“Porca madosca”. È a partire da questa espressione pronunciata da Stefano Bettarini nel programma televisivo “Il Grande Fratello Vip”, 2020, che nasce l’idea, da parte di alcuni autori, di discutere e di riflettere sulla questione della blasfemia; idee che sono state raccolte nel volume collettaneo dal titolo Non c’è bestemmia. Scritti sul parlato riprovevole, curato da Giovanni Pieri insieme ad un gruppo di studiosi, tra cui l’antropologo culturale Pietro Clemente, Florio Carnesecchi, Paolo De Simonis, il linguista Luciano Giannelli e il giurista Gianfranco Macciotta. Un testo interessante non solo da un punto di vista sociologico ma soprattutto antropologico e linguistico, che individua a partire dalla presunta enunciazione di blasfemia di Bettarini – che di certo non costituisce né l’unico né il primo caso di “parlato riprovevole” pronunciato durante un reality-show – lo spunto per comprendere il carattere culturale della bestemmia.
L’idea di fondo che viene presentata dagli autori nel testo, anche se da punti di vista diversi, è che ci sono espressioni che non sono delle vere e proprie bestemmie ma degli eufemismi, ossia, non sono delle vere e proprie «asserzioni diffamanti nei confronti della religione o della divinità» ma esclusivamente dei processi di parole che «consistono nel sostituire il nome di Dio con un oltraggio», o meglio come un’esclamazione, ossia, per dirla con Benveniste, «una parola che ci si “lascia scappare” sotto l’impeto di un sentimento vivo e repentino, brusco e violento, come la stizza, il furore o il disappunto»
A tale scopo, per sgomberare il campo da possibili fraintendimenti di senso che si celano dietro l’analisi etimo-logica di un termine così complesso e ambiguo, che ha radici profonde – blasphēmia in greco significa tanto insulto che bestemmia – gli autori propongono una analisi etimo-logica del termine stesso.
In particolare, De Simonis, citando Carnesecchi, ricorda come sia stato proprio uno dei più grandi linguisti francesi del Novecento, di origine siriana, Émile Benveniste, ad aver messo in luce non solo la profonda differenza tra blasfemia ed eufemia, ma anche lo stretto legame che intercorre tra il giuramento e la bestemmia. Come emerge nel suo studio su La blasfemia e l’eufemia, osservazioni che Benveniste sviluppa per un colloquio organizzato dal Centro Internazionale di Studi umanistici di Roma nel 1966 su L’analisi del linguaggio teologico. Il nome di Dio, tanto nella blasfemia, quanto nel giuramento deve apparire il nome di Dio; in entrambi i casi si prende Dio a testimone: nel caso del giuramento il nome di Dio viene invocato come testimone supremo della verità e come devozione al castigo divino in caso di spergiuro, nel caso della blasfemia il nome di Dio compare per essere profanato: «la bestemmia è un giuramento, ma un giuramento di oltraggio» e «si bestemmia il nome di Dio, perché tutto ciò che di Dio possediamo è il suo nome» (Cfr. Benveniste 1966), vale a dire una «pura articolazione vocale». Ci sembra opportuno riportare per esteso quanto affermato da Benveniste:
«La blasfemia si manifesta come esclamazione e presenta la sintassi delle interiezioni di cui costituisce la varietà più tipica; essa utilizza solo forme significanti, a differenza delle interiezioni-onomatopee che sono dei gridi (oh! ahi! ehi!…), e si manifesta in circostanze specifiche. Allorché si studia il fenomeno linguistico della blasfemia, occorre restituire tutta la sua intensità al termine “esclamazione”. Il Dictionnaire Général definisce l’esclamazione come grido, parole brusche che ci si lascia scappare per esprimere un sentimento vivo e repentino. Anche la bestemmia è appunto una parola che ci si “lascia scappare” sotto l’impeto di un sentimento brusco e violento, come la stizza, il furore o il disappunto. Questa parola, benché dotata di senso, non è tuttavia comunicativa, ma solamente espressiva. La formula pronunciata nell’atto di blasfemia non si riferisce in particolare ad alcuna situazione obiettiva; la stessa bestemmia viene infatti proferita in circostanze del tutto diverse dato che esprime solo l’intensità di una reazione a tali circostanze» (Benveniste 1974, trad. it. 1985, cit.: 289).
In tempi recenti è stato proprio Giorgio Agamben a soffermarsi sullo stretto legame, sulla prossimità fra bestemmia, spergiuro e giuramento in Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento (2008), sottolineando la messa in crisi della nozione classica di giuramento e la sua connessione con l’antropogenesi.
In questa nostra ricostruzione daremo, infatti, più importanza ad un approccio logico-linguistico piuttosto che storico-politico, consapevoli del fatto che la spinosa questione dell’imprecazione costituisce un problema non solo per il linguista alle prese con l’ambiguità tipica di questo termine e il complesso rapporto fra il nome e la cosa ma anche per lo psicologo alle prese con la sfera inconscia e gli stati emotivi, oltre ad avere anche una valenza sociale, politica e storica. Pertanto, ci soffermeremo sulla natura di interiezione, ossia, sulla natura essenzialmente non semantica, ma esclamativa propria dell’espressione pronunciata da Bettarini così come emerge nel capitolo “A proposito di enunciati apparentemente blasfemi. La bestemmia? Un relitto teocratico” di Pietro Clemente e nel capitolo “Una nota sulla fenomenologia della bestemmia” di Luciano Giannelli per concludere con il capitolo dal titolo “Le bestemmie e il linguaggio poetico” di Florio Carnesecchi, tralasciando la valenza giuridica, seppur importante, di certe espressioni ritenute blasfeme così come è stata analizzata da Gianfranco Macciotta.
Ciò vuol dire che l’espressione “porca madosca”, e nello stesso senso le espressioni pronunciate dai calciatori, sono soltanto una serie di interiezioni che vanno intese essenzialmente come delle esclamazioni che designano non tanto una cosa, «quanto piuttosto una determinata impressione, che si produce di fronte a tutto ciò che è inconsueto, stupefacente, atto a suscitare ammirazione o timore» (Cfr. Cassirer, Linguaggio e mito, 1961). Nell’esegesi delle parole pronunciate da Bettarini sembrerebbe che si sia introdotta una confusione tra i valori di langue e quelli di parole, tra quelli di significato e quelli di significante, in senso saussuriano. Le accezioni religiose e blasfeme che si danno ad espressioni come “porca madosca” con tutte le risonanze, associazioni, inferenze che ne implica dipendono dalle “parole”. Il significato di queste espressioni non va collegato al dire o offendere una divinità ma va rintracciato piuttosto nella possibilità di ripetere una forma ti tipo esclamativo, di natura di interiezione, a partire dall’idea astratta di tale forma.
Il nome di Dio, sciolto dal nesso significante, dalla sua forma, diventa interiezione, parola vana e insensata, che proprio attraverso questo divorzio dal significato, dal contenuto diventa disponibile per esprimere rabbia o una particolare emozione. In questo senso ripetere espressioni come “porca miseria”, “maremma maiala”, ecc. hanno a che fare solo a primo acchito con una forma di blasfemia, ma possono essere compresi, a nostro avviso, alla luce di un particolare impeto violento che lascia intravedere la natura aggressiva, violenta dei sapiens, producendo così un parlato riprovevole ma che elimina al suo interno l’unicità del divino, e tentando di domare, di controllare tale impulso, costringendo l’aggressività su binari innocui. Ciò che caratterizza il comportamento dell’animale umano è proprio questo squilibrio preoccupante presente fra i suoi istinti aggressivi e i modi per inibirli o sfogarli, e ciò ci permette di capire perché la bestemmia susciti l’eufemia, perché una tale esclamazione susciti subito una censura: «Ecco quindi come i due moti si integrano vicendevolmente: l’eufemia non reprime la blasfemia, essa la corregge nella sua espressione di parole e la rende inoffensiva in quanto bestemmia» (Benveniste, cit.:290).
De Simonis, riportando alcuni commenti al brano di memoria pubblicato su Facebook dallo scrittore e giornalista Saverio Tommasi, conferisce massimo risalto a questa componente aggressiva, a questa «parola dotata di senso ma tuttavia solamente espressiva» in quanto esprime solo l’intensità di una reazione a circostanze del tutto diverse tra di loro:
«Non è bello sentirlo, ma a me, toscana e atea, ogni tanto parte lo striocco, oltre la logica e il ragionamento, così di getto. In un moto arcaico la rabbia esce dalla bocca per non rimanere intrappolata nello stomaco o nel cuore, in modo terapeutico».
E se si attribuisce a queste espressioni un significato diverso è solo per un retaggio di tipo morale, culturale e religioso diffuso nella nostra penisola. La pronuncia di eufemismi è altrettanto diffusa e comune in particolar modo nella lingua parlata, scritta e letteraria di alcune regioni di Italia come la Toscana, in forme esclamative del tipo “maremma” (“accipicchia!”). “Maremma, madosca (“perdinci”, perbacco!”), mammina” sono solo le reliquie di quella interiezione originaria che era la bestemmia e che il fiume del linguaggio umano si trascina nel suo divenire storico. E se c’è qualcuno che lega in maniera strumentale queste espressioni a delle vere e proprie bestemmie è solo perché continua a vedere una parte, una proprietà che in origine la bestemmia aveva, vale a dire, nominare il nome di Dio invano e quindi legando la blasfemia ad un oltraggio nel senso di offendere una divinità.
A questo proposito Pietro Clemente nella sua indagine non solo mostra i legami interni che la blasfemia e l’eufemia condividono, e che sono stati messi in risalto dallo stesso Benveniste, ma tenta di chiarire anche le stratificazioni di senso che tali espressioni portano con sé, perché è ovvio che se le due espressioni sono legate, il loro legame risulta essere un legame che richiama uno slittamento di senso che nulla ha a che vedere con il voler offendere la divinità. In questi termini salta subito all’occhio che espressioni come quelle utilizzate da Bettarini, assumono un nuovo orizzonte di significato svincolato dal sacro, ripetendo al suo interno l’espressione blasfema non nella sua interezza ma solo una parte di essa o meglio ancora una proprietà che essa possiede. Più precisamente, come sottolineato da Nora Galli De’ Paratesi, citata da De Simonis: «L’espressione eufemistica si realizza, di solito, operando sul secondo termine, quello sacrilego, mantenendo la prima o le prime sillabe e iniziando l’attenuazione dalla prima sillaba post-fonica» (Galli De’ Paratesi N., Le brutte parole, Milano, Mondadori, 1969: 45).
O ancora come sottolineato da Collodi, citato sempre da De Simonis:
«La bestemmia, in bocca al fiorentino, perde molte volte il suo carattere ereticale e ci fa piuttosto la figura di un pleonasmo inarmonico, d’una interiezione sguaiata, d’una parafrasi più indecente che rettorica, messa lì per ripieno, tanto da portare in fondo il discorso. Togliete ai fiorentini la bestemmia, e torna quasi lo stesso che portargli via mezzo vocabolario della lingua parlata» (Collodi, Anche il sole ha le sue macchie, in Id., “Occhi e nasi”, Firenze, R. Bemporad & Figlio, 1892: 209-213: 209).
Espressioni come quelle citate non dovrebbero più far scandalo; nessuno si scandalizzerebbe più oggi, almeno non si scandalizzerebbe più come un tempo, di fronte a un “porca miseria” che poi non è così lontano da un “porca madosca”, oppure se si ascolta una canzone come “Guatemala Guatemala” degli Squallor, dove non a caso uno dei componenti di questo gruppo musicale è un fiorentino, o si legge una poesia di Pasolini; basti ricordare che “bestemmia” è anche il titolo che raccoglie tutta la sua opera poetica. Non si tratta banalmente di utilizzare espressioni “brutte” ma paiono anche rispondere a una logica del ritmo e della rima; nonostante la loro carica oscena, in questi testi, sembrano assumere una certa armonia o “funzione poetica” così come viene intesa da Jakobson; o ancora se si dovesse vedere un’opera di arte concettuale, provocatoriamente intitolata la Blasphemy Box, ideata da Agostino Granato e realizzata da Francesco Cuccurullo, «una sorta di confessionale portatile da installare temporaneamente nei luoghi pubblici per soddisfare le proprie necessità blasfeme», esposta durante il festival delle arti per la libertà d’espressione contro la censura religiosa il “Ceci n’est pas un blasphème” a Napoli.
Il superamento della paura del sacro e del legame con il sacro, di essere puniti se si pronuncia il nome di Dio invano è da leggere all’interno di un meccanismo più complesso, che mostra quanto sia difficile seguire una regola, rimanere nell’alveo del fiume senza farsi trasportare dal flusso d’acqua, anche se una distinzione netta tra il movimento dell’acqua nell’alveo del fiume, e lo spostamento di quest’ultimo, non c’è, come sottolineato da Wittgenstein in Della Certezza; quanto sia difficile, cioè, essere padroni delle parole, essere come il personaggio di Carroll, Humpty-Dumpty, un bizzarro padrone della lingua che fa fare alle parole quello che vuole solo lui. E sembra che lo stesso Jakobson sia consapevole di ciò quando scrive in Saggi di linguistica generale (1963: 186) che «lo strato puramente emotivo, nella lingua, è rappresentato dalle interiezioni» che differiscono dai processi del linguaggio referenziale.
In gioco, dunque, all’interno delle espressioni analizzate vi è una inconciliabilità, uno scollamento, una non corrispondenza fra parole e cose, fra forma e contenuto; da qui il desiderio di superare l’unicità del sacro e giungere alla desacralizzazione o desemantizzazione, laddove si imitano espressioni giudicate blasfeme sostituendole con una espressione lontana o indebolita del significato originario.
È in questa prospettiva che va riletta l’espressione utilizzata da Bettarini o delle interiezioni. Nessun stadio magico della lingua è presente, nessun potere magico del nome così come lo si incontrava nelle formule magiche di molte culture osservate e studiate da Ernesto de Martino o Mircea Eliade. Proprio la ri-costruzione che gli autori fanno nel libro della bestemmia permette, infatti, di comprendere in una nuova luce l’espressione “porca madosca”, che si caratterizza per una sospensione del normale carattere denotativo del linguaggio, che «non trasmette alcun messaggio, non apre alcun dialogo, non richiede risposta o la presenza di un interlocutore».
Dialoghi Mediterranei, n. 61, maggio 2023
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Valeria Dattilo, Ph.D., è docente a contratto di Semiotica per il Design presso il Dipartimento di Architettura dell’Università “G. D’Annunzio” Chieti-Pescara. Attualmente è anche borsista di ricerca all’Università di Teramo dove lavora su “Legal Semiotics”, sul rapporto tra semiotica e processi giuridici. Ha pubblicato numerosi articoli su riviste nazionali e internazionali. Nel 2022 ha curato un numero sulla rivista scientifica Filosofi(e)Semiotiche, di cui è editor-in-chief, dal titolo “Tra etica e semiotica. Segni e natura nell’era dell’Antropocene”.
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