È quel periodo dell’anno in cui, da docente, ci si può trovare a discutere con i propri studenti e studentesse di quella parte di storia del Novecento che va dagli anni venti alla Seconda guerra mondiale. Mi è capitato l’anno scorso, mi sta capitando quest’anno. A distanza di dodici mesi affrontare certi temi, fatti e processi storici è diventato ancora più complicato. Il paragone con quindici anni fa, anni in cui stavo fra i banchi e non alla cattedra, è imbarazzante. Sarà questa una riflessione amara, forse troppo personale, forse, anzi spero, raramente riscontrabile nelle esperienze degli altri colleghi sparsi per il Paese, ma ineluttabile per me, oggi, all’insegna del dibattito sulle ONG che Dialoghi Mediterranei sta portando avanti senza paura.
Il fatto è semplice: quindici anni fa, parlare di segregazione, razzismo, estremismo politico e delle controparti come democrazie, inclusione, accoglienza, era molto più semplice: in che senso? Avevi un mondo, fuori dallo spazio-tempo della lezione-classe, che poteva fare da contraltare in maniera abbastanza netta. Un mondo, non migliore di oggi in senso assoluto ovviamente, sia chiaro, dove però a livello di dibattito pubblico – al di là, lo ripeto, delle problematiche del nostro Paese dell’epoca, alcune delle quali sussistono oggi anche in maniera più grave – certe istanze erano definite, mai messe in dubbio, non oggetto di alcun dibattito destabilizzante o messa in discussione perché per assodate. Quali? L’accoglienza appunto, il salvataggio di migranti alla deriva nel Mediterraneo, il lento ma progressivo ampliamento dei diritti civili, l’antirazzismo, i valori della democrazia, i diritti umani come stendardo, motivo di orgoglio per l’Unione Europea, l’Unione Europea stessa come orizzonte culturale per il futuro e così via.
Ecco, oggi, questo contraltare vacilla, sempre più rarefatto sta quasi dissolvendosi nel campo dell’opinione, del gusto personale, della minoranza quasi snob, radical chic, elitaria, lontana dalla cruda realtà di oggi, dagli umori popolari, dal senso comune. Le conseguenze di ciò sono molteplici: è più difficile portare studenti e studentesse alla comprensione di quanto tutto ciò sia fondamentale e non scontato (i diritti vanno difesi oggi più che mai anche se per fortuna viviamo in un Paese dove ancora è possibile che “non ci si accorga” del loro essere in pericolo) ed è più complesso parlare di autoritarismi, di razzismo, di fascismo, di segregazione senza rischiare di “suonare” schierato, politicizzato, “buonista”, ingenuo, privilegiato.
Ora, qualcuno che insegnava già dieci anni fa magari leggerà questa riflessione e penserà che anche all’epoca era difficile, complesso, complicato, non rischiare di “fare politica”, di apparire “schierato”, o “militante” di qualche ideologia estremista. E avrà pure ragione ma non potrà negare che oggi fare lezione sul fascismo, l’antifascismo, la Resistenza, l’accoglienza e la segregazione è un terreno più scivoloso. Che in questi dieci-quindici anni si è speculato sulla pelle degli ultimi, dei più poveri, delle minoranze. Che durante questo decennio è diventato rischioso costruire un senso critico sul fascismo e antifascismo (si ricordi il recente caso della preside di Firenze richiamata e minacciata dal ministro dell’Istruzione). Che in questi dieci-quindici anni la polarizzazione ideologica, la demagogia, l’inesistenza di un reale discorso politico convincente alternativo al populismo, alla xenofobia, all’estrema destra, sono tutti fattori che progressivamente hanno eroso il tessuto socioculturale del nostro Paese a tal punto da rendere non così semplice, come dovrebbe essere, riconoscere la brutalità di certe politiche, la cruda realtà dei fatti storici, la forza delle ideologie di un passato non così lontano.
Il punto è che ci si sta abituando piano piano alla tragedia e alla discriminazione, a livello mediatico, a livello di narrazioni, tanto che la normalizzazione della brutalità di certe idee e di certe tragedie (ancora troppo recente quella di Cutro per esempio) è ormai quasi totale. Se, da un lato, su certi temi si è fatto un progresso sostanziale, nella quantità del dibattito più che nella qualità, nell’esposizione mediatica più che nell’azione politica, come nei casi dell’omofobia e degli omicidi di genere, dall’altro si nota il pauroso sviluppo e la proliferazione di forme e costruzioni di falsificazione storica, di assurdi teoremi cospirativi fino ai dogmi del negazionismo più assoluto, che dalla critica al recente passato traccia un disegno unilineare che arriva a ritroso fin agli albori dell’umanità.
Parlare oggi di evoluzionismo per esempio, o di colonialismo e imperialismo, in una scuola serale di periferia rischia di trasformarsi in un momento di criticità e difficoltà per il docente, guardato con sospetto o con imbarazzo. Parlare oggi di teoria della comunicazione (come funzionano le pubblicità per esempio), teoria della letteratura (per esempio le differenze fra naturalismo e verismo), o semplicemente dell’Italia post risorgimentale, può rischiare di diventare terreno pericoloso e non solo perché quel mondo fuori dallo spazio-tempo classe non offre più esempi, “valori”, istanze nette, un quadro di riferimenti ideali con il quale confrontarsi, identificarsi, discostarsi o fare da contraltare appunto. Ma anche perché anni e anni di tagli all’istruzione (sia da governi di destra che di sinistra sia chiaro) conducono spesso a far prevalere l’urgenza di trattare gli argomenti in programma piuttosto che impegnarsi faticosamente a costruire una coscienza, una consapevolezza critica, una qualche sensibilità civica ed etica sul mondo contemporaneo che è sempre più complesso e difficile da leggere e interpretare e non offre più paradigmi operativi semplici da usare quando si parla di diritti per esempio.
L’idea sempre più pressante di far fronte alle crisi che verranno, su tutte quella epocale e “trascendentale” del cambiamento climatico, con una chiusura progressiva all’Altro, con l’isolazionismo, con il conflitto anche fra Paesi vicini, con la regressione al culto della nazione che privilegia il pensare per sé anziché in un’ottica davvero europea, con la paura e la diffidenza verso qualsiasi forma di umanitarismo, prima che essere fulcro di dibattito politico fuori dalla classe, dovrebbe essere il centro di un dibattito scientifico, storico, antropologico e geografico all’interno del mondo della scuola e dell’università, così poi da farsi sì che ogni studente sviluppi i propri mezzi per costruirsi un pensiero critico, una propria capacità di analisi.
Ciò che noto, e ne abbiamo avuto palese testimonianza durante la pandemia, è che nell’età dell’Antropocene manifesto, qualsiasi cosa diventa un oggetto e un luogo – anche spettacolarizzato – della strenua e militarizzata contesa fra opinioni. Ora, come si fa a insegnare storia in questo modo? Come si fa a parlare del dramma umano delle tratte degli schiavi nel periodo coloniale se quel sistema culturale di sensibilità che lo ha definito “dramma”, appunto, sui libri di testi, oggi non ci fa più vivere come un altrettanto “dramma” quello che succede ogni giorno nel Mediterraneo? È una sfida che già nel giro di un anno è diventata più complicata e più ardua e faticosa. Il rischio, oltre all’inefficacia del lavoro storico è anche che si inceppi quel processo di crescita intellettuale, emotiva, personale di studentesse e studenti che dovrebbe condurli a diventare persone e cittadini consapevoli di ciò che è a rischio e ciò che va difeso, di diritti e doveri, a prescindere da opinioni, ideologie, propensioni personali.
Non è la tecnica didattica il punto, quanto il sistema-mondo di riferimento che sta cambiando, la torsione delle istanze fondanti dell’etica, della politica, della cultura. Sono profondamente mutate le narrazioni – come oggi usa dire abusando – a tal punto da sbilanciare e distorcere qualsiasi meccanismo didattico che abbia come orizzonte le società, il mondo, la vita degli individui singoli e degli esseri umani appunto in qualsiasi loro forma di aggregazione nella storia.
La mia è probabilmente una delle ultime generazioni a godere della bolla di pace e benessere che i Paesi cosiddetti occidentali hanno vissuto dagli anni cinquanta in poi. Questo è un privilegio di cui ci si deve fa carico, una fortuna che ci obbliga a fare del nostro meglio per essere testimonianza per le nuove generazioni delle conquiste strappate sul piano dei diritti, della libertà, della pace, dell’accoglienza e dell’apertura al dialogo e alla convivenza. Esiti di lotte, di partecipazione collettiva e di sacrifici che vanno difesi, estesi, ricordati e rinnovati. Per ripensare le migrazioni, la città, la società, la politica. Per immaginare un qualche futuro per l’umanità che verrà.
Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023
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Giuseppe Sorce, laureato in lettere moderne all’Università di Palermo, ha discusso una tesi in antropologia culturale (dir. M. Meschiari) dal titolo A new kind of “we”, un tentativo di analisi antropologica del rapporto uomo-tecnologia e le sue implicazioni nella percezione, nella comunicazione, nella narrazione del sé e nella costruzione dell’identità. Ha conseguito la laurea magistrale in Italianistica e scienze linguistiche presso l’Università di Bologna con una tesi su “Pensare il luogo e immaginare lo spazio. Terra, cibernetica e geografia”, relatore prof. Franco Farinelli.
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