di Valeria Dell’Orzo
Lo spazio dell’uomo è la società, una dimensione fisica e culturale fatta di terra e corpi, di umori e suoni, una geografia mobile e duttile racchiusa entro gli schemi imprescindibili della necessità comunicativa e riconoscitiva. La condivisione di codici è così, nel contesto e nel processo di integrazione e aggregazione, un’esigenza che si impone nella dimensione di interscambio interna a ogni nucleo societario.
Nel mondo dell’inclusione globalizzante, dell’abbattimento delle distanze, della mescolanza etnico-culturale e della scoperta a stretto contatto, la conoscenza e il riconoscimento dei codici comunicativi dell’altro sono priorità che investono, costantemente, ciascuno di noi. Ciò vale con maggiore evidenza per coloro che, con un proprio bagaglio socio-comunicativo si trovano, a seguito di una migrazione, immersi in un sistema espressivo differente, in una realtà non conosciuta e già intimamente strutturata, laddove l’apprendimento dei nuovi codici e la possibilità della loro condivisione entro il nuovo spazio umano, assumono marcatamente la portata di una necessità preponderante e ineludibile.
Le politiche sociali occidentali di accoglienza e integrazione prevedono la conoscenza della lingua ufficiale del Paese ospitante: si sviluppano così grappoli di insegnamenti e verifiche di vario livello, si costruisce il grande impianto dell’apprendimento di una lingua denaturalizzata dal particolarismo delle microrealtà locali entro le quali, effettualmente, si inserisce l’uomo con la sua quotidianità, si istituzionalizza cioè la regola di una lingua spesso poco funzionale entro i confini del concreto inserimento sociale e fisico di cui necessita chi si immerge in una realtà nuova e spesso distante dalla propria.
Se è vero che «in Italia non esiste una vera e propria lingua italiana nazionale… Così se io dovessi descrivere in modo sintetico e vivace l’italiano, direi che si tratta di una lingua non, o imperfettamente, nazionale, che copre un corpo storico sociale frammentario…»1, come spiegava con lungimiranza più di trent’anni fa l’acuto indagatore sociale Pier Paolo Pasolini, allora la guida all’apprendimento linguistico dovrebbe includere e superare i limiti della koinè impersonale e generalizzata qualora si volesse perseguire una reale politica di inclusione sociale, caratterizzata dall’individuale rapporto uomo-uomo e connotata nell’unicum delle realtà locali.
Addentrandosi nello spazio fisico dell’incontro, ci si rende conto di quanto sia poco usata, e dunque poco utile per le dinamiche di comunicazione e conoscenza, la lingua ufficiale. La realtà sociospaziale, entro la quale concretamente si dispiegano la quotidianità del singolo e il simbiotico scambio con l’Altro, prevede al fianco del sistema linguistico verbale, plasmato su particolarismi locali, un complesso e ricco insieme di codici non verbali, mimici e gestuali, capaci di tradurre concetti articolati nell’immediatezza di uno sguardo che coglie un movimento o un’espressione. «L’adattamento consiste allora nella forma di apprendimento di competenze specifiche a una cultura che sono richieste per negoziare significati nel nuovo contesto come: gli elementi verbali e non verbali della comunicazione; l’espressione di attitudini, sentimenti ed emozioni; la routine ritualizzante; la prossemica; l’interazione oculare; il saper fare o rifiutare richieste; l’autoaffermazione; la risoluzione dei conflitti; le regole e le convenzioni»2: tutto questo va appreso e attuato nell’incontro di ogni giorno, nel contatto che vuole scongiurare l’equivoco che porta in sé distanza e ostilità.
Osservando la microrealtà delle vie di Palermo ci si imbatte in uno dei più ricchi e strutturati sistemi linguistici non verbali. Tutto è un gesto, una smorfia, uno sguardo torvo e penetrante, una ricerca di assenso negli occhi di un momentaneo compagno d’avventura, appena incrociato e già solidale di fronte all’episodio al quale ha assistito. Il volto e le mani si muovono comprimendo in un cenno domande e risposte elaborate, pareri, giudizi, avvertimenti e intimidazioni esplicite, allusioni sottintese e scherni sfumati. Ề un sistema che permette la comunicazione, non verbalizzata, di concetti complessi, un apparato di condivisione immediata al quale si affida la trasmissione di informazioni essenziali al mantenimento degli equilibri societari, dominio indiscusso della pratica e dell’osservazione empatica dell’Altro. La capacità di compressione descrittiva e di sintesi concettuale, che contraddistingue questo linguaggio, ne ha reso indispensabile la competenza, non solo per coloro che di questo sistema fanno da sempre parte, ma anche per coloro che vi si inseriscono provenendo da realtà distanti e differenti.
Nel momento in cui si passa da un Paese a un altro, «improvvisamente le regole del gioco cambiano e le pratiche di efficienza e di efficacia che ci facevano sentire perfettamente a nostro agio si trasformano in trappole micidiali, a meno che non sappiamo trasformarle. Per innovare e adattare una pratica dobbiamo però diventare consapevoli dei presupposti che sono alla base di un comportamento e di un valore, cercando di capirne i significati. Questa operazione non è affatto ovvia: diventare consapevoli degli assunti che stanno alla base dei nostri comportamenti quotidiani è un’operazione che richiede attenzione e sensibilità per mettere in discussione tutto ciò che diamo per scontato»3, concettualizzando le esperienze maturate sul piano della pratica e dell’interscambio.
Inserirsi realmente in questo nuovo spazio comunitario vuol dire apprendere e condividere i codici comunicativi presenti nel nucleo di accoglienza: il linguaggio realmente in uso, verbale e non, è uno dei massimi strumenti di inclusione sociale, è dunque il più importante da imparare essendo concretamente e assiduamente utile, ed è al tempo stesso anche quello che, passando attraverso l’osservazione, l’uso e la condivisione, viene acquisito prima, è un linguaggio cogente e necessario, una competenza funzionale dalla quale non si può prescindere. Accade spesso che l’immigrato si trovi così a possedere un buon grado di conoscenza dei codici locali, o una loro vera e propria padronanza, ancor prima che l’istruzione imposta della canonica lingua italiana venga completata e esaminata, quale mera tappa dei burocratismi socio-assistenziali che infarciscono le politiche nazionali in materia di immigrazione. Politiche o assenza di vere politiche, comunque inficiate dal grave e profondo scollamento tra l’astrattezza delle teoriche strutture e la concretezza delle realtà umane.
Dialoghi Mediterranei, n.4, novembre 2013
Note
1. Pasolini P.P., Empirismo eretico. Lingua, letteratura, cinema: le riflessioni e le intuizioni del critico e dell’artista, Garzanti, Milano, 1991, p.5.
2. Castiglioni I., La comunicazione interculturale: competenze e pratiche, Carocci, Roma, 2008, p. 115.
3. Idem, p. 10.