di Stefano Montes
Da qualche tempo, io e mio figlio – Mattia Montes – collaboriamo al fine di produrre, insieme, delle etnografie il cui scopo è fondamentalmente quello di cogliere aspetti diversi della realtà – sia esteriore sia interiore all’individuo – attraverso lo scritto e la foto. Mattia fotografa e io scrivo sulla base di un progetto comune e di un dialogo aperto – sistematico, in divenire, per aggiustamenti progressivi – incentrato sulla possibile forza di rappresentazione dei nostri strumenti di lavoro e sulle capacità di posizionamento che noi stessi abbiamo rispetto al mondo e alle interazioni quotidiane.
L’intento è di trasformare due strumenti di riproduzione della realtà – la fotografia e la scrittura sono sovente viste in questo modo – in un dialogo tra noi due, intergenerazionale, oltre che in uno scambio di prospettive tra quelle che sono in effetti forme di trasposizione e codificazione del processo da noi vissuto in prima persona.
Il progetto è largamente interdisciplinare e non ha a che fare unicamente con la fotografia. Riguarda la semiotica e la teoria delle immagini, naturalmente, ma anche – se non di più – l’antropologia del linguaggio e l’antropologia dialogica. Per molti aspetti, il nostro progetto si imposta su tratti simili a quelli definiti da Goodwin, un noto antropologo del linguaggio:
«Nel mondo sociale vissuto, un possibile ambiente originario dal quale emerge la lingua è costituito da una situazione nella quale molti partecipanti utilizzano il discorso per portare a compimento, cooperando fra loro, determinati corsi di azione. Nel far ciò gli individui coinvolti prestano spesso attenzione ai fenomeni che li circondano, stabilendone di volta in volta la relativa pertinenza ai fini dei progetti d’azione in corso; ecco perché di tale processo possono entrare a far parte pratiche la cui visione e la lingua interagiscono, sviluppandosi reciprocamente in un gran numero di modi diversi» (Goodwin 2001: 401).
Goodwin lavora in contesti vari, di tipo non esotizzante, quali un’aula giudiziaria, un sito archeologico, un gioco per strada oppure un aeroporto (Goodwin 2003). Io e Mattia, da parte nostra, abbiamo realizzato due studi, in passato, su luoghi diversi: il primo, su Ballarò, un mercato popolare; il secondo, su alcune zone di Palermo che avevano acquisito nel tempo un ruolo particolare per i miei ricordi.
Si potrebbe obiettare che ciò che abbiamo inteso fare ha a che vedere con l’etnografia visuale dei mercati popolari (nel primo caso) o con l’etnografia visuale del ricordo spazializzato (nel secondo caso). E così è per molti aspetti. In realtà, bisogna sottolineare che il nostro progetto riguarda anche – se non di più – i modi in cui è possibile lasciare interagire le foto con lo scritto e viceversa.
Lo scritto è comunemente, più banalmente, concepito come un accompagnamento alle foto che tradurrebbero, più direttamente e classicamente, la realtà in immagini. Nel nostro progetto, invece, scritto e immagini si accompagnano vicendevolmente collaborando dialogicamente nell’attribuzione di senso al mondo e alle interazioni.
Insomma, l’intenzione è di fare dialogare scritto e immagine, in un vero e proprio scambio che impegna sistemi e processi diversi volti a tradursi reciprocamente – si parla di traduzione intersemiotica – diventando infine, a cose fatte, oggetti dello sguardo e della altrui lettura.
L’ipotesi di traduzione intersemiotica, alla quale alludiamo, risale a Jakobson e «consiste nell’interpretazione dei segni linguistici per mezzo di sistemi di segni non linguistici» (Jakobson 1966: 57). Rispetto a Jakobson, la fondamentale differenza è che noi intendiamo ‘tradurci reciprocamente’ a partire da un contesto vissuto e direttamente esperito.
La nostra idea, sostanzialmente, è che i sistemi di segni non costituiscono un mero rimando alla realtà riprodotta, in qualche modo interponendosi e collegandosi ai referenti; secondo noi, la realtà stessa è già un linguaggio che richiede dialoghi e traduzioni. Come scrive Lotman: «la realtà extralinguistica è anch’essa concepita come una certa lingua» (Lotman 1993: 16).
Un altro punto di rilievo, irrinunciabile, nel nostro progetto, è l’elemento narrativo riguardante non soltanto lo scritto ma anche le foto che, in sequenza, tendono a raccontare anch’esse una storia più estesa. Una foto può ovviamente acquisire un valore in sé, separatamente dalle altre. Non c’è dubbio su questo!
Nel nostro lavoro congiunto, tuttavia, tendiamo a costruire un tessuto sintagmatico più ampio che ingloba la figuratività dello scritto e la narratività della foto. Se è vero che anche le foto raccontano storie, è allora tanto più legittimo lavorare in questo senso amplificandone la portata.
Non vogliamo dire che il rapporto instaurato tra foto e scritto non sia problematico. Ne siamo consapevoli. Ragion di più, tuttavia, per scommettere sulle potenzialità prodotte dall’intreccio narrativo e descrittivo di scritto e foto. Non vogliamo nemmeno dire che una foto non possegga una qualità estetica verso la quale, comunque sia, tendere. Intendiamo ribadire il fatto che, al di qua e al di là di un principio estetico da non trascurare, scritto e foto si legano in un tutt’uno semioticamente e antropologicamente efficace.
Una domanda che, di volta in volta, ci poniamo è la seguente: che tipo di narrazione specifica si produce nell’incontro tra le due modalità di trasposizione e traduzione delle realtà quali sono la foto e lo scritto? C’è in gioco, tra le altre cose, anche il significato da dare al concetto di rappresentazione. Cosa è rappresentare, in sostanza, in contesti diversi? Io e Mattia pensiamo che la narrazione, nel suo complesso, costituisca una vera e propria forma di rappresentazione.
Più classicamente, tuttavia, se si pensa alla narrazione vengono in mente l’oralità e la scrittura. E l’immagine viene solitamente relegata nell’ambito della più specifica rappresentazione della realtà. In una prospettiva più moderna, tuttavia, anche all’immagine viene attribuito un minimo nucleo narrativo perché racconta una storia che, raramente, ha vita solitaria, ma si inserisce in una sequenza di altre immagini che la precedono e che seguono.
Ciò vale anche per il parlare: «lungi dall’esser collocato esclusivamente nella vita mentale del parlante, si costituisce attraverso le posture – visibili e distinte le une dalle altre – dei corpi di ciascuno dei partecipanti organizzati in campi interattivi polivalenti» (Goodwin 2001: 402). Noi, tutti, siamo posizionati nello spazio ed è proprio in virtù di tale posizionamento che siamo in condizioni di vedere ciò che vediamo e non altro: la visualità è quindi strettamente collegata al posizionamento assunto dal soggetto nel mondo e alla composizione sintattica delle immagini presa in conto.
Se è dunque vero che un’immagine può essere concepita in sé, in associazione alla parte di mondo a cui fa riferimento, è anche più vero che essa si situa in una serie, più ampia e inglobante, produttrice di senso. Questa assegnazione di un assetto semantico di tipo narrativo alla foto si fonda su quello che è, per noi, un vero e proprio attraversamento concettuale: i referenti non stanno da una parte e i significati dall’altra; semmai, sono strettamente collegati dalle modalità narrative instaurate tra le foto stesse.
È bene inoltre ribadire qui il principio che il rapporto tra visione e pensiero è indubbio: «non c’è visione senza pensiero. Ma non è sufficiente pensare per vedere: la visione è un pensiero condizionato, nasce in ‘occasione’ di ciò che accade al corpo, e dal corpo è ‘stimolata’ a pensare» (Merleau-Ponty 1989: 37-38).
Un altro elemento di spicco del nostro progetto riguarda l’esperienza e le sue modalità di ‘cattura’. Il principio di partenza è che il vissuto esperito non è mai immobile o statico. Qualsiasi tipo di trascrizione o trasposizione rende soltanto in parte la vita e la realtà stessa. Impossibile, dunque, annullare del tutto la discontinuità posta tra il processo e la trasposizione in testo e immagine. Ragion di più – diciamo noi – per produrre intrecci efficaci di foto e testi che meglio colgono il processo e la sua messa in forma imperfetta. Noi stessi facciamo parte di questi intrecci: non siamo al loro esterno, affacciati a una sorta di balcone metaforico.
Riteniamo opportuno, quindi, che vi sia, nel nostro lavoro congiunto, un altro grado di riflessività e d’implicazione. «La questione dell’implicazione è quella della relazione del ricercatore con il suo oggetto, dello studioso di pratiche con il suo campo, dell’uomo con la sua vita» (Lourau 1997: V).
Le foto che Mattia ha raccolto in questo studio sono il risultato di un viaggio compiuto in Nord Italia, con un amico, al quale io non ho partecipato in presenza. Tuttavia, l’idea convenuta – prima della partenza di Mattia – era che questo suo viaggio fosse una continuazione del nostro progetto sull’attraversamento dei luoghi, sul divenire delle immagini e dell’equivalente esperienza soggettiva che un fotografo assume rispetto a un oggetto al quale egli si confronta.
Abbiamo selezionato insieme le immagini da presentare per questo numero della rivista consapevoli del fatto che, anche questo, costituisce un dialogo tra noi, nel presente e nel passato, tra i nostri modi di vedere il viaggio e gli stessi sistemi di trasposizione quali la scrittura e la fotografia. Mattia ha attraversato le città che ha visitato. Il dialogo è un vero e proprio attraversamento intersoggettivo (Bachtin 1979). Io ho scritto questo testo, sulla base degli accordi presi con Mattia, che spiega gli elementi di base del nostro progetto generale e fornisce alcuni spunti di lettura per lo spettatore relativi al viaggio di Mattia.
La domanda che si è fondamentalmente posta Mattia durante il suo viaggio è la seguente: che tipo di attraversamento è quello urbano e come tradurlo in foto che lo rendano al meglio? Mattia si è concentrato sostanzialmente su due categorie di attività urbana: il passaggio e la sosta.
La maggior parte della foto raccolte in questo saggio fotografico hanno dunque a che vedere con queste categorie riproponendole in diverse varianti fotografiche che, paradossalmente, poco hanno a che vedere con una idea di metropoli frenetica e chiassosa quale è Milano, per esempio, o quale è Venezia in un ambito turistico parossistico.
L’effetto finale, nonostante tutto, nonostante la grande mobilità che si rileva nella stragrande maggioranza delle foto, è di estrema pacatezza e sospensione. Effetto voluto intenzionalmente da Mattia, ci si potrebbe chiedere, o pregnanza specifica della città visitate che coniugano mirabilmente frenesia e sospensione magica? Come scrive Bateson, «i ‘dati’ non sono eventi o oggetti, ma sempre registrazioni o descrizioni o memorie di eventi o di oggetti» (Bateson 1977: 22). È quindi possibile che questo effetto di sospensione sia dovuto al modo di fotografare di Mattia e alla sua disposizione d’animo in quel periodo.
Un altro modo di rispondere alla questione è che, nelle etnografie già prodotte insieme – io scrivendo, lui fotografando – in passato, abbiamo cercato di cogliere il processo nella sua forma intermedia, in una forma più prossima alla concezione orientale che a quella occidentale: radicata, cioè, in «un’altra vocazione del tra, quando questo non è più ridotto allo statuto di intermediario o di grado, tra il più e il meno, ma si dispiega come l’attraverso che lascia passare» (Jullien 2016: 179). Consapevolmente o meno, Mattia ha forse applicato questo principio anche in questo caso? Ai lettori e spettatori la risposta finale!
Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023
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Riferimenti bibliografici
Bachtin M., Estetica e romanzo, trad. di C. Strada Janovič, Einaudi, Torino, 1979 (1975)
Bateson G., Verso un’ecologia della mente, trad. di G. Longo e G. Trautteur, Adelphi, Milano, 1977 (1972)
Goodwin C., “Visione”, in Culture e discorso. Un lessico per le scienze umane, a cura di A. Duranti, trad. di A. Perri e S. Di Loreto, Meltemi, Roma, 2001 (2001): 401-406
Goodwin C., Il senso del vedere, trad. di A. Perri, Meltemi, Roma, 2003
Jakobson R., “Aspetti linguistici della traduzione”, in Saggi di linguistica generale, trad. di L. Heilmann e L. Grassi, Feltrinelli, Milano, 1966 (1963): 56-64
Jullien F., Essere o vivere. Il pensiero occidentale e il pensiero cinese in venti contrasti, trad. di E. Magno, Feltrinelli, Milano, 2016 (2015)
Lotman J. M., La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità, trad. di C. Valentino, Feltrinelli, Milano, 1993 (1993)
Lourau R., Implication Transduction, Anthropos, Paris, 1997
Merleau-Ponty M., L’occhio e lo spirito, trad. di A. Sordini, SE, Milano, 1989 (1964).
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Stefano Montes, insegna Antropologia del linguaggio e Antropologia dei processi migratori e dei contesti culturali presso l’università di Palermo. In passato, ha insegnato all’università di Catania, Tartu, Tallinn e al Collège International de Philosophie di Parigi. È stato inoltre direttore di ricerca di un team franco- estone con sede principale nell’Università di Tartu. In seguito, è stato anche direttore di ricerca per due anni di un team franco-estone con sede nell’Università di Tallinn. Ha pubblicato in diverse riviste nazionali e internazionali. I suoi temi d’interesse principale riguardano soprattutto i rapporti tra linguaggi e culture, tra forme letterarie e forme etnografiche. Più recentemente, si è interessato ai processi migratori e alle pratiche del quotidiano con particolare riguardo all’intreccio instaurato tra attività cognitive e agentive.
Mattia Montes, viaggiatore fin dalla tenera età, prima in famiglia, poi da solo, ha sviluppato una passione di lunga data per la fotografia che ha trasformato, nel tempo e nei diversi luoghi in cui ha vissuto, in una riflessione sulle immagini e sull’immaginazione, nonché sulle modalità attraverso cui la fotografia stessa diventa sedimentazione della memoria ed elemento di soggettivazione individuale e sociale nel mondo. Oltre che alla pratica e teoria della foto, si interessa agli oggetti, al loro ruolo simbolico, e si considera appassionato collezionista di macchine fotografiche d’epoca.
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