varianti della zampogna a paro “multiuso” in Do di Pinello Drago
La 1a variante non apporta sostanziali modifiche all’impianto musicale dell’aerofono pastorale siciliano. Lo “scivolamento” dello chanter grave all’ottava bassa non altera infatti la consueta distanza intervallare fra le due canne, confermando così la consueta estensione di un’ottava dello strumento, e gli ambiti di una sesta minore e di una quinta giusta per i singoli chanter. Sul versante delle combinazioni armoniche si replicano quelle abituali fra I, V, e VII grado della scala relativa, ovvero nel caso dello strumento in esame, quella in DO, oscillando fra accordi in DO e in SOL, usando anche il rivolto di quest’ultimo accordo.
La 2a variante “spinge” la distanza fra i chanter fino ad un’ottava, comune, com’è noto a molte zampogne italiane. Ciò determina, sul versante del canto, una riduzione dell’estensione dello strumento ad una sesta, replicando così uno dei tratti musicali peculiari della surdulina calabrese, cui peraltro la zampogna a paro è legata da stretta parentela organologica. Del tutto inedite, poi, le soluzioni armoniche che tastano I e III/ IV e II/ V e II grado, sugli accordi di DO SOL7 e SOL, con il ricorso anche ai rivolti.
La 3a variante, operando ancora una volta sullo chanter grave, ridetermina la distanza dallo chanter acuto, fino ad un intervallo di quinta, allargando così i confini dell’ottava verso il grave. Ciò consente di sperimentare nuove soluzioni armoniche fra III, V e VII grado della scala relativa, sugli accordi di DO e SOL, anche in rivolto.
La 4a variante modifica radicalmente l’assetto organologico e musicale della zampogna a paro, trasformandola di fatto in una cornamusa. Escludendo del tutto lo chanter grave, si affida in maniera esclusiva la funzione melodica allo chanter acuto, su cui diteggiano le due mani nell’ambito di un’ottava con taglio tonale in sol. I due bordoni, il medio e il maggiore, si regolano poi sulla tonica (come capita qualche volta al bordone basso degli strumenti calabresi omologhi) invece che sulla dominante, secondo la regola imposta dalla tradizione.
La 5a variante, confermando l’impianto con una sola canna melodica, ad imitazione della cornamusa, sperimentato con la variante precedente, aggiunge un terzo bordone intonato sul terzo grado della scala di SOL, che altro non è che lo chanter grave rifunzionalizzato.
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Mario Sarica, formatosi alla scuola etnomusicologica di Roberto Leydi all’Università di Bologna, dove ha conseguito la laurea in discipline delle Arti, Musica e Spettacolo, è fondatore e curatore scientifico del Museo di Cultura e Musica Popolare dei Peloritani di villaggio Gesso-Messina. È attivo dagli anni ’80 nell’ambito della ricerca etnomusicologica soprattutto nella Sicilia nord-orientale, con un interesse specifico agli strumenti musicali popolari, e agli aerofoni pastorali in particolare; al canto di tradizione, monodico e polivocale, in ambito di lavoro e di festa. Numerosi e originali i suoi contributi di studio, fra i quali segnaliamo Il principe e l’Orso. Il Carnevale di Saponara (1993), Strumenti musicali popolari in Sicilia (1994), Canti e devozione in tonnara (1997); Orizzonti siciliani (2018).
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